Archivio mensile:aprile 2021

Ode a Tina Venturi, divina maestra di tutto

Se sapessi scrivere poesie, avrei composto un poema in onore di Tina, alla quale dedico invece una più modesta ode in prosa. Provo nei suoi confronti infinita gratitudine per tutto quello che mi ha insegnato, e bisogna dire che l’elenco dei suoi insegnamenti è piuttosto lungo.

Il punto è proprio questo: Tina sa fare quasi tutto. Sa recitare, doppiare, speakerare, parlare in pubblico, scrivere, editare, leggere e soprattutto sa analizzare i testi letterari solo come la mia insegnante del liceo, Gabriella Untersteiner, sapeva fare. Ma non finisce qui: Tina sa insegnare tutto quello che sa, e siccome sa tanto, mentre ti insegna qualcosa, tu ne impari anche un altro paio. Proprio mentre ti sembra che stai solo imparando a leggere un testo letterario, imparerai anche a “editarlo” con la voce. Perchè Tina mi ha insegnato che rileggere a voce alta un proprio testo è il migliore degli editing che si possano fare.
Ma vado con ordine e racconto tutta la storia.

Ho scoperto quasi per caso che esisteva un corso di lettura ad alta voce, tenuto da Tina che allora non conoscevo. Ecco, si era accesa una lampadina: cosa sarebbe successo se ci avessi provato anch’io? Ho passato la vita a combattere contro una balbuzie che mi ha tormentato fino ai trent’anni e ritorna quando sono nervosa, e ho anche una bella diagnosi di dislessia. Se un testo non è scritto a caratteri grossi, faccio fatica ad affrontarlo, mi stanco subito.
Sarei stata una schiappa, insomma, a leggere a voce alta, ma all’improvviso ho capito che volevo sapere COME SI FA!

E così ho conosciuto Tina, in una sera milanese prima che iniziasse il lockdown dello scorso marzo. Sono entrata nella stanza dove si sarebbe svolto il corso e l’ho vista. SIMPATICA, che faccia simpatica che aveva! Non sembrava un’intellettuale da salotto, come mi sarei aspettata, visto l’argomento del corso. Perchè Tina ha un’altra grande qualità: nasconde le infinite cose che sa (e che sa fare) sotto un’aria da svampita che produce un effetto ilare in chi la osserva. Tina sembra appena scesa da un’astronave e si guarda intorno curiosa come un marziano atterrato a Roma, a Villa Borghese. Ha sempre lo smalto, il rossetto, anelli, braccialetti, monili e altri orpelli, e poi sa fare l’analisi perfetta di un testo di Whitman o della Dickinson, e intanto sorride e ammicca come se ti stesse spiegando come si prepara la crostata al cioccolato e pere.

Insomma, Tina è serissima in tutto quello che fa, ma veleggia per il mondo con una lievità da farfallina adolescente che ha appena scoperto l’esistenza dei fiori e PLUF!, infila il suo nasino contento tra le corolle.
Forse è proprio questa dote della leggerezza che permette a Tina di spiegare ai suoi allievi come si legge (ad altra voce) o si recita un testo. Non ho mai provato fatica durante le sue lezioni, anzi il tempo passava troppo in fretta mentre noi allieve (eravamo tutte donne) scoprivamo qualcosa di noi stesse mentre leggevamo ad alta voce.

Incredibile infatti come la sola esperienza di leggere un testo davanti agli altri riveli aspetti di te che non conoscevi. La timidezza, per esempio, diventa letteralmente esplosiva se devi affrontare una lettura in pubblico e la voce si fa sottile e tremolante (non era il mio caso…). Leggere a voce alta davanti agli altri è una specie di psicoterapia di gruppo, dove scopri delle parti di te che tenevi nascoste ma devi guardare in faccia per trovare la tua voce. Ognuno di noi può trovare la sua voce (questo l’ho imparato da Tina), anche se si tratta di fare un viaggio in profondità (dentro di noi ma anche nei testi letterari) che Tina sa guidare con una mano delicatissima ma decisa.

Nelle serate passate con Tina ho scoperto che l’unico modo per saper leggere un testo è averlo analizzato a fondo, assimilato, gustato e fatto risuonare nelle nostre cavità emotive, prima di poterlo finalmente DIRE. E poi bisogna imparare a SENTIRE come diciamo il testo, che in realtà è DIFFICILISSIMO. Noi siamo così abituati a sentire la nostra voce che non riconosciamo le cantilene di cui siamo ignari, e che in realtà tolgono ogni naturalezza alle nostre letture a voce alta. Tina è bravissima a farti SENTIRE LA TUA VOCE: sa riprodurre gli errori non solo di dizione ma anche di intonazione che facciamo senza rendercene conto.

Inutile dire che solo la sua gentilezza rende possibile fare un lavoro su di sé come quello necessario per leggere un testo. Un uomo o una donna boriosi (nella vita) sono boriosi nella lettura, chi invece ha poco coraggio e un carattere esitante, ha una lettura sgradevolmente indecisa, così come la superficialità (e la mancata sintonia emotiva) nella comprensione di un testo ha come effetto collaterale quello di una lettura piatta e superficiale.

Un altro dei benefici effetti del corso di lettura che ho fatto con Tina è stato infatti quello di imparare a giudicare la qualità della lettura degli ALTRI (oltre che la qualità non proprio eccezionale della mia…). Infatti, così come per imparare ad ascoltare la musica classica bisogna ascoltarne tanta (e farsi l’orecchio), anche per valutare la qualità di una lettura, bisogna allenare la capacità di ascolto. E in questo Tina è stata bravissima: mi ha REGALATO (perchè questo è uno di quei regali collaterali di cui parlavo prima) l’abilità ad ascoltare le voci degli altri con una profondità che non conoscevo. So smascherare subito i tromboni e i cattivi lettori, quando invece prima mi sembravano solo un po’ eccessivi nel declamare prosa e versi, adesso invece capisco subito quali sono i punti deboli di una cattiva lettura.

Ma Tina mi ha insegnato un’altra grandissima lezione: oggi so editare (correggere) i miei testi, leggendoli a voce alta. Se li leggo con l’INTONAZIONE di una lettura ad alta voce, scopro non solo quello che suona MALE, ma anche gli errori (refusi) che passavano totalmente inosservati quando facevo solo le letture a mente.
Ecco, questo è un consiglio per tutti quelli che scrivono: imparate a leggere a voce alta i vostri testi, magari dopo aver fatto un corso di lettura a voce alta, perchè tutto quello che SUONA MALE quando leggete è sicuramente SCRITTO MALE.

Ogni testo scritto è un testo che può essere letto a voce alta e vi assicuro che un testo con degli intoppi grammaticali, una brutta punteggiatura, troppe subordinate e altri orrori del genere sarà ORRIBILE se lo leggete a voce alta. Non abbiate paura di sembrare pazzi quando declamate le vostre opere letterarie, perchè se vi siete fatti un po’ di orecchio, saprete capire quando bisogna correggere un periodo venuto male.

Bene, potrei continuare con l’ode a Tina, ma la chiudo qui ricordando che Tina insegna anche a scrivere, recitare, parlare in pubblico. Ah, dimenticavo: è laureata in teologia e va pazza per i gatti che seppellisce (quando trapassano) nel suo giardino. Anche i gatti della Tina sono straordinari come lei e ti guardano negli occhi come se volessero mettersi a leggere le poesie di Ada Merini, ma non ce la fanno per un problema dell’apparato fonetico (anche se tu capisci, guardandoli negli occhi, che lo vorrebbero fare per davvero).

Ordunque, qui ci vuole il solito passaggio sul libro “Scrivi la tua voce 2.0” che Tina ha appena pubblicato con una sua amica, Giovanna Senatore, una specie di OPERA MONUMENTALE su come leggere, usare la voce e scrivere sul web.
E poi ecco anche il sito di Tina, se qualcuno volesse scoprire tutte le cose che fa.

Per concludere, Tina è una macedonia vivente di grandi qualità in una salsa mista di leggerezza e generosità. Affidatevi a lei, ne vale la pena. Per cosa? Per tutto…


La paura della morte in Occidente

Credo di aver visto il primo morto della mia vita a trent’anni, in India. Stavo passeggiando con un’amica per le strade di una cittadina del Kerala, quando qualcuno era uscito da un cortile per invitarci a quella che sembrava una festa. Donne e uomini con l’aria allegrotta mangiavano insieme in un cortile, qualcuno suonava uno di quei bizzarri strumenti indiani a corde. Eravamo entrate: ci avevano offerto cibo e caramelle. Poi la mia amica era stata invitata da una delle donne a entrare in casa. Dopo neanche un minuto era scappata fuori urlando: “C’è un morto!”.
Eravamo incappate in un funerale, non così diverso dai nostri se non per un piccolo dettaglio: il defunto non era nascosto in una bara sigillata e chiusa, ma esposto all’aria di una stanza, perfettamente vestito, sdraiato per terra su un materassino.

La moglie e le altre donne della famiglia lo vegliavano chiacchierando
. Ci avevano indicato a segni di sederci insieme a loro: la veglia funebre era un affare per signore, come peraltro è sempre stato in Italia fino all’avvento del funerale moderno, quello che si chiude in fretta e furia al crematorio dell’'”Outlet del funerale”, come si legge nelle pubblicità in metropolitana: “Abbiamo semplificato il vecchio modo di gestire un funerale rendendolo semplice, efficace ed economico”.
Ero rimasta in compagnia delle prefiche indiane fino a notte fondissima, poi avevo ceduto alla stanchezza, ma la tappa successiva del viaggio era stata Varanasi: la città dove tutti gli indiani vorrebbero morire e poi farsi cremare, perché secondo la religione induista (di cui non so nulla), chi muore e viene cremato sulla riva occidentale del Gange a Varanasi, potrà sfuggire al ciclo (malefico) della reincarnazione.

A Varanasi avevo assistito per qualche giorno all’arrivo dei cadaveri trasportati in riva al fiume per essere bruciati sulle pire scoppiettanti, mentre sentivo lo strano odore di grigliata che saliva dalla piattaforma dove avvenivano le cremazioni. La morte profumava (o puzzava) come le grigliate della domenica: ricordo ancora la nausea provata nelle prime ore, poi era passata anche quella leggera repulsione verso l’olezzo a cui nessuno sembrava fare caso nella città dei funerali perenni. Il fuoco bruciava dalla mattina alla sera ed io avevo pensato: “Ecco, mi sono “abituata” alla morte, perchè l’ho vista in faccia. Adesso sono pronta a morire”.

Erano i pensieri svitati di una trentenne che credeva di avere illuminazioni permanenti dopo una vacanza in India, adesso non credo più di essere pronta a trapassare mentre invece sono sempre più convinta che gli esseri umani riescano a prendere in considerazione la morte solo come se fosse un affare degli altri. Per tutta la vita, guardiamo morire gli altri e solo quando arriverà il nostro turno di affacciarci sul buio sconosciuto della fine dell’attività cerebrale, allora valuteremo la morte come una possibilità REALE. Ma prima di quel momento, noi clienti occidentali dell’”Outlet del Funerale” ormai consideriamo la morte come un evento che in fondo non ci riguarda più di tanto e può essere rimandato sine die con buoni medici, un po’ di palestra e un dietologo di fiducia che ci illumini la strada per l’eternità in un mondo senza colesterolo e con la glicemia bassa.

Bene, questa lunga premessa per arrivare al Covid. Settantacinque anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la morte è tornata ad essere un evento probabile anche in assenza di tutti i fattori di rischio ineludibili, primo fra tutti un’età almeno centenaria, seguito da malattie che oggi speriamo di poter curare e non ci spaventano più come pochi anni fa. Non solo la morte tenuta nascosta è diventata la temuta compagna di vita degli anziani e di chi soffre di patologie gravi, suscettibili a dar corso a un’evoluzione maligna del virus, ma la morte si è presentata a mietere le vite numerose anche dei giovani che abitano nei posti sbagliati del mondo: dal Brasile a Harlem, quartiere di New York, perché la malattia colpisce le comunità che hanno un più difficile accesso alle cure. La paura di morire ormai è entrata nelle case di tutti e la morte viene ormai nominata milioni di volte al giorno da un’umanità spaventata dalla propria riscoperta plausibile mortalità.

L’applicazione di misure severe come i lockdown messi in atto dagli stati si è resa necessaria anche per rispondere alla richiesta collettiva di “non morire”. Quando Boris Johnson ha proposto lo scorso anno la ricetta di un’immunità di gregge che avrebbe provocato molte morti, il mondo intero si è ribellato di fronte alla crudeltà della sua proposta. Nessun leader politico oggi potrebbe sperare di sopravvivere senza promettere la sconfitta dell’epidemia e quindi della morte, vedi il caso di Trump che ha perso le elezioni anche per aver sottostimato la paura del virus da parte degli stessi americani. La scelta di sottostimare i rischi epidemici, il rifiuto machista della mascherina, l’atteggiamento spavaldo e poco cauto nei confronti delle persone che gli erano vicine (con tanto di cluster di positivi alla Casa Bianca) gli sono certamente costati molti voti.

I cittadini oggi chiedono agli stati di diventare i garanti della loro vita. I leader politici intenzionati a durare dovranno offrire ai loro elettori la promessa che la morte tornerà a essere quell’evento scongiurabile di prima della pandemia, quando noi occidentali pensavamo che bastava fare ginnastica e mangiare sano per vivere appunto fino a cent’anni.
Credo che la severità di alcune misure di quarantena si giustifichino proprio con il fatto che oggi per i leader politici la VITA dei cittadini viene prima della loro sopravvivenza economica, danneggiata irreversibilmente dalle misure messe in atto contro il virus.

Persino le paure e le proteste diffuse contro i possibili effetti collaterali dei vaccini, prima fra tutti quello di Astra-Zeneca, pertengono alla stessa visione: i cittadini ritengono di avere il diritto di essere vaccinati con un farmaco SENZA effetti collaterali. I leader politici che propugnassero l’uso di vaccini ritenuti non perfettamente sicuri verranno ritenuti direttamente responsabili delle possibili morti dovute agli effetti collaterali. Da qui, le nuove linee guida europee all’utilizzo di Astra-Zeneca solo per gli ultra-sessantenni o addirittura la scelta di alcuni paesi di non utilizzarlo più.

La promessa della VITA – a tutti i costi, a ogni età, contro qualsiasi malattia – sta diventando un ingrediente necessario del nuovo marketing politico che le élite dovranno praticare se vogliono restare al potere in anni in cui la paura di morire è tornata prepotente a colpire i paesi occidentali.