Archivio mensile:febbraio 2021

La scomparsa del tema

Ho avuto la fortuna di andare a scuola quando ancora si credeva che uno dei principali obiettivi dell’insegnamento scolastico fosse di insegnare alle persone a scrivere decentemente in italiano.
Scrivere COSA? Scrivere qualsiasi cosa: un preventivo, una lettera d’amore, un reclamo, un romanzo, non importa. A scuola bisognava imparare a costruire delle frasi con un senso logico, e quindi con una buona grammatica, che stessero in piedi e fossero magari anche ben fatte: armoniose, belle da sentire.

Anche se noi ce lo siamo dimenticati, la nostra lingua nasce dalla metrica e cioè dall’arte di far “risuonare” bene un periodo, applicando delle regole NOTE. Ma anche senza tirar fuori il latino, nessuno (fino a qualche tempo fa…) metteva in discussione che a scuola gli studenti dovessero imparare a scrivere bene, il meglio possibile.

E come si faceva per insegnarglielo? Si partiva dai pensierini della prima elementare, e poi si cominciava a fargli fare dei temi. Anche quelli sui soggetti liberi – la mia famiglia, le mie vacanze, il mio futuro, eccetera – perchè la penna doveva esercitarsi senza dover necessariamente fare sfoggio di nozioni.

Non è obbligatorio sapere fare un tema sulla Rivoluzione Francese o la fisica dei quanti, perchè poi magari nella vita dovremo occuparci di convincere i nostri clienti a installare delle nuove caldaie a condensazione. Conta solo saper scrivere quello che pensiamo in modo sufficientemente semplice e chiaro.

Chi scrive in modo involuto e contorto (e spesso sbaglia la consecutio temporum) non ha le idee chiare. Bisognerebbe poter riassumere i nostri pensieri in poche parole, e poi aggiungere un po’ di condimento, ma mai troppo. Scrivere CHIARO è un’arte che si impara con difficoltà, economizzando sulle parole e rinunciando alla vanità degli aggetti FACILI (roboanti, ridondanti, altisonanti).

E non si può negare che una buona esposizione – comprensibile – di un argomento, non può che essere basata sul fatto che chi scrive ha le IDEE CHIARE. In altre parole, ha delle opinioni FORMATE E DECISE.
Non si può insegnare a scrivere a uno studente, senza insegnargli un po’ anche a pensare. Ecco perchè vanno bene anche i temi liberi: per imparare a SEGUIRE E METTERE IN ORDINE i propri pensieri.

Però adesso arrivo al punto: chi ha un figlio adolescente lo sa. I ragazzi oggi scrivono malissimo, anche se ci sono le eccezioni, per carità, ma in generale i ragazzi fanno veramente fatica a mettere nero su bianco i loro pensieri. E se dovessi indicare una delle ragioni (ma sono tante…) per la perdita di una capacità fondamentale – quella di esprimere il proprio pensiero – non potrei che partire dalla SCUOLA DI ADESSO, dove non si fanno quasi più i temi.

Mio figlio ne faceva solo UNO A QUADRIMESTRE, sia alle medie che all’istituto tecnico, e i professori non glielo correggevano (è la triste verità…). Si limitavano a mettere una virgola qua e là (ma mica sempre) e la chiudevano lì. Ho le mie modestissime opinioni sul perchè avveniva questo fenomeno (meglio che le tenga per me), ma sono sicurissima che fare così pochi temi sia una delle cause fondamentali delle accertate difficoltà della scuola italiana a sfornare studenti con buone capacità di comprensione del testo (Invalsi 2018).

Non riesco invece a capire come mai nei programmi scolastici siano oggi previste DOSI DA CAVALLO DI GRAMMATICA (mio figlio ha studiato 43 complementi indiretti e non credo se ne ricordi nessuno), se poi la grammatica non viene applicata all’unico fine degno per averla studiata: imparare a scrivere.

Bene, la chiudo qui. Ma ancora una volta devo ribadire che contesto la narrazione dominante sulla scuola italiana: va tutto a scatafascio perchè i ragazzi sono maleducati e i genitori li difendono. Il discorso sulla scuola italiana è ben più complesso di così…

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VOLLI E SEMPRE VOLLI E FORTISSIMAMENTE VOLLI (perchè sono dislessica)

Che c’entra l’Alfieri con la dislessia, si chiederà qualcuno? C’entra, invece, ed eccome, perchè i dislessici per imparare quello che gli altri imparano in un paio d’ore, hanno in genere bisogno di almeno il doppio del tempo.

Io che sono dislessica, per riuscire a fare l’università mi sono dovuta legare alla sedia, da sola, impegnandomi nello studio con una volontà testarda e un po’ disperata, mentre invece l’Alfieri, per diventare un autore tragico, si faceva legare dal suo domestico. Certo, paragonarsi all’Alfieri (anche solo per via della volontà…) sembra un po’ presuntuoso, ma mi piace moltissimo la frase: “Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”, perchè un dislessico che volesse laurearsi o seguire un percorso di studi un po’ impegnativo, dovrebbe per forza di cosa essere un SECCHIONE.

Uno dei primi segnali di un Disturbo dell’Apprendimento è infatti una cattiva memoria. Non ti ricordi mai la data della Rivoluzione Francese o di quando è nata l’Italia, e se devi imparare un libro a memoria per un esame, ti devi chiudere in casa e legarti alla sedia. Le ore di studio saranno infinite, dovrai ripetere le cose che stai studiando un’infinità di volte (quando ho fatto l’università, gli esami erano tutti orali), e avrai spesso voglia di mollare tutto.

E qui arrivo al punto: anche se nessuno lo sa, potrebbe benissimo succedere che i SECCHIONI, quelli che stanno sempre chiusi in casa a studiare, siano dislessici con un Disturbo dell’Apprendimento non diagnosticato. Dotati di cattiva memoria, magari con dei problemi di comprensione del testo (perdono il filo di quello che leggono, devono rileggere tutto più volte, eccetera), ma armati appunto di una volontà FEROCISSIMA nei confronti dello studio che prendono di petto, senza arrendersi mai.

Certo, nel mio caso ho avuto la fortuna di fare le scuole in anni in cui alle elementari e alle medie non c’erano i voti, ma i giudizi, e non era ancora diventata di moda la convinzione che una BUONA E RINOMATA SCUOLA deve saper bocciare, selezionare e scremare la propria utenza. Per cui oggi è facilissimo ritrovarsi con pagelle TERRIBILI che negli anni ’60 e ’70 sarebbero apparse molto crudeli e soprattutto inadatte in un periodo in cui l’obiettivo principale era alfabetizzare l’Italia. I “buoni” maestri di quegli anni erano quelli che riuscivano a portasi dietro tutta la classe senza perdere UN SOLO ALUNNO. Vedi Alberto Manzi che insegnava a leggere e scrivere alla televisione in “Non è mai troppo tardi”..

Adesso invece va di moda la SELEZIONE, quando invece si direbbe che i problemi di alfabetizzazione siano tornati alla ribalta. L’ultimo test INVALSI somministrato in Italia nel 2019 ha mostrato che le competenze in aree fondamentali come quella della comprensione di un testo di italiano sono in discesa. Il 35% degli studenti delle medie non capisce un testo di italiano. Non credo sia corretto attribuirne la colpa a quegli stessi ragazzi che hanno difficoltà: la SCUOLA ITALIANA deve essere messa sotto osservazione, c’è qualcosa che non va.

Ma ritorno alla dislessia: uno studente con un Disturbo dell’Apprendimento negli anni ’60, ’70 e forse per un altro paio di decenni, veniva spesso AIUTATO a finire il ciclo dell’obbligo, oggi invece potrebbe trovarsi già con dei voti molto brutti alle elementari. Proprio perchè siamo passati da una scuola che FORMA gli studenti a una scuola che li SELEZIONA.

Il rischio potrebbe quindi essere che il ragazzino pieno di brutti voti non trovi neanche le risorse interne per diventare un SECCHIONE, e cioè qualcuno che capisce che per farcela deve studiare TANTISSIMO. Un ragazzo o una ragazza che si ritrovano con voti già miserabili a sei o sette anni, potrebbero associare l’idea dello studio alla delusione, e quindi non riuscirebbero a trovare la forza per legarsi alla sedia e andare avanti, magari appunto fino alla laurea.

Per carità, ci sono stati dei passi avanti. Nella pagella di quest’anno, i voti alle elementari verranno sostituiti con i giudizi: “avanzato”, “intermedio”, “base”, “in via d’acquisizione”. Sempre meglio dei voti che sono così mortificanti per un bambino di pochi anni. Ma bisogna fare ancora molto perchè la scuola ritorni a essere il luogo di accoglienza che si pensava dovesse essere negli anni degli sforzi per alfabetizzare l’Italia. E soprattutto bisogna sostenere i ragazzi con un Disturbo dell’Apprendimento che dovranno fare più fatica degli altri per studiare. Ed evitare anche di mortificarli nel caso invece in cui non trovino le risorse interne per legarsi alla sedia (fenomeno più comune tra le femmine, comunque, che non tra i maschi).

La chiudo qui: chi è stata una secchiona come me, ha imparato a applicare dosi ciclopiche di volontà alle cose che vuole fare. Sono ancora capace di restare chiusa in casa per un mese di seguito, senza smettere di scrivere neanche per un solo giorno. E produrre capolavori come “Omicidi a scuola”, di cui consiglio a tutti la lettura. Soprattutto a chi dovesse avere un figlio dislessico che va male a scuola. Mi sono tolta qualche CRUDELE SODDISFAZIONE (ah, ah…).

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Invito a cena di un naturista (e altre storie)

Ecco, ho già raccontato che sono naturista, ovvero frequento da anni un campeggio croato federato con il temibile FKK tedesco – Freikörperkulturche, cultura del corpo libero – che detta le regole secondo cui bisogna vivere secondo natura.

Inutile dire che la prima regola è quella della nudità, praticata da tutti ad libitum, anche nelle situazioni che non ti aspetteresti. Per esempio un invito a cena da parte di un altro naturista che ho ricevuto l’ultima estate in cui sono andata nel solito campeggio croato. Una cena a due, cucinata all’aperto come fanno tutti su dei fornelletti elettrici appoggiati sopra un tavolino, perchè cucinare tra gli alberi è bellissimo.
Una cena quasi romantica, insomma, anche se nei campeggi non vi è nulla di privato, visto che la vita sociale si svolge all’aperto.

Fatta questa doverosa premessa, mi sono ugualmente vestita di tutto punto, come si farebbe in città, perchè mi sembrava brutto presentarmi NUDA per una cena. Ma presentarsi vestita in un campeggio naturista è stato invece un ERRORE DI GALATEO, perchè il mio ospite era ancora perfettamente nudo ma soprattutto assolutamente a suo agio in “costume adamitico“, come si diceva una volta, quando anche solo pronunciare la parola NUDO era considerato un po’ scandaloso.

E così, lo ammetto, mi sono sentita un po’ imbarazzata per la mia maglietta nera e gli orribili pantaloni a pinocchietto che mi piace mettermi d’estate. Ma spogliarsi lì, davanti a lui, sarebbe stato anche PEGGIO, con il risultato che abbiamo passato due ore a chiacchierare, io vestita come Pinocchio e lui invece elegantemente NUDO, mentre cercava di convincermi a sbevacchiare un rosé che si era portato dal Veneto.

D’altronde, stare vestiti nei campeggi naturisti (a meno che non arrivi una piccola glaciazione) pare sempre un po’ di CATTIVO GUSTO, anzi addirittura sospetto o persino sanzionato se stai facendo il bagno al mare. Esiste infatti il fenomeno dei voyer – detti altrimenti guardoni – che a volte battono i campi nudisti per andare a caccia di sordide emozioni. Il guardone (secondo la vulgata nudista) non si spoglia mai, perchè si vergogna della sua nudità, anche se sembra eccitarsi a quella degli altri.

Il vero naturista (maschio) non prova invece NULLA neanche di fronte alle slovene di trent’anni, meravigliose valchirie bionde senza un’oncia di cellulite che popolano ormai i campeggi croati. Alte, sode, con i capelli lunghi biondi, gli occhi azzurrissimi come la fata Turchina, non fanno né caldo né freddo al naturista temprato.

Ma la paura dei guardoni rimane, e una piccola schiera di guardie del campeggio battono le spiagge alla ricerca di adulti in costume da sbattere fuori. Motivo per cui fino si può assistere di sovente a questa scena: i guardiani della reception (completamente vestiti) girano per il campeggio su dei motorini così da controllare che nessuno faccia il bagno con il costume.
E se qualcuno osa avventurarsi nelle acqua croate con il costume (uomo o donna che sia), i guardiani del campeggio lanciano prima un avvertimento con il fischietto, al quale seguono una serie di gesti furiosi che significano: “Togliti il costume”.

Ho assistito anch’io a più volte a questa scena e devo dire che il suono del fischietto fa venire una certa paura, anche perchè i guardiani del campeggio fino a pochi anni fa erano tutti ex-militari (croati…) e non piaceva a nessuno l’idea di far incazzare quei giganti slavi dall’aria severa che ti dicevano che ti dovevi SPOGLIARE!  

Ricordo ancora un italiano di mezza età entrato in acqua in costume che era stato beccato dalla guardia. Il suono del fischietto la aveva trasformato in una statua di sale, tramortito da un attacco di terror panico. Si era subito abbassato il costume (per la paura istintiva del marcantonio in motorino) ed era rimasto così, bloccato in acqua, col costume mezzo tirato giù e le chiappe al vento, mentre tutti ci chiedevamo se la guardia croata l’avrebbe fucilato sul posto per la terribile infrazione al regolamento.

Ecco, potrei continuare con queste allegre storielle di un mondo à rebours, dove stare vestiti è di cattivo gusto. Ma le tengo da parte per OMICIDI IN CAMPEGGIO (naturista…), la prossima delle opere somme che scriverò.

Ce l’ho già tutta in testa…

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Benedetto sia lo smart working

Devo fare una premessa, prima di parlare dello smart woking. Ho sempre pensato che gli elettrodomestici – lavatrice e lavapiatti in primis – abbiamo avuto la funzione di LIBERARE manodopera femminile che, finalmente un po’ più LIBERA dalle faccende domestiche, poteva essere impiegata nelle fabbriche e negli uffici.

Prima degli elettrodomestici, le donne dovevano prestare il loro servizio in casa per crescere i figli, cucinare, pulire, eccetera. Ma dopo l’arrivo degli elettrodomestici, le donne hanno cominciato ad avere il DOPPIO LAVORO: in casa e in fabbrica o in ufficio.

Certo, lavare i panni non era più un affare di ore, quando bisognava strizzarli a mano dopo averli lasciati in ammollo con la lisciva, ma fare una lavatrice richiede ugualmente un certo ammontare di tempo, così come pulire la casa, eccetera.

Ecco, a tutte queste incombenze domestiche (che rimangono ancora in gran parte sulle donne), si sono aggiunte le OTTO ORE in ufficio o in fabbrica, e la vita delle donne si è ulteriormente complicata.

Io non sono affatto sicura che il lavoro femminile equivalga a una LIBERAZIONE: credo invece che sia lavoro remunerato male (le donne guadagnano meno degli uomini) e quindi sia possibile rubricarlo come una forma sottile di sfruttamento, rivendicato invece come emancipatorio.

Ma non solo, credo che lasciare i figli a casa più o meno da soli per così tante ore al giorno – spesso alle otto ore bisogna aggiungere i tempi del commuting – sia pura PAZZIA. Le donne che lavorano devono affidare i loro figli a qualcun altro, quando sono piccoli, e poi appena i figli possono stare da soli (magari anche solo dopo le scuole elementari), i ragazzini rimangono a casa da soli, senza cure e senza attenzioni.

Non è SANO lasciare da soli o in mano altrui i propri figli, non per così tante ore al giorno. I bambini non dovrebbero essere abbandonati così presto.
Lo ripeto: non è un segno di emancipazione lavorare otto al giorno e tornare a casa la sera troppo stanche per occuparsi ATTIVAMENTE del benessere dei pargoli, che magari sono stati ore davanti al computer, senza che nessuno gli dicesse di fare qualcosa di meglio.

Ecco, lo smart working (per chi ha potuto approfittarne) è benedetto, perchè i genitori (madri e padri) sono potuti restare di più con i loro figli. Hanno avuto il tempo di far loro da mangiare, andarli a prendere a scuola, chiacchierare con più tranquillità, guardandoli in faccia per capire come stavano e che cosa pensavano.

Non ho mai potuto andare a prendere a scuola mio figlio né quando era all’asilo, né tanto meno alle medie. Sono sempre stata undici ore al giorno fuori casa. Mi dispiace non aver potuto aspettare mio figlio davanti all’uscita della scuola insieme a chi non aveva il PRIVILEGIO (perchè non lo è…) di lavorare così tante ore lontano da casa.

I tempi tecnologici erano maturi ormai da molti anni: buone connessioni domestiche e laptop performanti. Lo smart working è arrivato GRAZIE al Covid, ma sarebbe dovuto arrivare anche prima. E adesso, spero, nessuno cerchi di tornare indietro a quando bisognava passare OTTO ORE in ufficio.

Le donne che invece non hanno la possibilità di lavorare da casa, dovrebbero avere uno sconto sull’orario di lavoro, perchè così avranno più tempo per occuparsi dei figli, saranno più serene e meno stanche.
In fondo, non c’è nulla di LIBERATORIO a passare tutta la giornata lontano dai figli. Ma proprio per niente.

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