Archivio mensile:gennaio 2014

L’ottavo peccato capitale: il nervosismo del milanese

Non farò il tedioso elenco dei sette vizi/peccati capitali, però vorrei aggiungerne uno: il nervosismo.

Tipico dei milanesi.

Faccio qualche esempio.

Prendo la metropolitana più volte al giorno.

A Milano, chi non vuole correre giù per le scale mobili, si mette sulla destra.

La corsia di sinistra va lasciata libera.

In genere imbocco velocemente la corsia di sinistra, ma questa sera ero stanca e mi sono infilata in quella di destra.

Mi sono quasi saltati addosso un paio di pazzi che correvano a perdifiato, come in genere faccio io

Dopo di che, un ragazzo senza biglietto, quando ha visto i controllori che ci aspettavano fuori dalla scale mobili, ha cercato di scappare, imboccandole all’incontrario, e mi è caduto di fianco.

L’ho schivato per un pelo, urlando: “Ma ci vuoi ammazzare?!”, e sono arrivata a casa.

Tommaso era davanti al computer – con le cuffie – che giocava a Minecraft.

Mi ha salutato velocemente, senza quasi guardarmi in faccia.

Ho riempito di panni la lavatrice mentre il cellulare vibrava per le solite email che ci scambiamo tra 7 dico 7 condomini (le email sono anche decine al giorno).

Era la condomina più pazza di tutte che voleva sapere chi di noi ieri pomeriggio aveva avuto un SERVITORE che si era recato in cantina a buttare della carta bagnata nel contenitore della carta, perché il suo SERVITORE aveva trovato la carta in questione e se ne era grandemente lamentato.

La condomina in questione ci suggeriva quindi di istruire i nostri SERVITORI a  fare la raccolta differenziata, come lei ha istruito il suo (un povero Cristo con un nome straniero).

Le ho risposto che sono personalmente io a portare l’immondizia in cantina e non dispongo di SERVITÙ.

E poi l’ho presa per il culo, perché mi diverto a farla incazzare. E non sopporto le sue stronzate da milanese coi soldi.

Mi sono subito arrivate non so quante email di un altro condomino che mi diceva che sono sempre TESA.

Ho mandato a cacare anche lui, piuttosto malamente.

Il condomino che si lamenta della mia TENSIONE ha infatti la mania di ascoltare Frank Sinatra a un volume altissimo alle undici di sera, e si offende quando gli chiedo – a mezzanotte – di abbassare la sua cazzo di musica.

Bene, potrei andare avanti per non so quanto a raccontare le sgradevolezze della vita milanese, ma io credo che dipendano in gran parte dal fatto che a  Milano siamo in tanti, compressi in spazi piccoli, e serviti da una rete di mezzi pubblici che sta esplodendo, nonostante le fatiche di un buon sindaco.

Siamo troppi, chiusi dentro una brutta città, e chiusi dentro nelle nostre case, dalle quali ci insultiamo a colpi di email.

A Milano piove sempre, hanno tutti gli smartphone e se non rispondi a un’email entro un’ora, ti chiedono se sei morto.

Il nervosismo ci ucciderà.

Ma perché siamo fatti così?

Per un tot di motivi. Uno di questi è il residuo fiscale. La Lombardia è quella che ce l’ha più alto in Italia: quasi 6 mila euro procapite.

Il residuo fiscale è il frutto della differenza tra i circa 17 mila euro di tasse pagate per ogni abitante della Lombardia contro una spesa pubblica procapite ricevuta dallo Stato di 11mila euro.

In pratica, un cittadino lombardo riceve indietro dallo Stato circa il 60% di quanto paga.

Insomma, lavoriamo un po’ troppo: potremmo lavorare il 40% di meno.

Mai votato per la Lega – Salvini propose le carrozze della metro per immigrati! – ma sono un po’ federalista.

Lo ammetto.

L’impiegato come capro espiatorio

Lo so, scrivo sempre delle stesse cose: gli impiegati, le vittime, gli stronzi, i capri espiatori.

Però adesso proverò a costruire una teoria sui miei argomenti favoriti, che tenga conto delle teorie di René Girard, l’antropologo francese autore de “Il capro espiatorio”.

Girard sostiene che nei momenti di crisi vengono individuati dei capri espiatori verso i quali indirizzare la rabbia e la violenza che altrimenti esploderebbero con gravi conseguenze sociali.

Sul capro espiatorio vengono concentrati l’odio – e a volte anche la violenza – così da ricompattare il branco su un falso nemico comune.

I lupi del branco sbranano così SOLO il capro espiatorio, invece di sbranarsi vicendevolmente.

Se guardate con attenzione a quello che sta succedendo, si nota come venga tirato fuori un nuovo capro espiatorio ogni sei mesi. Anche il capro espiatorio, infatti, invecchia e bisogna rinfrescarlo di tanto in tanto.

Ne elenco po’:

  • clandestini e immigrati che portano via il lavoro ai nazionali,
  •  gli impiegati statali, che se la spassano facendo finta di avere l’influenza e non si meritano aumenti di stipendio perché sono dei mangia-a-ufo,
  • gli impiegati in generale (anche quelli privati), perché in ufficio non fanno niente e passano il tempo a navigare su Internet: sono “troppo” garantiti e sono spesso anche “vecchi” (basta avere 50 anni per esserlo),
  • gli insegnanti: sono troppi e rubano denaro pubblico,
  • i falsi invalidi che mandano a fondo l’INPS (che in realtà ha un attivo pauroso e ingiustificato, visto che non è un impresa),
  • gli operai della FIAT che fanno la pausa di 15 minuti invece di 10, ed è colpa loro se la FIAT vende solo la 500.

Sono sicura che i partiti e i politici “sanno quello che fanno” quando tirano fuori dal cappello il nuovo target su cui deviare la rabbia di chi magari sarà il target di domani.

Usano una tecnica raffinata ed efficace: identificano un’intera categoria con i suoi peggiori rappresentanti.

Faccio qualche esempio: tra i clandestini, ce n’è sicuramente qualcuno che spaccia droga. Ma molti lavorano lavorano in nero per gli italiani che non vogliono pagare le tasse. E quindi ci fanno un favore – a tutti noi – perché paghiamo meno i prodotti che contengono lavoro clandestino.

Altro esempio: tra gli impiegati statali ci sono certamente molti fannulloni, ma secondo le teorie di certi politici o giornalisti TUTTI gli statali sono dei fannulloni.

Ultimo esempio: tra gli invalidi ce ne sono di falsi (700.000, si dice, su 2.700.000), ma si sostiene che TUTTI gli invalidi mentono e bisogna eliminare TUTTE le pensioni di invalidità.

Il risultato dell’invenzione di sempre nuovi capri espiatori porta anche alla continua fermentazione dell’odio tra capri espiatori.

Gli impiegati privati odiano quelli pubblici.

Gli impiegati e gli operai detestano i falsi invalidi, che rubano le tasse pagate da loro, eccetera.

Il rischio quindi è di finire per odiare uno sfigato come te.

Ma che cosa possiamo fare per smetterla di odiarci tra sfigati?

Innanzi tutto, dobbiamo riconoscere che esistono impiegati realmente fannulloni, invalidi veramente falsi, immigrati davvero criminali, e così via.

E poi dobbiamo difendere tutti gli altri dalle accuse ingiuste che gli vengono rivolte, individuando invece i veri colpevoli del disastro in cui l’Italia è finita.

I colpevoli – quelli veri – sono gli evasori fiscali e tutti quelli che li proteggono.

Tra gli evasori fiscali ci metterei mafia-camorra-sacracoronaunita, e tra i santi protettori degli evasori ci metterei una grande parte dei partiti politici italiani.

L’elenco dei colpevoli VERI della nostra decadenza è molto lungo e variegato, e vi assicuro che di questo elenco non fanno parte gli impiegati o gli insegnanti che “rubano il posto ai giovani“.

Certo, è meglio essere un impiegato statale protetto dall’articolo 18, che non un precario trentenne con un contratto a progetto di un anno.

Personalmente, però, preferisco odiare camorristi ed evasori che non gli impiegati delle Poste.

Meglio andare d’accordo tra noi capri espiatori invece di scannarci tra poveri Cristi…

L’incompetenza del cafone

Il cafone, come il cretino, può essere descritto solo ricorrendo a qualche esempio comportamentale.

Proverò a spiegare cosa intendo per cafone.

Il cafone è in genere qualcuno con un’ottima e incrollabile opinione di sé, così profondamente radicata da non poterlo smuovere da una particolare forma di auto-ammirazione, che vorrebbe trasformare in aperta ammirazione anche da parte degli altri.

Il cafone, infatti, quando si trova faccia a faccia con un altro interlocutore, salta tutti i convenevoli – “Come stai?”, “Come va?”, “Dimmi qualcosa di te!” – ma parte dritto a parlarti di sé.

Credo che la forma di maleducazione suprema consista proprio nell’ignorare l’altro.

L’altro – l’interlocutore del cafone – esiste solo quando viene trasformato in uno specchio nel quale il cafone si può ammirare.

Il cafone, infatti, adora che gli si lecchi il culo, e non capisce se ha di fronte un manipolatore che il culo glielo lecca per fargli fare quello che vuole LUI. 

Il cafone può farsi fregare da qualcuno più furbo di lui, anche se tendenzialmente il cafone tende a raggiungere posizioni di potere, proprio perché è sufficientemente immorale da sfruttare il lavoro degli altri a proprio uso – per esempio in un’azienda – o magari attribuirselo direttamente: “Questo l’ho fatto io!”, quando l’avete fatto voi, poveri tapini educati.

Ma se ci dimentichiamo per un attimo delle aziende e della pubblica amministrazione, e riflettiamo sull’essenza stessa del cafone, la prima conclusione che dobbiamo trarre è che la cafonaggine si basa in genere su una discreta incompetenza tecnica.

Il cafone è così intento ad ammirarsi e a fottere gli altri, da non avere il tempo di coltivarsi.

In genere, infatti, il cafone è quasi sempre un incompetente, e può quindi fare una discreta carriera in un’organizzazione.

Ma il cafone diventa pericolosissimo se svolge professioni delicate come per esempio quella del medico.

Tutti medici sbruffoni che ho conosciuti erano generalmente degli incompetenti, mentre i medici migliori che ho conosciuti erano profondamente gentili e empatici con l’altro.

Ma tutte le persone che ho conosciuto e che erano brave a fare il loro lavoro sapevano ASCOLTARE chi avevano di fronte ed erano generalmente capaci di stabilire una relazione positiva con l’interlocutore.

Non si può imparare nulla di nuovo se si ritiene di sapere già tutto.

L’ascolto empatico è quindi alla base di ogni forma di auto-miglioramento.

Non vorrei sembrare la zia Pina, ma devo rilevare come oggi sia passato di moda essere gentili.

Evitate però di farvi mettere le mani addosso da un chirurgo che vi dice di essere il migliore nel suo campo.

Vi farà a pezzi e nasconderà il vostro cadavere in un cassonetto.

(A proposito, un cadavere va nell’UMIDO o nell’INDIFFERENZIATO, per tornare a un vecchio tema che mi è caro?)

Omicidi in pausa assemblea di condominio

Ho già in mente il seguito di “Omicidi in pausa pranzo”.

Il nuovo giallo sarà ambientato in un condominio e Francesca, la protagonista, si trasformerà da vittima a probabile serial killer.

Di un’altra condomina.

Che progetterà di uccidere in modo fantasioso e creativo.

Ma il punto è che ieri ho rischiato IO di lasciarci le penne.

In condominio.

Uno dei condomini – appassionato di ottone – ci ha infatti costretti a comprare delle lampade TERRIFICANTI di inizio secolo da mettere nella tromba delle scale.

E ieri sera ne hanno montata una di cristallo, ORRENDA E RICCIOLOSA, che sarebbe stata bene in una profumeria degli anni ’30 a Saint Tropez.

La suddetta lampada ha perso uno dei riccioli – che si è schiantato al suolo come una bomba – circa un secondo prima che io infilassi la mia capoccia sotto la MOSTRUOSITÀ’ VINTAGE.

Sono entrata nell’ingresso, ho fatto i pochi passi che mi separano dalle scale e ho sentito un boato.

Era il ricciolo che crollava a mezzo metro dalla mia testa.

Ordunque, mi dico, perché in un pulcioso condominio milanese nessuno ha il coraggio di opporsi alle lampade INUTILI  E PERICOLOSE scelte da un altrettanto inutile e pericolo condomino?

Per lo stesso motivo, dico io, per il quale stanno rifacendo una legge elettorale uguale al Porcellum.

Nel mio condominio, si è formato un CERCHIO MAGICO DI CONDOMINI che si fanno favori a vicenda, compresi quelli miserabili e meschini di lasciare al più cretino la scelta delle lampade da mettere nelle scale.

E nessuno dice nulla.

Anche io non mi sono opposta alla lampada che avrebbe potuto spaccarmi la testa per amore di QUIETO VIVERE.

Sono eticamente collusa perché non voglio passare le mie giornate a litigare.

E già litigo parecchio…

Contrassegnato da tag

Mi ripeto: la scuola italiana sta affondando

Ho un figlio, Tommaso, che va in seconda media.

Sta chiuso in casa da un mese e mezzo a preparare le verifiche di fine quadrimestre.

Studia su testi che sarebbero perfetti per un liceo, ma in certi casi persino per l’università.

C’è in particolare un’interrogazione che si trascina da più di un mese, perché l’insegnante ogni due settimane ne passa una casa in malattia.

Mi dispiace naturalmente per lei, ma mi dispiace anche per NOI DUE – io e Tommaso – che ristudiamo l’apparato scheletrico e quello tegumentoso (la pelle) da più di un mese.

Mio figlio è dislessico e ha poca memoria. Dopo due giorni che ha studiato il nome di ossa e ossicine del corpo umano, se le dimentica.

E quindi deve ricominciare da capo a studiare le ossa femorali.

Ma secondo me TUTTI i ragazzini ormai dimenticano TUTTO quello che studiano, sopratutto se gli argomenti non sono legati a qualche forma di concettualizzazione, ovvero non li costringano a ragionare, incidendo quindi strati corticali più profondi di quelli che vengono interessati quando si studia a memoria la struttura del bulbo pilifero o come diavolo si chiama.

I programmi delle scuole medie sono immensi e i libri di testo infinitamente lunghi e verbosi.

Gli argomenti del “programma” delle varie materie di susseguono a un ritmo velocissimo, e la mia impressione è che la memoria profonda di Tommaso non venga interessata dalle lunghe e penose nozioni mandate a memoria.

Se dovessi usare una metafora – o un’allegoria, non mi ricordo mai la differenza – direi che tutto quello che Tommaso studia scorre via veloce come l’acqua sulla pietra di un torrente. Non lascia nessun segno. La pietra non viene scalfita dall’acqua.

Ormai nessun insegnante rimane ferma sullo stesso argomento per più di una lezione o al massimo un paio.

E nella testa di Tommaso entrano solo poche nozioni – inutili – per volta.

Se Tommaso deve ricordarsi com’è strutturata la Divina Commedia, si dimentica l’Italia del Seicento, e se deve ricordarsi quali sono i settori produttivi, si dimenticherà del verbo essere in funzione ausiliare nei casi in cui forma un predicato verbale.

L’acqua scorre velocemente sulla pietra, per lasciare posto a nuove cascate di acqua, che scorrono via a loro volta.

Lasciando tutto uguale a prima.

 

Dieci buoni motivi per essere depressa

Tutte le mattine, quando mi sveglio, faccio l’elenco dei motivi per cui sono depressa.

Oggettivamente depressa. Per degli ottimi motivi, quindi.

Elenco i primi dieci che mi vengono in mente.

Poi farò – non so quando – l’esercizio inverso. E cercherò i dieci buoni motivi per essere felice.

Ma sono una che il bicchiere lo vede mezzo vuoto: cominciamo dalla depressione.

    • Soffro di una nevralgia del trigemino che va e che viene. Quando viene, tutto perde di senso. Prendo dei farmaci che un po’ mi aiutano, ma ci sono delle gran brutte giornate.
    • Mia madre sta male da un numero impreciso e ormai infinito di anni: la sento tutti i giorni, e tutti i giorni mi dà una cattiva notizia.
    • Mio figlio è dislessico. A scuola sopravvive malamente e le sue insegnanti non hanno mai avuto un moto di pietà o di comprensione per i suoi problemi. Anzi, gli parlavano male di me. Gli dicevano: “Quella pazza di tua madre pensa che sei dislessico!“. Anche se lui era certificato tale in tutti gli ospedali di Milano.
    • Ho sentimenti violentemente negativi verso la scuola in generale e le insegnanti di Tommaso in particolare. Reprimo a fatica la mia voglia di sangue e stalko le sue professoresse con delle email cortesi e sprezzanti. Ma il fatto di farle soffrire, non appaga la mia voglia di sangue.
    • Passo undici ore fuori casa, perché lavoro fuori Milano, e quando ritorno devo tirare fuori i panni dalla lavatrice e cucinare (che mi fa schifo).
    •  Dopo che abbiamo mangiato, invece di guardarmi un film, studio insieme a Tommaso le inutili materi sulle quali verrà interrogato il giorno dopo (e qui si ritorna al punto 4).
    • Dopo che abbiamo finito, lui fa dei giochi stupidi al computer, mentre io penso che da grande farà il mulattiere, ammesso che trovi un mulo disposto a farsi condurre da un asino (Tommaso a scuola non impara nulla, e qui si ritorna al punto 4).
    • A questo punto, mi schiaffo anch’io davanti al PC, mentre il vicino di casa spara la musica a palla e mette Frank Sinatra in loop (e lo messaggio per farglielo spegnere, perché altrimenti Tommaso non dorme).
    • Lui allora mi risponde che vuole denunciarmi ai carabinieri perché mi ha sentito urlare con Tommaso di endecasillabi incatenati (giovedì lo interrogano su Dante). Io provo allora nei suoi confronti gli stessi istinti omicidi che provo nei confronti delle insegnanti di mio figlio. Istinti che devo reprimere per non finire a San Vittore, fatto che mi provoca dei sussulti gastrici non indifferenti.
    • A questo punto prendo un Lansoprazolo, ma i vicini del piano di sopra attaccano – anche loro – con la musica e io sento di nuovo la voglia di sangue di cui al punto 4 e punto 9.

Ma siccome non voglio lasciare mio figlio al freddo al gelo mentre sconto trent’anni a San Vittore, ammazzo qualcuno in un libro.

OMICIDI IN PAUSA PRANZO.

Su Amazon, a 99 centesimi.

Che palle! Che pizza! Puntata numero 2

Sono andata a riguardare un vecchio post, scritto quasi un anno fa su una noiosa domenica pomeriggio.

Lo copio subito dopo aver velocemente descritto quella di oggi.

Tommaso ha passato il pomeriggio a giocare a Minecraft con un suo compagno di classe che sta dall’altra parte di Milano, sempre connessi via Skype.

Hanno costruito – insieme – case digitali,  e cercato – insieme – su Youtube una ricetta per fare la zuppa, anche questa digitale.

Hanno guardato contemporaneamente una specie di tutorial fatto da un ragazzino che spiegava quali ingredienti – digitali – usare per fare la zuppa.

Hanno quindi ininterrotto le loro ricerche due altri ragazzini – su Skype – e sono passati a un altro gioco dove tutti e quattro avevano l’account.

Quando ho preparato la cena, Tommaso ha detto ai suoi amici: “Alzo il volume (di Skype) se mi dovete dire qualcosa!”.

Noi due ci siamo messi a tavola, parlando sottovoce perché non ci sentissero i suoi amici.

Poi lui è tornato da loro e hanno ricominciato a confabulare.

Devo ammettere che tutte le volte che entro nella sua stanza, parlo sempre a voce bassa, perché ci sono almeno un altro paio di adolescenti connessi che ascoltano TUTTO quello che succede a casa nostra.

Vivo col terrore che qualcuno mi senta mentre gli dico qualcosa di sgradevole.

Ed ecco il post di un anno fa.

Temevo che Tommaso sparisse col branco.

L’ha fatto. Il branco digitale.

——————————————————————————————

Domenica pomeriggio col figlio undicenne.

Tommaso è ancora in quell’età di mezzo – né carne né pesce, tanto per non essere banali – in cui ti sei stufato di stare con i genitori, ma sei troppo piccolo per andare in giro da solo.  
Sì, all’oratorio un giretto da solo se lo fa, ma non gli va più manco quello.

Tommaso soffre di una noia consustanziale, da pre-adolescente moderno, e non sa neanche lui cosa vorrebbe fare.

Passo la domenica a proporgli tutto quello che immagino potrebbe piacergli, e che magari piacerebbe anche a me, ma lui risponde immancabilmente: “Che pizza!”, oppure: “Che palle!”.

 Io: “Vuoi andare al cinema?”
Tommaso: “Che palle, sempre la stessa roba!” (quale roba non si capisce, perché tutta l’industria cinematografica è diventata un immenso e indistinto bolo di noia).
Io: “Andiamo al planetario?”
Tommaso: “Che palle! Ancora?” (ci siamo andati un anno fa).
Io: “Allora chiama un amico!”
Tommaso, un po’ più interessato: “Chi? Chi chiamo?”
Faccio una proposta: “Chiama Tizio!”
Tommaso: “Tizio, che palle!”
Ci riprovo: “Chiama Caio!”
Tommaso, più convinto: “Sì, dai, lo chiamo!”
Gli passo il cellulare, così lui non consuma la sua ricarica. 

Fa il numero e parte una di quelle buffe conversazioni fra pre-asoloscenti che non hanno ancora imparato a dire: “Ciao come stai, come va, eccetera”.

Tommaso, parlando con Caio, parte subito con: “Ciao sei libero?”
Sento Caio che risponde a Tommaso: “No, sono con un mio amico”
Tommaso: “Va bene, ciao”.
E mette giù.
Mi guarda con l’aria schifata, come per dire: “La tua solita proposta di merda…”.
Ricominciamo.
Io: “Andiamo al parco?”
Tommaso: “Che pizza, sempre al parco…”.

 Lo so già: mi mancheranno i suoi “Che pizza!” quando non avrà più bisogno di me, e si farà gli affari suoi.

Mi godo i suoi ultimi sprazzi di noia, condivisa, prima che Tommaso sparisca per sempre, intruppato col branco alla scoperta del mondo.

 

 

Odio la squola, oggi più di allora

Sono pochissimi i fortunati che sono stati benedetti da un’insegnante brava/bravissima che li ha aiutati a provare PASSIONE per la materia che insegnava.

A me è successo solo una volta, al liceo, con l’insegnante di italiano, mentre ho serenamente detestato TUTTO quello che mi hanno fatto studiare a scuola (università compresa), per un periodo durato complessivamente 18 ANNI.

Il fatto che mi piace scrivere dipende sicuramente dalla gentilezza dell’insegnante in questione, che con noi studenti era educata e gentile fino al punto di darci del Lei.

Ho invece detestato tutte le altre materie, anche se i professori avevano in genere un unico demerito: quello di essere un po’ noiosi. 

Non erano severi, però, anzi ci lasciavano vivere.

Ebbene, da DUE MESI DUE, io e Tommaso studiamo quasi tutti i giorni per preparare le verifiche di fine quadrimestre.

Questa serie infinita di verifiche – orali e scritte – si concludono spesso con un cinque e mezzo, che può essere RECUPERATO  con un ulteriore verifica.

Tommaso inoltre  è dislessico, fatto in genere collegato a un problema di memoria: ne ha poca.

Non si ricorda i giorni della settimana, i mesi dell’anno, le tabelline, e a maggior ragione l’anno in cui hanno decapitato Anna Bolena o le date fondanti della Guerra dei Trent’anni, conclusasi con non so quale pace e con non so quale nuovo equilibrio europeo.

Per permettergli quindi di rispondere ai quizzoni di storia sulla monarchia inglese, può portarsi a scuola delle mappe logiche che prepariamo insieme al computer.

Le mappe logiche in questione – fatte con un programma che si chiama CMaps – sono diventate il nostro tormento.

Passiamo le serate insieme a fare le mappe, e io sento crescere dentro mio figlio un ODIO PER LA SQUOLA  che è infinitamente più radicato di quello che provavo io.

Oggi la scuola italiana sembra avere come unica missione quella di valutare quanto hanno appreso i nostri ragazzi nelle poche ore dedicate all’insegnamento.  Perché le ore di lezione vengono sacrificate a favore delle ore dedicate alle interrogazioni e le verifiche.

E lo studio altro non è che la preparazione alle VERIFICHE.

I ragazzi vivono quindi in uno stadio di ANSIA PERENNE, che ha solo l’effetto di far rinchiudere su se stesse le loro piccole menti spaventate.

Come spiega il mio amato Sugata Mitra – del cui discorso da vincitore dei Ted Talks copioincollo il link alla fine del post – gli esseri umani hanno una parte del cervello di origine rettile, che ci aiuta a sopravvivere in situazioni di pericolo.

La porzione di origine rettile del nostro cervello, quando c’è una minaccia in corso, chiude la parte prefrontale, che è quella deputata all’apprendimento, e ci aiuta invece a gestire le funzioni fisiologiche deputate alla sopravvivenza.

Ci spaventiamo e ci nascondiamo, oppure ci difendiamo e mordiamo – o spariamo – a chi ci sta minacciando.

In parole povere, se ci sentiamo in pericolo, ci andiamo a nascondere in una buca, non ci mettiamo a leggere un Canto della Divina Commedia.

Ecco, questa sera Tommaso si è nascosto sotto le coperte mentre io cercavo di fargli studiare l’industria molitoria (parola nuova anche per me: sono i vecchi mulini), e poi si è messo a piangere, come un BAMBINO SPAVENTATO.

Non voglio diventare complice di questo orrore. Gli ho fatto una giustificazione per rimandare l’interrogazione.

Ma questa scuola non funziona. Lo dice anche il Ministro Carrozza…

Ecco Sugata Mitra.

Com’è triste fare la mamma (che lavora) a Milano

Gennaio è il mese fetente delle influenze, e mio figlio è chiuso in casa da due giorni con un mal di testa di sicura origine virale.

Chiuso in casa da solo, perché io lavoro e non posso rimanere con lui.

Chiuso in casa da solo, anche perché non guadagno una svalangata di soldi, e quindi posso pagare solamente una persona che vada a preparargli qualcosa da mangiare a mezzogiorno, e che poi scappa fuori per correre a lavorare da qualche altra parte.

Tommaso sa già farsi la pasta al burro, perché è un ragazzino milanese, figlio di mamma lavoratrice.

Prende già da solo la metropolitana per andare a scuola o a trovare gli amici.

Se oggi Tommaso avesse avuto la febbre altissima, non avrei potuto lasciarlo a casa senza nessuno, e questa mattina avrei dovuto cercare una persona disponibile a stare con lui tutto il giorno.

Nei giorni in cui Tommaso è ammalato, mi sono sempre affidata a una rete di sostegno composta da peruviani, che conoscono sempre qualcuno che è rimasto senza lavoro e ha un’intera giornata libera da potere dedicare a un’emergenza come quella di un bambino milanese (senza nonni) ammalato.

Fino all’anno scorso quando Tommaso si svegliava e non stava bene, mi attaccavo al telefono per cercare qualcuno disposto a venire a casa nostra, e poi correvo subito in ufficio.

Per fortuna Tommaso si ammala sempre di meno ed è in grado di restare da solo per qualche ora.

E che cosa fa quando è da solo?

Sta davanti al computer.

Torno a casa e lo trovo con due occhiaie nere da super utilizzo di strumenti tecnologici.

Parla anche poco, poveraccio, perché a furia di stare zitti si diventa silenziosi.

Lo so. Quando a Milano smetterà di piovere, passerà il freddo e si porterà via l’influenza, non scriverò più post così disperati.

Ma anche se non posso lamentarmi perché sono protetta dall’articolo 18 – ho un contratto a tempo indeterminato – mi lamento di come diventano i figli delle mamme che lavorano e non hanno a disposizione schiere di nonni disposti ad occuparsi di loro.

I ragazzini che hanno le mamme che lavorano sono spesso un po’ tristi, molto digitalizzati, perché il computer gli fa compagnia, e sono leggermente sovrappeso, perché il computer dà dipendenza e i ragazzini non si riescono a scollare dallo schermo.

Se poi aggiungiamo a questa mistura infernale, il fatto che durante i weekend e le vacanze i nostri figli sono pieni di compiti – e le mamme devono aiutarli – allora il cocktail diventa psicogeno.

E se la ciliegina sulla torta delle vacanze di Natale passate in casa a fare i compiti è che – al ritorno a scuola – le insegnanti sono malate o non correggono i quintali di esercizi assegnati al povero e negletto bambino, allora alla mamma suddetta – depressa per le fatiche del lavoro e della scuola del figlio – verrà voglia di andare su Internet e cercare le istruzioni su come si confeziona una cintura al tritolo di modello sunnita.

Dopo di che, in un giorno di pioggia, verso le sei del pomeriggio, quando ti vengono quei micidiali attacchi di depressione milanese, indosserà la cintura suddetta sotto un’impermeabile in saldo comprato all’Oviesse, e si recherà al consiglio di classe, badando bene di farsi saltare per aria quando sarà entrato fino all’ultimo insegnante.

E l’ultimo grido della mamma depressa-suicida sarà: “No, Dante alle medie, no!“.

Perché la prossima settima Tommaso verrà interrogato sulla Divina Commedia.

Basta, adesso cerco le istruzioni per la cinturina…

Elogio anche della correzione di bozze

Non so quale sia la ricetta segreta perché un libro funzioni.

Certo, contano molte cose.

Qualcun’altro che ti dia un parere su quello che scrivi e ti aiuti a rimetterlo a posto conta moltissimo.

E questa mattina mi sono accorta di essermi dimenticata di una persona – che abita in Costa Rica – che si è offerta di correggere le bozze già ampiamente pubblicate dei mie libretti, e che straboccavano di refusi.

Sì, perché la capacità di dare la caccia al refuso è una dote naturale che si deve possedere in forma innata, come l’orecchio assoluto, per poterla esercitare.

Non tutti gli editor sono dei grandi correttori di bozze, perché non tutti hanno quella dote speciale.

Donatella, che ha corretto le mie bozze pubblicate, mi ha detto che per lei non era difficile trovare gli errori.

Gli errori le “andavano incontro“, le si manifestano insomma, facendo scattare qualche strano semaforo nel suo cervello che la avvisava dell’esistenza del refuso.

Donatella, però, non solo sa trovare il refuso col fiuto da correttrice, ma ha anche la capacità di indicarlo con precisione millimetrica.

Mi ha sempre segnalato l’esatta posizione sul Kindle, indicando qual era l’errore con la precisione di un cecchino.

Ecco, Dona è un cecchino del refuso e li vede a chilometri di distanza, dato che le sue email mi arrivavano dalla Costa Rica.

Un libro self published è fatto così: anche con l’amore degli amici, e degli amici degli amici.

Ho conosciuto Donatella, amica di Susi, solo dopo che aveva corretto i miei libriccini.

L’aveva fatto perché le andava, e perché gli errori le andavano incontro.

Ringrazio anche lei, e ringrazio anche Susi che sa connettere gli amici.