Archivio mensile:febbraio 2014

Facebook è diventato un social network da “signorine” (rispetto a Ask.fm)

Il padrone di Facebook sta cercando di comprare tutto quello che sta nascendo nel mondo social, perché è terrorizzato dalla concorrenza.

Zuckenberg sembra particolarmente interessato a una fascia d’età che non è quella che frequenta questo blog, ovvero gli adolescenti.

Che amano emozioni più forti di quelle offerte da un social network come Facebook, che ormai è diventato politically correct.

Le persone – su Facebook – usano quasi sempre i loro veri nomi, e spesso anche  le loro vere foto per le immagini da inserire nel profilo, e ci tengono a non infilarsi in scazzottate on line che potrebbero rovinare la loro buona reputazione.

Ogni tanto capita che qualcuno scriva qualcosa di sgradevole in risposta a un commento, ma non sono mai stata veramente insultata su Facebook, anche se so che a qualcuno è capitato.

La mia impressione è che Facebook si sia lentamente avviato sulla strada della pacatezza, proprio perché i profili sono collegati a persone reali, con un nome e un cognome.

Insomma, la correttezza che tutti professiamo su Facebook è dovuta al fatto che non è un social ANONIMO, come invece nel caso dei social di ULTIMA GENERAZIONE, quelli destinati agli adolescenti.

Il più famoso è il lituano Ask.fm, accusato di essere all’origine del suicidio di ragazzini dalla psiche indebolita dagli insulti che arrivano sulla loro bacheca da parte di utenti anonimi, che non hanno alcuna intenzione di rivelare la loro identità.

Non voglio entrare nei meccanismi tecnici che regolano i nuovi social anonimi – ne è appena nato uno negli States che si chiama Secret – che sono però tutti accomunati dal fatto che i commenti non sono firmati con il nome che hai nella vita, ma con un nick che copre la tua identità.

E quando non devi dire chi sei, ti parte la mano. Diventi zozzo, kattivo, aggressivo, fastidioso, stalkante, brutale.

E se sei uno stronzo, ti diverti a perseguitare qualche bella ragazzina che non ha il coraggio di fare l’unica cosa sensata: cancellare il proprio profilo e sparire.

Credo che le relazioni aggressive diano dipendenza, e credo che i ragazzi di oggi siano molto più aggressivi di quanto non lo fossimo noi alla loro età.

Sembra che le relazioni tra adolescenti siano uscite dai binari etici – Dio, come scrivo da vecchia! – ai quali eravamo stati abituati.
Oggi l’insulto va di moda, anzi è una cosa molto figa.

Non ho voglia di fare del voyeurismo su Ask.fm, spingendomi al punto di iscrivermi a un social per ragazzini, ma ho visto un po’ dei video di Ask.fm (postati anche su Youtube), in cui delle teen-ager truccate e smaltate vomitano parolacce come le indemoniate di padre Amorth (vero esorcista che opera a Roma). Di questi video girano già le parodie, ma vi assicuro che non fanno ridere.

Non fanno ridere me, ma fanno ridere mio figlio Tommaso che ieri sera li ha guardati insieme a me. Li trovava divertentissimi!

Naturalmente gli ho fatto una capa tanta sul fatto che non devi iscriversi a Ask.fm (dove c’è già metà della sua classe delle scuole medie), ma ho capito che noi Facebookkari siamo fatti di una solida pasta antica, condita da buone maniere, proprio perché non siano anonimi.

Anzi, siamo diventate le “signorine” del web. LOL!

Capisco quindi la campagna di acquisti di Mister Zuckenberg.  Che ormai sta invecchiando anche lui e corre il rischio di trovarsi scoperto sul fronte pre-adolescente selvaggio e suicidario, che sarà l’utente del futuro (se sopravvive all’adolescenza e impara a fare qualcos’altro che non sia masturbare uno smartphone).

P.S.
Gli insulti che noi selfwriter – e non solo – riceviamo periodicamente su Amazon e sulle altre piattaforme di epublishing nascono proprio dall’anonimato degli utenti che possono postare quello che vogliono, protetti dai nick.
Ma  Amazon non è Ask.fm. E’ una piattaforma di vendita, e quindi sarebbe il caso di proteggere gli utenti che vendono un prodotto – chi scrive vende se stesso – dalla concorrenza sleale di chi parla male del loro prodotto.
Mr Bezos non fa i soldi con i ragazzini che urlano ma con le aziende e le persone che vendono qualcosa.
Motivo di più per proteggerle dagli attacchi anonimi.

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Le donne “fanno”, gli uomini ne parlano

Mi rendo conto che lo stile dei miei post non sia assolutamente scientifico, ma li scrivo in genere in venti minuti.

Racconto quello che mi succede o quali sono i pensieri che hanno attraversato – velocemente – il mio stanco e sempre affrettato cervello.

Dunque, la mia ultima – ascientifica – proposizione è che sia in atto un ribaltamento antropologico del paradigma canonico secondo cui il maschio cacciatore lasciava il villaggio per cercare cibo per la famiglia, mentre le donne, sedute davanti alle capanne, chiacchieravano e cuocevano il pane, con un infante attaccato alle tette.

Quando i maschi tornavano dalla caccia, raccontavano le loro imprese alle donne che li ascoltavano rapite – forse per davvero – ma soprattutto contente che ci fosse qualcosa da mangiare.

Continuo sempre a straparlare dai picchi altissimi della mia ignoranza, ma ritengo che questo paradigma sia stato più o meno applicabile alla società occidentale fino agli anni ’50, quando le donne erano ancora quasi tutte casalinghe.

Allora il “padre” faceva il padre, e cioè portava i soldi a casa, si preoccupava dell’educazione dei figli – favorendo la crescita del super io – e sceglieva le scuole dove far crescere la prole (se poteva permettersi di mantenere i figli durante il ciclo scolastico).

Che cos’è rimasto di quella serena costellazione familiare, in cui a tutti era assegnato un posto ed erano guai per chi si ribellava?

Secondo me, nulla.

Oggi le donne “fanno” tutto.

Lavorano, spesso con gli stessi orari degli uomini, e quindi portano a casa metà dei denari necessari per la sopravvivenza.

Quando tornano a casa, sono spesso loro a dovere cucinare per tutta la famiglia – se hanno dei figli – e sono spesso loro a fare anche i lavori domestici (o quanto meno organizzano le corvée: LUI lava i vetri e passa lo straccio, LEI cambia le lenzuola dei letti).

Ma non solo: sono ormai quasi sempre le madri che si occupano dell’andamento scolastico dei figli, aiutandoli a scegliere le scuole più adatte a loro, con un “investimento” emotivo sui risultati scolastici dei figli spesso persino eccessivo (consiglio la lettura di “Non è tutta colpa delle mamme” di Pietropolli Charmet).

Aggiungo un ultimo fondamentale dettaglio, visto che lavoro anch’io.

Nelle aziende, ormai, le donne lavorano TANTISSIMO, ovvero sono spesso loro a sobbarcarsi i lavori dove bisogna “fare”, dove per “fare” intendo svolgere attività con un effetto ontologico consistente.
Di queste attività non fanno certamente parte “comandare” e partecipare alle riunioni.
Se dalle aziende italiane scomparisse il middle management, che comanda – probabilmente non se ne accorgerebbe nessuno.

Le donne nelle aziende sono spesso molto operative, ovvero se c’è da “fare” qualcosa, non perdono tempo: la “fanno” subito.

Gli uomini, invece, preferiscono stare lontani dall’azione, per avere il tempo di costruire rapporti forti tra loro, e delegare il lavoro vero a qualcun’altro (molto spesso delle donne).

Però agli uomini piace ancora raccontare le loro magnifiche imprese – come ai tempi delle grandi cacce – anche se ormai di imprese ne compiono sempre di meno, e anche se le LORO imprese sono spesso compiute dalle donne.

D a qui il titolo del post: le donne “fanno” e gli uomini ne parlano (di quello che hanno fatto le donne).

Sì, sono kattiva. E per essere polically correct, aggiungerò che gli uomini stanno cambiando, bla bla bla, e non sono tutti uguali.

Quello che penso veramente è che sessant’anni – tanti ne sono passati dagli anni ’50 – hanno portato il mondo femminile a enormi sconvolgimenti, mentre quello maschile sembra segnare un po’ il passo…

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ADV per self publisher

Non mi sono mai vergognata a dire che uso l’ADV online per promuovere i miei libri.

Credo infatti che il più grande problema per un self sia quello di far sapere agli altri che esiste il suo libro.

E l’ADV online – che costa poco – gli permette di dire agli altri: “Ehi, lo sai che puoi comprare il mio libro?”.

Non lo trovo disonesto, insomma, come non è disonesta una pubblicità che si limiti ad annunciare l’esistenza di un prodotto.

Sarebbe disonesto invece dichiarare il falso. Ma su questo esistono leggi dello stato che proteggono il consumatore.

Ordunque, io uso Google Adwords e le altre forme di ADV che Facebook mette a disposizione dei suoi utenti.

Le cifre che spendo possono variare dai due euro al giorno fino ad arrivare anche a dieci, nei momenti in cui voglio fare qualche “esperimento”.

Non sai mai – quando spendi due euro al giorno in ADV – se a farti salire in classifica sia stato il surplus offerto dall’ADV o se invece avresti venduto esattamente lo stesso numero di copie.

Però sono povera e un po’ pidocchia, e quindi spendo raramente più di due euro al dì.

Ma negli ultimi giorni ho picchiato un po’ di più su Google Adwords, e sono effettivamente salita in classifica.

Poi ho diminuito la spesa, e sono riscesa.

Insomma, l’ADV ti aiuta a vendere, ma non è sicuramente l’unico ingrediente che fa andare bene un libro.

Comunque, per chi volesse sapere un po’ di più, confesso di aver imparato a usare la piattaforma di Adwords passando delle ore al telefono con il call center di Dublino.

Per fare ADV bisogna comunque avere un proprio sito da linkare nell’annuncio, e non è consentito linkare direttamente gli ebook su Amazon e (credo) neanche le Fan Pages di Amazon.

Il primo passo per fare ADV online è quindi quello di aprire un sito, anzi un blog, che abbia una serie di plug in social che vi consenta di pubblicare i vostri post su Facebook, Twitter, eccetera.

Io uso WordPress, perché i plug in social sono PERFETTAMENTE FUNZIONANTI, cosa che non avviene con altre piattaforme.

WordPress offre inoltre l’hosting gratuito se vi accontentate di non personalizzare troppo il vostro blog.

Io ho scelto al formula da 99 euro all’anno, perché volevo comprarmi il dominio e smanettare un po’ sul sito.

Bene, una volta che vi siete aperti un blog, potete caricare i vostri libri (copertine, sinossi, eccetera) sulle pagine del blog, dove metterete anche i link alle piattaforme dove sono in vendita i libri in questione.

Sarà il link alla pagina del libro – sul vostro sito – quello che potrete usare per fare ADV.

Io naturalmente non lavoro per Adwords, anche se è un assoluto dato di fatto che abbiano loro il monopolio dell’ADV online.

Ho provato a vedere qual era l’offerta pubblicitaria di altre agenzie italiane, ma non offrivano il pay-per-click, l’unico dato sul quale abbia senso ragionare.

Cerco sempre infatti di non pagare più di 10 centesimi per click e mi rifiuto di fare acquisti da chi mi propone pacchetti di “viste” a forfait.

E per spendere poco, preferisco l’ADV testuale ai banner pubblicitari (con la copertina del libro) che in genere costano 24 centesimi a click.

E poi ho fatto una mini campagna di acquisizione di utenti sulla Fan page di Facebook di Omicidi in pausa pranzo e ogni tanto picchio cinque euro su un post dove metto il link a qualcuno dei miei libri.

Potrei continuare ancora a discettare dell’argomento, ma se dovessi dire che l’ADV è l’ingrediente segreto del fatto che UNO dei miei libri vada bene, mentirei.

L’ingrediente segreto è sempre e solo uno: farsi un gran culo.

Ho un figlio ancora piccolo e non mi posso pagare la baby sitter per uscire.

Sono chiusa in casa e posso solo leggere o usare il PC.

Non ho più la televisione e mi fa schifo cucinare.

Quindi posto le mie cazzatine sul blog.

Prosit!

P.S. So perfettamente che quando do i miei due euro al giorno ai grandi monopolisti del web sono un pollo.
Ma sono un pollo digitalizzato e mi piace razzolare sul web.
Il mio UNICO e ULTIMO VIZIO.

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Web stress: seconda puntata

Nella prima puntata sullo stress da web ho fatto la parte di quella figa che parla dello stress degli altri, in genere adolescenti alle prese con i “Mi piace”, eccetera sui social network.

Adesso parlerò del mio stress da web, che peraltro non è niente rispetto allo stress che mi provocano i guai veri della vita.

Ma siccome non uso il blog per parlare del mal di denti, mi dedicherò alle minuscole forme di stress che possono essere provocate dall’esposizione – di un adulto – sui social network.

Nel mio caso, il primo motivo di stress è dato dal fatto che ho autopubblicato dei libri e i lettori dotati di mouse oggi sono molto più temibili di quelli che una volta erano dotati solo di portamonete.

Una volta – parlo di meno di cinque anni fa – i lettori entravano in libreria, compravano il libro e FORSE lo leggevano.
Agli editori interessava solo sapere quanti libri avevano venduto.
Nessuno (fra gli editori) sapeva – o era interessato a sapere – che cosa pensavano i lettori.
Gli unici dati che lettori ed editori avevano a disposizione erano quelli relativi al numero di copie vendute.

Con il web 2.0, che  non è altro se non un web facile da usare, in cui è diventato semplicissimo produrre e pubblicare contenuti, anche il lettore dice quello che pensa e ha il potere di “muovere” il mercato editoriale.

Ho già pubblicato l’intervista a Claudia Peduzzi, perfetta lettrice digitale, che legge e recensisce sui social network molti dei libri che ha letto.

Leggo con molta attenzione tutto quello che scrivono i lettori su Amazon, e ho addirittura riscritto delle parti di “Omicidi in pausa pranzo”, dopo che un paio di lettori mi avevano segnalato di aver capito troppo presto chi era l’assassino.

Fair enough: se una critica è onesta e serena, e anche per l’appunto critica, sono la prima a tenerne conto.

Il problema nasce invece quando le critiche arrivano dai Fake o da un tipo di lettore che definirei stitico.

Parliamo prima degli stitici: sono quelli che danno bacchettate in giro e si limitano in genere a scrivere poche righe, molto svalutanti e spesso un po’ cattivelle.

Il lettore stitico è quello che da una o due stelle a TUTTI, tranne forse che a Petrarca, contro cui mi sono battuta ad armi pari in una promozione a zero euro su Amazon, durante la quale ho sfidato Dante e Verga nelle classifiche Amazoniane.

In genere lo stitico scrive poco: stronca e basta.

Per carità, non penso che mi suiciderò come Tenco in una stanza d’albergo a Sanremo, perché sono stata stroncata dai lettori, però qualche mal di pancia di mi è venuto. Ma sono mal di pancia che mi tengo volentieri quando capisco che l’utente è VERO.

E cioè se si tratta di un lettore un po’ severo, che però ha già fatto altre recensioni e ne farà delle altre.

Il mal di pancia invece aumenta quando ti trovi di fronte a un Fake.
E cioè a qualcuno abbastanza smanettone da essere riuscito a inventarsi un profilo su Amazon (collegato a una carta di credito, per di più), profilo che usa per colpire TE e magari qualche altro self.

Riconosci il Fake perché di solito lascia solo una cattiva critica per uno dei tuoi libri e poi scompare, oppure lascia una stelletta per te e cinque a caso per un altro paio di libri (sui cani, magari). E poi scompare di nuovo.

Essere un autore 2.0 – tanto per non essere banali – significa quindi beccarsi una discreta quantità di bastonate, spesso quotidianamente, spesso date da persone che nascondono la mano con cui ti colpiscono

Bastonate incise nella pietra del web, perché il web è diventato ormai molto più resistente e longevo delle pietre.

Se qualcuno ti stronca sul web, ti fa molto più male di quanto non avrebbe potuto farti una stroncatura su un giornale.
La carta va a finire nel bidone della carta.
I link invece portano a contenuti che girano su qualche server del Nevada che non si fermerà mai…

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Intervista a Claudia Peduzzi: perfetta lettrice digitale

Conosco Claudia Peduzzi solo sul web, ma ho capito che è una fortissima lettrice digitale.
Ho pensato che intervistarla sarebbe stato utile a tutti quelli che si occupano di editoria, digitale e non.
Le ho mandato le mie domande e lei mi ha risposto per email.
Copio qui sotto la sua intervista. INTERESSANTISSIMA! 

Ciao Claudia, noi ci conosciamo solo sul web, ma so che tu leggi TANTISSIMO e scrivo moltissimo sui libri che leggi.
So anche che hai un Kindle.
Vorrei farti qualche domanda per capire come e quando sei passata dai libri cartacei a quelli digitali.
Ecco le mie domande!

Quanti libri cartacei acquistavi all’anno prima di comprarti il Kindle? Hai idea di quale fosse la tua spesa annua in libri?
Sostanzialmente leggo tanto quanto prima, ma è cambiato il modo di procurarmi “la materia prima”, con in più il grande vantaggio che i libri digitali restano miei.
Prima del Kindle, mi affidavo soprattutto agli scambi scambio con mamma, zie, amiche, ai regali (pochi) e ai mercatini dell’usato, dove compravo e rivendevo anch’io.
In libreria acquistavo prevalentemente i libri in lingua straniera (inglese e francese, raramente tedesco), perché altrimenti era impossibile procurarmeli.
La spesa annua per i libri non era quindi molto rilevante. Certo, quando andavo a fare shopping con le amiche era più facile che tornassi a casa con un libro che non con un vestito!

Quando hai deciso di comprarti un Kindle e perché hai scelto proprio quel modello di ereader?
Ho comprato il mio primo Kindle nel settembre 2011. All’epoca non era ancora disponibile una scelta di e-reader così amplia come adesso. Mio fratello viveva a Londra e  me ne parlava da tempo. Il mio obiettivo, quando l’ho comprato, era di procurarmi più facilmente libri in inglese. Il primo e-book in italiano l’ho comprato solo nel gennaio 2012.

Da quando hai il Kindle, è aumentato il numero di libri che compri e leggi ogni anno? Mi riferisco al numero complessivo: libri cartacei + ebook. E quanti sono rispettivamente i libri cartacei e gli ebook che hai comprato nel 2013?
Leggo leggermente di più, perché riesco a procurarmi più libri a minor prezzo.
Dal 2011 non ho più acquistato libri cartacei, non riesco a leggere nemmeno quelli che mi regalano e ho un buono da 100 euro da spendere in libreria dal natale 2011 ancora inutilizzato.

Quali sono le occasioni in cui decidi di comprare ancora la versione cartacea di un libro?
Potrei comprare in cartaceo libri d’arte o libri antichi, ma siccome non posso permettermeli… aspetto che me li regalino!

Il tuo budget per i libri è aumentato o diminuito da quando hai il Kindle?
Il budget è sempre lo stesso, ossia limitatissimo.
Il vantaggio che ti danno gli ebook è quello di poter approfittare delle offerte.
Seguo quelle di Amazon in italiano e in inglese, e quelle di Bookrepublic e Cubolibri. Le edizioni 0111 offrono la possibilità di leggere in cambio di recensioni (una volta ho vinto anche un ereader che ho convertito in un buono da 99 euro per acquistare ebook, che ho speso in parte per edizioni a prezzo pieno di varie case editrici).
Scrivo recensioni inoltre per un blog letterario – Reader’s bench –  che mi consente di leggere qualche libro in più offerto dalle case editrici o, più frequentemente, dagli autori indie.

Per te è importante il fatto che un ebook costi normalmente un po’ di meno di un libro cartaceo? E quanto conta il fattore “prezzo” nella scelta di acquistare un ebook?
Non ho mai acquistato un ebook sopra i 9,99 €, che considero già un prezzo “folle”. Di norma acquisto a 0,99€, ma sono disposta anche ad arrivare a 2 o 3 euro. Basta saper aspettare…

Ti capita spesso di comprare gli ebook “a prezzo di lancio”?
Come ho già detto, acquisto gli ebook “più costosi” solo a prezzo di lancio. Devo ammettere che leggendo moltissimo in inglese l’offerta è molto ampia. Non ho mai invece scaricato un ebook illegalmente e non ho mai condiviso un mio ebook con altri.
Il prezzo al quale li pago è talmente irrisorio da non giustificare il ricorso a metodi illegali per scaricarli.

Ti capita spesso di scaricare i libri gratis su Amazon?
Se sono gratis tanto meglio. Guardo le offerte tutti i giorni e ho messo tra i preferiti di Facebook i gruppi che li segnalano. Faccio parte di molti gruppi di autori indie che spesso mi propongono di leggere i loro libri in cambio di recensioni. Ho fatto anche da beta reader per la versione in inglese di un romanzo scritto da un’autrice italiana che vive in Inghilterra da 17 anni. Mi sono conquistata la fama di essere una persona dice quello che pensa. Non ho mai fatto una recensione favorevole se secondo me non era meritata. Qualcuno si è offeso, ma altri hanno apprezzato.

Quando acquisti un ebook, leggi sempre le critiche degli altri lettori? Da uno a dieci, quanto conta il parere degli altri lettori nell’orientarti nella scelta d’acquisto di un libro?
Leggo sempre le recensioni degli altri, ma bisogna avere senso critico anche per quelle. Generalmente, più ce ne sono e più è facile farsi un’idea del libro in questione.
Da uno a dieci, posso dire che le recensioni degli altri contano otto.
Raramente mi sbaglio quando scelgo un libro, ma mi è capitato spesso di restare delusa dallo stile. Una qualità fondamentale che richiedo a un libro è infatti il rispetto della grammatica, oltre all’uso appropriato della punteggiatura.
Non sono in molti a condividere la mia idea, e spesso nelle recensioni non si parla di questi due argomenti.
Il problema di non trovare sempre una grammatica corretta e una buona punteggiatura riguardano sia gli autori indie che le edizioni della Case Editrici. Anzi ultimamente trovo che i libri autopubblicati siano di qualità superiore.

Quando compri un libro su Amazon, leggi sempre TUTTA la sinossi, o una sinossi troppo lunga ti scoraggia?
Niente è sufficientemente lungo da scoraggiarmi. Il mio libro ideale ha dalle 500 pagine in su, di conseguenza una sinossi lunga mi fa ben sperare. Una delle cose che guardo sempre è proprio il numero di pagine. Se sono indecisa, un numero di pagine inferiore a 350  mi fa optare per il no.

Quanto conta la posizione in classifica di un ebook nelle tue scelte d’acquisto?
La posizione in classifica conta zero. Non ho gusti nella media per cui se un romanzo è troppo commerciale ho il fondato sospetto che non mi piacerà.

Secondo te, l’acquisto di un ebook è più “istintivo” e facile di quello di un libro cartaceo? Bastano un paio di clic e l’ebook è tuo! Non hai paura di comprare più ebook di quelli che riesci poi effettivamente a leggere?
Certamente compro più ebook di quelli che riesco a leggere. Avere meno di una decina di libri in coda di lettura mi fa sentire “scoperta”. Quando leggevo in cartaceo mi accontentavo di cinque. Non tutti i momenti sono giusti per determinate letture, ho bisogno di poter scegliere.

Ti piace il fatto di poter lasciare tu stessa – su Amazon – un’opinione sui libri che hai letto?
Lascio recensioni su Amazon, Anobii e Goodreads. Le mie recensioni vengono inoltre pubblicate sul blog Reader’s bench e sulla pagina Facebook “Libri parole d’amare”. Direi che recensire mi piace.

Ti è capitato spesso di comprare la versione digitale di un libro edito dalle Case Editrici tradizionali di cui avevi letto delle critiche positive sui giornali?
Leggo sempre le recensioni dei libri su Io donna, Sette e sull’inserto del Corriere “La lettura”. Inoltre ricevo la pubblicazione “Il librario” con le ultime uscite. Se un libro mi attira ne cerco la versione digitale, la metto in Wishlist e aspetto che sia in offerta.

Perché ti piace così tanto leggere libri digitali? 
Non riesco più a leggere libri cartacei. Sono scomodi, non li puoi sottolineare e anche se lo fai, non ritroverai mai più quella pagina. Avere sempre un archivio a disposizione, consultabile in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, non ha prezzo.

Riesci a dirmi quanti ebook pubblicati – su Kindle – da self editor hai comprato nel 2013 rispetto a quelli pubblicati dalle Case Editrici?
Nel 2013 ho comprato un centinaio di libri e ne ho letti 60. Quelli delle case editrici saranno stati tra i venti e i trenta. La mia casa editrice preferita è Iperborea.

Vuoi scrivere qualcosa tu sugli ebook?
Sugli ebook esistono molte leggende metropolitane. Per esempio, quella secondo la quale secondo la quale se possiedi un Kindle, sei obbligato a comprare ebook solo su Amazon. Io li compro su molte piattaforme e se c’è bisogno li converto con Calibre (anche i pdf e gli e-pub protetti da drm).

Leggo anche su iPad utilizzando l’applicazione Kindle, mentre invece non uso quella di lettura di iBook.
Uso ancora un kindle con la keyboard che non cambierei mai. Ho comprato anche un Paperwhite per mia mamma e un Kindlefire per mio papà, ma secondo me quello con la keyboard è di gran lunga il più comodo.
I miei genitori sono entrambi ultrasettantenni e si sono subito convertiti al digitale, anche mia mamma che ha un rapporto con la tecnologia piuttosto difficile. Mio papà è fin troppo portato e ho dovuto prendergli il tablet perché voleva leggere anche il giornale!

Non sopporto chi osanna il cartaceo per il suo “profumo”!

La carta stampata contiene tante di quelle schifezze tra sbiancanti, piombo e altro, che le eventuali radiazioni dei device tecnologiche al confronto non sono niente!

Sono convinta che per i bambini di oggi sarà scontato usare delle device digitali per leggere, così come per noi è scontato usare il telefono o guardare la televisione.

Voglio solo aggiungere un’ultima cosa: sono invece molto affezionata ai quotidiani cartacei. E alle riviste.
Non è questione di colore  – con l’iPad la definizione è perfetta – ma di velocità.
Il quotidiano e la rivista non li leggi con la stessa attenzione del libro. Il piacere sta più nello sfogliarli e nel cogliere, a colpo d’occhio, le eventuali notizie interessanti.
Leggerli sullo schermo di un tablet non mi piace: è troppo piccolo e non mi dà una grande soddisfazione.

Qui finisce l’intervista.
Ringrazio Claudia, che probabilmente assomiglia già moltissimo ai futuri lettori digitali.
Saranno lettori molto informati e molto consapevoli dei loro acquisti.
Leggeranno le opinioni dei critici letterari “laureati”, ma anche quelle degli altri lettori, che oggi si sono a loro volta trasformati in recensori e possono quindi “muovere” il mercato.
I lettori digitali del futuro sapranno inoltre come acquistare gli ebook ai prezzi migliori, con la conseguenza che i prezzi tenderanno a scendere (ma questa è la teoria neoclassica della concorrenza perfetta).
Saranno insomma lettori con un potere molto più elevato di quello del passato, e tutti quelli che scrivono dovranno avere paura di loro…

Web stress

Lo stress da web è una delle patologie – recenti – più diffuse.

I sintomi sono molto chiari.

Si contano i “Mi piace” ai propri post su Facebook o sulle Fan pages, si gioisce quando un post riceve un alto numero di commenti o quando un Tweet va alla grande (retwittato, eccetera). Poi ci sono le foto su Instagram o su Flickr, i “Mi piace” o i commenti sul canale di Youtube, e così via.

Se i “Mi piace” e tutto il resto sono tanti, ti migliora l’umore, se invece nessuno ti ha cacato, ti viene una depressione micidiale.

Ci sono anche degli algoritmi che misurano quanto “peso” hai nella rete – il più famoso è l’indice di Klout – che misurano quanto lunga è l’onda virale suscitata dai nostri post sui social network.

Ho conosciuto persone che si vantavano di avere un Klout molto alto, ma la maggior parte degli adolescenti che bazzicano sul web, il Klout ce l’hanno basso. E anche se non sanno che cos’è l’algoritmo che misura la loro influenza, passano le giornate a cercare sulla Rete qualcosa di molto divertente – video, in genere – da postare su Facebook (per farsi dare un “Mi piace” dagli amici), e poi controllano compulsivamente come stanno andando i loro post.

Lo stesso discorso vale per Instangram e per i social network più facili da usare di Twitter, che invece ha sempre raccolto l’utenza più sofisticata del web e sembra stia per trasformarsi in qualcosa di più simile a un social network tradizionale (con foto e video in evidenza).

Insomma, lo stress da web prevede la ricerca compulsiva di contenuti da pubblicare (che spesso sono solo copiati dalla Rete, solo raramente sono prodotti da chi li pubblica), e poi il controllo compulsivo per verificare l’effetto che hanno avuto.

Come sia possibile guarire da una siffatta dipendenza – che provoca stress – non mi è dato di sapere.

Ne soffro anch’io, anche se non passo il tempo a cercare su Youtube i video che fanno ridere.
I contenuti che pubblico sono prodotti da me, ma non è che abbiano un indice di klout così alto.

Anche perché sulla Rete, l’indice di Klout più alto ce l’hanno i video con i gattini che suonano il piano e i bambini che cadono dall’altalena.

Insomma, o ci mettiamo a scoreggiare come Frank Matano – che mi fa ridere: è un comico naturale – oppure ci rassegniamo ad avere l’onda corta.

Lui ha milioni di “Mi piace”….

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Furiose lettrici digitali

Sarebbe banale parlare di Renzi questa sera, anche se consiglio a tutti di andare a vedere la galleria fotografica dei suoi amici sul Corriere della Sera: da Blair a Cavalli e Prandelli.

Credo che non manchi nessuno, a parte Gesù Cristo, ma solo perché è già morto.

A parte questo, vorrei solo brevemente condividere la mia riflessione – abbastanza banale – sul fatto che le donne si stanno rivelando forti lettrici anche in campo digitale.

Gli ebook Rosa vanno via come il pane ed è evidentissimo che molte donne – lettrici compulsive di romanzi rosa o semirosa – si sono comprate un e-reader e vanno alla ricerca di libri che non costino troppo, perché ne leggono TANTI e non hanno risorse economiche sufficienti per comprarsi una mezza dozzina di libri al mese, se non di più.

La lettrice digitale è quindi probabilmente decisa ad ottenere un prodotto decente per un prezzo non troppo sconveniente.

Bene, amici scrittori e amici editori: nel mare magno degli ebook con un target assolutamente femminile c’è da sguazzare.

Tutte le mattine vedo tantissime donne con un e-reader in mano. Di tutte le età (escludiamo naturalmente quelle che non so digitalizzate).

Vaticino quindi che il target femminile guiderà le scelte anche delle nuove case editrici online che stanno nascendo come funghi.

Non so invece se nasceranno nuovi generi, dopo il chick-lit e la mumy-lit.

Certo, la Kinsella non vincerà il Nobel, che invece è stato GIUSTAMENTE dato a Alice Munro.

Che leggo tutte le sere, da qualche giorno.

Nessuno sa scegliere gli aggettivi come lei.

Nessuna donna – vivente – scrive bene come lei.

Nessuna scrittrice – a parte  Silvia Plath – riesce a deprimermi come lei.

Non so neanche dove voglio andare a concludere, ma credo che se volessi suicidarmi FELICE, potrei farlo leggendo un grande libro della Munro.

Forse la conclusione è che si possono leggere – e scrivere – delle allegre schifezze.

Come le mie.

E rimanere in pace con la propria coscienza.

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Antropologia del rutto e della scoreggia (secondo Emanuele Lai)

In tempi così tristi e bui, in cui l’unica cosa che sono riuscita a capire è che Renzi vuole andare al posto di Letta senza far cadere il governo, ho inavvertitamente dato l’avvio a un fondamentale dibattito sulla scoreggia, dotato di una pregnanza filosofica che mi colpisce molto positivamente, soprattutto se confrontato con il genere di roba che leggi in questi giorni sui quotidiani italiani.

Pubblico integralmente la lectio magistralis di Emanuele Lai, eminente antropologo sardo, forse l’erede diretto del nostro Ernesto de Martino, considerato fino ad ora l’autore dei più importanti testi mai scritti da un antropologo italiota.

Emanuele è andato oltre de Martino, e vi invito a seguirlo su Facebook, dove dispensa quotidiane pirle di saggezza.

Ecco la lezione di Emanuele sulle ragioni della passione esclusivamente maschile per rutti e scoregge.

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La cosa è complessa e le sue radici affondano nell’alba dei tempi.

Nel neolitico, durante le battute di caccia, il maschio alfa comunicava con il resto del clan mediante le scoregge.

Appena avvistata la preda, l’alfa emetteva la la cosiddetta “loffa” o “peto silenzioso” (non “loffia” come dice il tuo figliolo).

Il clan sentiva l’odore ma non il rumore, dunque sapeva che doveva tenersi pronto.

Anche la preda sentiva l’odore, ma essendo di tipo fecale si tranquillizzava.

Uno strombazzamento l’avrebbe invece spaventata e dunque allertata.

A quel punto, una volta che tutto il clan si era appostato per la cattura, ecco che l’alfa emetteva una scoreggia ben più consistente e acuta, dando così il segnale di attacco simultaneo.

Ghermita la preda, sentendo un rutto dell’alfa, il clan procedeva con una grande scorreggiata di gruppo direzionata sul viso della preda allo scopo di stordirla e ucciderla.

Alla fine della battuta il clan tornava al villaggio per consegnare la selvaggina alle donne affinché la cuocessero.

Durante tutta la giornata si festeggiava intonando rutti e scoregge, per ringraziare la madre terra del generoso bottino.

In seguito, quando le tecniche di caccia si raffinarono, la scoreggia di gruppo ebbe un valore solo simbolico e scaramantico e fu vista sempre più negativamente, fino alla sua abolizione, avvenuta ufficialmente il 2 luglio del 103 d.c. ad opera di un editto dell’Imperatore Marco Ulpio Traiano, che decretò la crocefissione in caso di violazione.

Secondo gli studi più recenti, comunque, pare che “fermarle tu non puoi…ma chiamale se vuoi…emanazioni“…ma questa, è un’altra storia…

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GRAZIE EMANUELE PER LE TUE SCOPERTE!

 

 

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Maschio pre-adolescente modello “rutto-scoreggia”

Mi ricordo la mia preadolescenza perché volevo andare in giro mezza nuda e i miei me lo impedivano.

E poi mi ricordo che ero triste, oppure allegra come un’oca ubriaca.

Ecco, anche Tommaso ha dei momenti di cupore che mi si attaccano addosso, facendo diventare anche me tristissima.

Ma poi, basti che arrivi un amico, e la tristezza di Tommaso svanisce in un secondo per lasciare posto a cosa?

Ai rutti e le scoregge fatte in compagnia di altri preadolescenti maschi che trovano divertente ruttare e scoreggiare in compagnia.

Se li sento ridere dalla stanza di Tommaso, di fianco a quella in cui scrivo, è perché qualcuno di loro si è esibito in qualche concerto “naturale”, che ha suscitato l’ilarità compiaciuta degli altri.

Ma non solo, quando Tommaso mi chiama sul cellulare, mi becco sempre almeno un paio di rutti, e vengo regolarmente inondata di cacche su WhatsApp (avete presente l’inconcina a forma di cacca? ecco, quella).

Trovo gli amici di mio figlio molto divertenti nella loro maschia rudezza, ma mi chiedo: “Da quali residui antropologici arrivano le scoregge collettive dei pre-adolescenti?“.

Le ragazzine di dodici anni non si chiudono in camera a fare la gara di rutti.
Non pensano che la cosa più divertente del mondo sia fare una “loffia“, come le chiama ancora mio figlio.

C’è forse un residuo antico in tutta questa fisicità – buffissima – da caserma che hanno solo i giovani maschi?

Anche nelle cacce di 30.000 anni fa, il branco di maschi scherzava su chi faceva la scoreggia più rumorosa?

Ho il sospetto di sì.

Nerdissimo me

Mio figlio di anni 12 è già un nerd-nerdissimo – chiuso in casa davanti al PC – e io mi sto rassegnando.

Anche non posso né voglio trasferirmi  a USSOLO – come nel “Vento fa il suo giro”, un film di qualche anno fa – insieme a un branco di pecore, e mettermi a fare formaggi in un paese di un centinaio di abitanti.

Non so quanti abbiano visto quel film – a Milano lo diedero al Mexico per mesi – in cui un professore francese portava la famiglia a vivere nella Valle Maira e si metteva ad allevare le pecore.

La storia naturalmente finiva male, e il professore tornava in Francia insieme a figli e capre.

Io però sono sicura di non volere vivere nell’Ottocento, senza il bisogno di trasferirmi a Ussolo per vedere come butta.

Sono contenta di avere la lavatrice e il frullatore, e sono felice di avere uno smartphone e anche  un PC.

E quindi devo essere contenta di avere un figlio attaccato al PC, perché l’unico modo per staccarlo sarebbe appunto quello di portarlo  ad allevare pecore.

Cercherò di fare un elenco dei motivi per i quali bisogna essere contenti di avere un figlio nerd.

E per farlo, citerò anche un post che Zio Lupus ha appena fatto su questo blog.
Non conosco Zio Lupus, ma è stato sicuramente parte della famiglia dei nerd, che conosce molto bene.

Comincio da quello che ha scritto (e che riassumo in due concetti):

  1. i giovani al giorno d’oggi vivono in un mondo caotico e deconcentrante , non possono più socializzare come sarebbe nella loro natura,
  2. il gioco contribuisce a dargli una tribù, una stabilità: le persone nel mondo reale spesso cambiano mentre quello virtuale è molto più stabile, proprio come quello paesano di mille  fa.

Penso che abbia ragione, anche perché ormai Tommaso è passato ai videogiochi dove si gioca insieme a una squadra di amici, tutti collegati insieme su Skype.

Tommaso e i suoi amici parlano continuamente tra di loro mentre giocano, e le sue serate milanesi – chiuso in casa con una madre stanca dalle undici ore passate per andare e tornare dall’ufficio –  sono diventate all’improvviso divertentissime.

Lo sento gridare cose del tipo: “Scappa da lì!“, “Ti sta uccidendo!“, mentre dall’altra parte gli rispondono i suoi compagni di classe, anche loro furiosamente nerd, che stanno combattendo nello spazio galattico di Dark Orbit o nelle campagne romane di Minecraft.

So perfettamente che quella è una socialità surrogata rispetto a quella di cinquant’anni fa, quando i bambini giocavano per davvero e tutti insieme (fuori di casa).

Ma ormai siamo chiusi dentro le nostre case e le nostre vite metropolitane non si svolgono più all’interno dei quartieri: gli amici di Tommaso abitano lontano e farebbero fatica a vedersi per davvero.

E poi, mentre giocano, i ragazzi imparano anche a usare il computer, senza far fatica.

Di sera sento Tommaso e i suoi amici parlare di server, Java, righe di codice da copiare, come se anche tutto quello facesse parte del gioco.

Certo, i ragazzi devono fare anche uno sport, dovrebbero leggere dei libri o dei fumetti, per imparare a mantenere fissa la concentrazione sullo stesso oggetto per più di un secondo, ma noi non sappiamo come sarà il lavoro tra vent’anni. 

Probabilmente anche gli operai specializzati dovranno essere bravissimi ad usare il PC e forse dovranno saper compiere molte azioni nello stesso momento, sia nel mondo fisico e in quello virtuale.

Tommaso si sta allenando ai lavori del futuro, ne sono certa.

Sono rassegnata, e comincio a essere anche (un po’) contenta.

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