Archivio mensile:dicembre 2014

La tredicesima in fumo

Titolo banale per argomento più che conosciuto.

Faccio parte della lunga lista di connazionali che hanno rimandato i pagamenti fino al versamento dell’ultimo stipendio di dicembre, congiunto alla tredicesima. Naturalmente la somma non era uguale al doppio degli stipendi, perché al tredicesimo stipendio ne mancava un bel pezzettone.

Continuo con le banalità: sto pagando le spese di condominio, la retta scolastica di una scuola parificata dove mio figlio rimane fino alle sei di sera, e oggi sono uscita a comprare un paio di regali, di quelli che non si può evitare di fare (a mia madre, eccetera).

Risultato, mi sono già fumata quasi tutta la tredicesima senza neanche che mi passasse per la testa di farmi un giro di shopping. Premetto che non mi piace comprare vestiti, e che se potessi, andrei a lavorare col grembiule o una divisa, senza dovermi preoccupare di cosa penseranno i colleghi delle mie mises.

Il paradosso – banale anche il termine paradosso, lo so – è che oggi ho trovato un po’ “cari” i cetrioli all’Esselunga: 1,50 euro al chilo.

Insomma, affondo insieme a tutta la classe media, che adesso è medio bassa, e corro il rischio di trovarmi con un mutuo che non riuscirò a finire di pagare. Quando l’ho stipulato, dieci anni fa, non avevo previsto che non avrei più avuto aumenti di stipendio, che non avrei più cambiato di lavoro, e che l’economia italiana si sarebbe fermata.

Oggi  la tesi diffusa è che dovrei essere contenta di avere un lavoro: devo provare un’immensa gioia per non essere stata licenziata.

Potrebbe andarmi anche peggio di così, perché c’è chi sta peggio di me, cosa di cui sono perfettamente consapevole.

Il punto è che il coefficiente di Gini in Italia continua ad aumentare. E’ un coefficiente che misura le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi. E noi siamo, dopo la Gran Bretagna, il paese d’Europa dove vi sono le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi. Parola del Sole 24ore.

Del mezzo pollo al giorno – in media – c’è quindi qualcuno che mangia molto più della metà, e qualcuno che ne mangia meno di un decimo. Si tratta di ricette – economiche – piuttosto disastrose, perché la grande crisi degli Anni ’30 fu preceduta da un’impennata dell’indice Gini. Il modello di consumo che ne deriva – quando il reddito è maldistribuito – è infatti profondamente malsano, anche da un punto di vista economico, perché anche i consumi sono di conseguenza maldistribuiti.

Meglio tanti piccoli consumatori con un budget decente che acquistano beni di consumo finali, che non invece le gioiellerie piene di signore che si regalano un collier per Natale.

Nella speranza che l’Italia esca dal pasticcio in cui siamo finiti, faccio gli auguri a quelli che stanno nei guai, perché di sicuro non si meritano i guai nei quali sono finiti.

La più grossa porcata contro i precari: i contributi silenti

I giornali stanno finalmente cominciando a scrivere dell’enorme PORCATA istituita nel 1996 contro i precari, che versano i contributi sui redditi percepiti a una gestione SEPARATA dell’Inps, in ATTIVO, concepita per rendere difficile o impossibile il riconoscimento dei diritti pensionistici ai precari.

Solo infatti i precari che hanno versato per un minimo di cinque anni il 27% di un reddito minimale contributivo di almeno 15.357 euro all’anno potranno avere diritto alla pensione, gli altri perderanno i contributi che hanno versato.

Inutile dire che i contributi versati a fondo perduto dai precari8 miliardi all’anno – vengono intascati dall’INPS e girati sulle altre gestioni in PERDITA: quella dei dipendenti pubblici – in perdita per 8 miliardi all’anno – e quella dei liberi professionisti – in perdita per 12 miliardi all’anno.

La gestione della cassa pensionistica per i lavoratori delle industrie private presenta invece un bilancio meno negativo: solo 1 miliardo di perdite all’anno.

Non sono un’esperta in materia di pensioni – non sono un’esperta di nulla – ma ricordo molto bene che il Partito radicale italiano aveva proposto anni fa una legge che prevedeva l’obbligo per l’INPS di restituire ai lavoratori precari tutti i contributi silenti da loro versati, ovvero quei contributi PERSI, perché non sono sufficienti per dare diritto a ricevere una pensione.

Naturalmente la proposta di radicali è finita nel cesso e l’INPS continua a papparsi i contributi dei precari – co.co.co., co.co.pro., venditori a domicilio, eccetera – che non danno diritto alla pensione, e che vengono utilizzati per pagare le pensioni degli impiegati (statali e privati) e dei liberi professionisti.

I precari sono quindi cornuti e mazziati due volte: la prima, perché non hanno gli stessi diritti e garanzie degli impiegati a tempo indeterminato (ferie, malattia, eccetera), e la seconda, perché con i loro contributi pagano la pensione agli impiegati, di cui io sono peraltro una rappresentante.

Non ho ancora letto il testo del Job Act approvato in Parlamento,  ma ho un’unica certezza: il decreto legge non prevede di certo la restituzione dei contributi silenti ai precari, perché Renzi e il suo governo stanno cercando di grattare via dall’INPS gli ultimi centesimi disponibili per offrire qualche ammortizzatore sociale agli italiani che stanno affondando sotto le nuove ondate di disoccupazione.

Il paradosso è quindi il seguente: ai precari vengono richiesti contributi fiscali che servono non solo a pagare la pensione agli impiegati ma anche a vedersi restituiti in qualche forma caritatevole – sussidi di disoccupazione, eccetera – i contributi che hanno versato.

Credo che molti precari non sappiano di essere cornuti e mazziati più volte, perché non sanno come funziona l’INPS, perché i loro interessi non sono rappresentati dai sindacati nostrani, e perché i precari sanno bene che iscriversi alla Gcil non è il modo migliore per farsi rinnovare il contratto.

Io sono un’impiegata e so bene di appartenere a una categoria di lavoratori privilegiati.

Anche se, come ho già scritto, spendere tutto il proprio stipendio per vivere non è un privilegio ma un beneficio per l’economia.

Il problema è un altro, ed è relativo alla distribuzione dei redditi, che favorisce sempre di più una minoranza di cittadini troppo ricchi per avere modelli di consumo “sani”.

Sono quell’1% della popolazione di cui parla Stigliz, premio Nobel per l’economia, che negli Stati Uniti guadagna il 25% del reddito nazionale.

Le economie nazionali non hanno nulla da guadagnare dalla presenza di cittadini troppo ricchi che investono in prodotti finanziari e yacht alla Briatore.

All’economia di una nazione fa più comodo avere una migliore distribuzione del reddito, a favore dei redditi da lavoro, perché i consumi del 99% sono migliori di quelli dell’1%.

Noi compriamo latte, burro e uova, come dice Caprotti, il padrone dell’Esselunga, che si è accorto di come i consumi degli italiani stiamo pericolosamente scivolando verso il basso.

Adesso però la chiudo con il pensiero profondo del giorno: è giusto restituire i contributi silenti ai precari ma non è corretto attribuire il peso del declino economico dell’Italia a chi guadagna 1.500/2.000 euro al mese con uno stipendio da impiegato.

L’unica soluzione sensata sarebbe difendere i redditi da lavoro contro quelli da capitale.

E questo governo non lo sta facendo. Punto.

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