Archivio mensile:Maggio 2013

Mamma, mi fai internet illimitato?

Qualsiasi cosa chieda a mio figlio, di questi tempi, ottengo in risposta una domanda: “Mamma, mi fai internet illimitato?”.

Gli chiedo: “Com’è andata oggi a scuola?”.

E lui mi risponde: “Mi fai internet illimitato?”.

Tommaso ha già uno smartphone, come tutti suoi compagni di classe,  con 1 Giga di internet.

Ma vive nel terrore di finirlo. Lo centellina: a casa si connette subito al wifi, e risparmia i secondi di navigazione.

Gli ho chiesto: “Ma che ci fai con l’abbonamento illimitato?”.

Risposta serissima: “Uso il cellulare come router quando sono in classe e dobbiamo fare le ricerche su internet”, perché Tommaso ha un computer che porta in classe.

Domanda: “Cosa fanno i tuoi compagni che non hanno il computer?”.

Risposta: “Fanno le ricerche sul cellulare!”.

E poi di nuovo: “Mi fai internet illimitato?”.

No, non cederò. Non credo neanche che ci siano insegnanti che chiedono ai ragazzi di fare “le ricerche su internet” in classe –  sul cellulare – anche se quella delle ricerche su internet sta diventando una moda pericolosa.

I ragazzi ormai sono convinti che in rete esista una specie di cervello collettivo, al quale basta connettersi con una connessione appunto illimitata.

Il cervello di internet è lì, a portata di clic, e ne diventi partecipe nel momento in cui scarichi due dati sulla Lombardia da Wikipedia.

I nostri figli sono convinti che i loro cervellini giovani e in erba pulsino all’unisono col grande cervello della rete: basta potersi liberamente abbeverare alle grandi conoscenze deposte sulla rete di server che oggi connette qualche miliardo di esseri umani.

Non so più chi diceva che questa generazione sta usufruendo dei risultati raggiunti da quella precedente. Molto del codice sul quale gira la rete è stato scritto da signori che hanno una certa età.
Tim BernersLee ha sessant’anni, è lui che ha inventato il World Wide Web.

Mio figlio, invece, non imparerà a scrivere una riga di codice se pensa che internet significhi connettersi a Wikipedia, mentre in contemporanea gioca a Ninja Fruit sull’iPad.

Questi ragazzi sono utilizzatori PASSIVI del web, e non lo sanno.

Hanno pochi desideri, sono un po’ mollacchioni.

C’è una sola che vogliono: “internet illimitato”.

Il Liga s’è smesciato, ma è sempre incollanato

Ligabue, nuovo look e nuovi appuntamenti

Il Liga ce l’ha fatta!

Qualcuno gli deve aver detto: “Perché non cambi parrucchiere?”.

E quello nuovo ha fatto il miracolo: gli ha tagliato le meche, l’ha convinto!

Poi però non ha resistito: collare al collo e giacca coi brillucchi.

Un po’ di pelo in vista che non guasta mai.

Chiù pelu per tutti.

Getting pink

Nuovo libretto rosa in arrivo, non un granché, come sempre,  ma scendo ancora di prezzo: 0,99 euro!

Meno di così, si muore.

Vorrei solo stancamente ribadire che il web è difficile.

Non solo devi saper smanettare un minimo per pubblicare un ebook e farti un mezzo sito, ma devi anche diventare “social”, e cioè devi essere commentato e recensito dai lettori, che non sono buoni e ammansiti come i marchettari che lavorano per l’editoria cartacea.

Avete mai visto il critico di una qualche testata nazionale scrivere: “Ma che razza di porcata è mai questa?!”.

No, se ti pubblica un editore tradizionale, il suo ufficio stampa riuscirà a farsi fare qualche pezzettino sui giornali in cui si parla bene – o benino – di te.

Poi, i libri di carta “stampata” verranno esposti nelle librerie – in posizioni più o meno buone, a seconda del tuo “peso” editoriale – e se non ne vendi mezza, non lo saprà mai nessuno. Oggi le copie invendute le mandano al macero direttamente, mentre una volta finivano nei Remainders.
Non c’è più neanche più il rischio di trovare il tuo libro su qualche scaffale secondario di un Remainders: hanno chiuso anche quelli. E da molto tempo. Adesso ci sono quelli digitali: ma suona più figo essere un Remainders online, che non “fisico”.

Insomma, si può essere un fallitissimo scrittore cartaceo, senza che lo sappia nessuno. O quasi.

Se invece scrivi una mezza schifezza, e la pubblichi su web – e basta – il lettore/critico social te ne dirà di tutti i colori.

E i suoi commenti su Amazon rimarranno scolpiti per sempre sui server americani di Jeff Bezos.

Insomma,  dura vita quella dell’autopubblicato.

Abbiate pietà di me.

Mamma, mi compri una maglietta della Nike (per la foto di classe)?

Sabato scorso mio figlio mi ha chiesto con un candore commovente: “Mamma, mi compri una maglietta della Nike per la foto di classe?'”.

Il mio sguardo di risposta doveva essere così sconvolto che ha subito aggiunto: “Anche della Adidas, se quella della Nike costa troppo!”.

Gli sono praticamente svenuta tra le braccia.

Ho pensato: “Quanta fatica sprecata per fargli capire che le marche sono il diavolo, e i Prodotti Blu della Decathlon l’acqua santa!”.

Sì, perché ho sempre cercato di spiegare a Tommaso che quando si pagano 100 euro per un paio di scarpe della Nike, ne diamo dieci alle fabbriche  che le hanno prodotte in Cina, un altro po’ alla casa madre americana, e almeno 50 a chi segue il marketing della Nike, testimonial inclusi.

Abbiamo dedicato intere serate ai minuti di odio per la parola “marketing”, che significa farsi prendere per gonzi dai signori della pubblicità.

Molto meglio i prodotti blu della Decathlon, era quindi la mia tesi: costano meno e sono uguali a quelli di marca, ma senza il nome della marca scritta sopra.

Risultato: Tommaso non esce di casa se non indossa un paio di scarpe della Nike che gli ho comprato a 35 euro, un anno fa, in saldo, e che ormai sono sfiancate e puzzolenti, ma sempre meglio di quelle smarchiate da 15 euro (nuove) che giacciono nella scatola sotto l’armadio di camera sua.

Ma la maglietta della Nike no, quella no, ho urlato: “Vuoi spendere tutti quei soldi per una MAGLIETTA?”.

Mio fratello che passava di lì, ha rincarato la dose: “Perché non ti fai pagare anche tu per fargli pubblicità?”.

E poi ha aggiunto: “Fatti una maglietta con sopra scritto: SPAZIO IN VENDITA. Così almeno sarebbe più divertente!”.

Messo di fronte a un muro ideologico e invalicabile, Tommaso ha accettato la maglietta da 4,90 che sono comunque corsa a comprargli da HM, perché  volevo aiutarlo a sentirsi un po’ figo nella foto di classe.

Morale della favola: non se Tommaso da grande riuscirà mai a guadagnare abbastanza per fare in testimonial involontario delle grandi marche americane globalizzate, ma di sicuro gli piacerebbe farlo.

Il mio inutile berciare non serve a nulla. Tommaso è esattamente uguale ai suoi coetanei. Che sono tutti proni e pronti ad accettare qualsivoglia diktat pubblicitario.  Compreso cose del tipo: “Mettiti una stringa rossa e una blu”.

Il preadolescente gregario che dorme nella stanza di fianco alla mia vuole solo essere UGUALE a tutti gli altri.

Ma forse ero così anch’io.

Il rumore del cretino

Gli aggettivi parlano. Raccontano. Descrivono il sostantivo al quale li accompagniamo.

Faccio un esempio.

Mai sentito qualcuno usare espressioni come:  “Un silenzioso cretino”, oppure: “Un cretino taciturno”?

No, secondo me no.

Mentre invece sentite come suonano familiari espressioni come: “Un cretino rumoroso”?, oppure: “Un cretino logorroico”?

Perché il problema VERO è che il cretino fa rumore.

Non sta mai zitto. E’ quello che ti interrompe mentre parli, non ti fa finire un discorso, e vuole sempre dire cosa pensa LUI di quello che stai cercando di dirgli tu, senza neanche tentare di capire di cosa stai disquisendo.

Il cretino parla sempre a voce alta, più alta di quella di chiunque altro e, se appena capisce che tu stai provando a conversare con lui, ovvero gli chiedi di mettersi in una posizione di ascolto reciproco, è disposto a cambiare argomento pur di non scendere al tuo livello, ovvero pur di non ascoltarti.

E siccome i cretini sono la maggioranza, il risultato è che viviamo assordati dal loro rumore.
Sommersi dal peso delle loro voci discordi e stonate, perché i cretini non vanno mai d’accordo tra di loro.

Il cretino è solipsistico e egocentrico, non da mai ragione a nessuno,  ha una funzione di impedimento e barriera, ed è incapace di stringere alleanze.

E io tutte le sere ho mal di testa. Mi sembra di avere passato la giornata a prendere colpi: mille spilli che mi hanno trafitto il cervello stanco e esaurito da riunioni e scambi di email confusi e chiassosi.

Ognuno dice quello che pensa: è giusto esprimere se stessi. Ed è volgare e comune pensare la stessa cosa pensata da qualcun altro. Le opinioni valgono qualcosa se sono UNICHE. E cioè diverse da quelle degli altri.

Il cretino infatti ha una caratteristica: non è mai uguale a un altro cretino. Fatto che lo metterebbe in una posizione di svantaggio competitivo, perché sarebbe capace di dire: “Sono d’accordo con te”. Riducendo il chiasso di fondo e l’immenso potere dei cretini.

Mi hanno ridotto al silenzio. Non parlo più. Scrivo la sera da sola. Ascolto il silenzio dei tasti del computer.

Dosi omeopatiche di idiozia quotidiana

Oggi sono stata alla recita di fine anno della scuola di mio figlio.

Lui non fa parte del gruppo teatrale, ed è rimasto fuori dalla palestra a tirar calci alla palla, mentre io assistevo a un musical liberamente ispirato al Grande e Potente Oz di Sam Raimi (forse nessuno dei bambini conosceva il libro di Frank Baum, ma non importa).

Una ventina di ragazzine tra gli undici e i dodici anni, tutte truccate e pitturate, saltellavano sul palco mentre cantavano il Gangnam style e altra roba del genere.

Tutte molto belle, tutte già molto precoci nelle mosse femminili e negli ancheggiamenti sexy, tutte molto figlie di Canale 5, ma anche di X Factor, e cioè della Rai.

Non voglio fare la parte della Nonna Abelarda che tuona contro il rossetto, ma le dose omeopatiche di idiozia televisiva ammannita ogni giorno ai nostri figli hanno effetti perduranti e sconvolgenti.

La sessuazione precoce delle adolescenti, che devono già essere sexy a dodici anni  e devono portarsi come dote il ballo e il bel canto karoeistico, sta mandando in vacca più di una generazione.

I social network stanno facendo il resto, perché oggi le ragazzine sono scatenate su Facebook e passano interi pomeriggi con le amiche a truccarsi e imbellettarsi per la foto del profilo, dove dimostrano in media quattro o cinque anni in più di quelli che hanno.

Le compagne di classe di mio figlio si riprendono tra di loro in video casalinghi e maldestri, che poi picchiano in rete con un paio di clic.

Si piacciono molto, o forse non si piacciono per niente, come capita agli adolescenti, e riempiono il vuoto con il rossetto e le foto con i rayban.

Che ne sarà di loro, povere care? Troveranno un lavoro? Impareranno a scrivere l’email con cui accompagnare il CV da mandare al McDonald’s, dal quale sono scomparsi gli stranieri, e in cui ormai  lavorano solo italianissimi ragazzi?

Sì, adesso faccio per davvero la Nonna Abelarda: i nostri figli capiranno che studiare (invece di ballare il Gangnam Style) potrà strapparli dalla cassa di una paninoteca?

Non lo so.

Mio figlio vuole fare lavori in cui si “guadagna molto”, per comparsi l’iPhone 6, quando uscirà.

E per guadagnare molto, bisogna inventare un nuovo ballo e fare sei milioni di clic su Youtube.

Gli stiamo somministrando granuli omeopatici di idiozia quotidiana, che li avvelenano lentamente.

Ho paura.

Io, madre di figlio prepensionato undicenne

Scrivo le mie porcatine di sera, invece di guardare la Tv.

Prima faccio lavatrici, cucino, pulisco la cucina e cerco di stimolare mio figlio ad avere una conversazione con me, o quanto meno a prodursi in un veloce scambio di opinioni sui fatti del giorno (la scuola, nel suo caso).

Bene, ricevo in genere risposte ingrugnite da preadolescente, che non mi turbano,  se non fosse per l’abbinamento delle risposte in questione alla vita da pensionato che conduce il ragazzo.

Tommaso torna a casa da scuola alle sei, perché fa il tempo pieno, si mette DA SOLO il pigiama, e poi si sdraia sul letto, davanti al computer.
Guarda sul Pc le Tv digitali, dopo che ho distrutto la nostra televisione in un accesso di rabbia, a colpi di spazzola (per i capelli).

Tommaso non vuole fare nulla: aiutarmi a cucinare, parlare con me, spazzolare i gatti.
Niente, guarda in silenzio dei manga giapponesi, colmo di odio per la madre.

La cosa mi irrita, e comincia a irritare anche i vicini perché urlo come un animale per cercare di stanarlo dal suo letto peloso, che condivide con uno dei gatti, sempre sdraiato vicino a lui.

Non so cosa sia successo: era un bambino simpatico.

Viziato troppo? Pappa sempre pronta? Mai nessuna richiesta di prestazione? Neanche quelle minime che si fanno ai bambini?

Il problema è questo: la mamma che lavora si sente una merda, torna a casa la sera alle sette e fa TUTTO quello che può per accontentare il frugolotto. Che a undici anni diventa uno smidollato, privo di reazioni vitali.

Nessuno ha mai chiesto niente a Tommaso, neanche di mettere nel cesto della biancheria i suoi calzini puzzolenti.

Le tate che si sono occupate di lui – in realtà erano tati – hanno sempre fatto in modo che lui non si preoccupasse di nulla: servito e riverito.

Mai sgridato una volta, perché comunque non faceva NULLA di male. Nel senso letterale.  Non facendo NULLA, non poteva sbagliare.

E adesso c’è uno smidollato a letto, nella stanza di fianco, in pigiama, che guarda dei manga giapponesi.

Mentre io mi dispero in silenzio (davanti al Pc).

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La libertà è solo sul web

Sto assistendo orripilata al più grande inciucio politico italiano, peggio del centro-sinistra.

Il PD (che non ho votato) ha fatto una campagna politica CONTRO Berlusconi, poi Bersani ha detto (per un mese) che non avrebbe fatto un governo col Berlusca, poi l’hanno fatto dimettere, e in un week-end hanno tirato fuori il governo PD-PDL.
Che sta  per varare leggi liberticide come il nuovo Porcellum.

Sono attaccati alla cadrega, e faranno di tutto per restarci il più a lungo possibile.

Anche i giornali sono allo sbando.
Non sanno più cosa scrivere.
I titoli sono confusi e pasticciati, nessuno ci capisce più niente.

La politica italiana è in mano a una decina di persone – non credo molte di più – che fanno e disfano leggi e governi a loro piacimento.

E noi, popolo bue, che facciamo?

Tacciamo vinti da cotanta merda?

No, postiamo calembour su Twitter,  blogghiamo in rete il nostro orrore, li prendiamo per il culo.

Sì, lo confesso, passo le sere a fare battute – un po’ bruttine su Twitter – perché prenderli per il culo è la cosa più sana che si possa fare.

I regimi lo sanno, e la satira viene punita al pari della dissidenza aperta.

Solo sul web mi sento libera.
Sì, lo so che i sondaggisti e qualche informatico intelligente (servo dei regimi) tengono d’occhio Twitter e i social media.

Ma cosa fanno? Ci denunciano tutti? Perché li abbiamo presi per il culo?

Non siamo ancora in Corea del Nord, anche se ci stiamo avvicinando.

W il web! W la libertà del web!
Se ci tolgono anche il web, siamo tutti morti.

 

 

 

 

 

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Sono prima di Grisham (su Amazon). Ebook in Italia?

Mi piacerebbe sapere quali sono gli algoritmi di Amazon – parlo delle classifiche degli ebook – ma di sicuro gli informatici di Amazon non barano.

Gli americani sono americani: puri e protestanti. Non possono mettere le corna alla moglie e poi andare a confessarsi.

La menzogna non è contemplata, negli States, e c’è un sapore di forca in tutto quello che dicono, Presidente Obama compreso.

Quindi, i siti degli americani non ti fottono mai.

Su Amazon non puoi comprare 10.000 copie del tuo libro per scalare le classifiche, perché se provi a scaricarne due, il sito ti blocca: “L’hai già fatto, darling!”.

Non ho mai avuto in mente di comprare 100.000 copie di Omicidi in pausa pranzo, ma mi è successo di cercare di scaricare gratis – per errore – un paio di classici, e sono stata avvisata: “Già scaricati, darling!”.

Bene, facendo una piccola ricerca sugli ebook “gialli” più popolari, ho scoperto che “Omicidi in pausa pranzo” è intorno al cinquantesimo posto, prima di un libro di Grisham.

Io so quante copie ho venduto, e posso garantirvi che sono meno di 100.000.

Quindi, se IO sono davanti a Grisham, vuol dire che il mercato degli ebook in italia  non è ancora maturo.

A Torino, gli editori possono stare tranquilli. Hanno ancora qualche anno di tempo, prima di scomparire come le acciaierie della Falck.

Anche se il fatto di essere 49esima, davanti a Grisham, mi fa pensare che ci sia qualcosa che non va. Col marketing online dei supergruppi editoriali.

P.S.

Tutti quelli che bazzicano Amazon, saranno incappati almeno una volta in un ebook sempiterno: “Per una cipolla di Tropea”.

Si scarica gratis da un anno (credo che l’autore abbia usato un trucchetto su iBooks, portando il prezzo a zero, così da costringere anche Amazon a scendere col prezzo fino a zero, e far lavorare gratis i suoi server).

Non ho letto il libro in questione, ma se sta ancora lì, vuol dire che nessun editore se l’è ancora accattato.

Se l’accattano, però, MOLTO VOLENTIERI, i lettori, perché è gratis.

Insomma, quanto paghi VOLENTIERI per un ebook?

9,9 euro?

Secondo me, no.

Gli ebook sono file. Come i film, come la musica.

Sono piratabili, come tutti i file.

Nessuno paga volentieri dieci euro per un file, quando lo trova su eMule.

Ergo, per stare sul mercato degli ebook, bisogna costare poco.

Ed ecco scoperto perché vengo prima di Grisham.

Costo molto meno di lui.

Il digitale è uno dei pochi mercati dove il prezzo è ancora un fattore di successo.

Prezzo che deve essere compreso fra uno o al massimo cinque euro (la butto lì).

Il prezzo che sei disposto a pagare per non fare la FATICA di andare su eMule o imparare a usare Torrent.

I diritti d’autore, cari fratelli, scenderanno a zero.

E le case editrici si sposteranno online.

I libri “di carta” – non parlo di quelli a 0,99 di Newton – diventeranno come le scatole di cioccolatini a Natale.

Un prezioso e raffinato regalo.

Di gusto un po’ retrò.

Naturalmente, c’è ancora gente disposta a spendere 50 euro per andare a vedere un concerto.

Ma un concerto non è un file.

Reverse engineering su internet

Da quando smanettavo su internet MOLTI anni fa, le cose sono cambiate moltissimo.

Oggi tutto è diventato più facile.

Puoi aprire profili di ogni genere e colore sui social network, puoi aprire gratis tutti i blog del mondo, farti un dozzina di siti per sera, sempre gratis, twittare,eccetera, ma non puoi SCOMPARIRE.

E’ quello che si chiama reverse engineering: tornare indietro.

Difficilissimo. Per chiudere un vecchio blog su WordPress, mi sono dovuta studiare i regolamenti in inglese, e sto cercando inutilmente di chiudere delle pagine su Facebook.  Ho cliccato dappertutto, ma non riesco a trovare il pulsante che dice: CANCELLA.

Bisogna essere degli smanettoni pazzeschi per cancellare tutte le tracce che abbiamo dissenatamente seminato dietro di noi.

Anche perché se qualcuno le ha condivise, non riusciremo a trovarle mai più.

Io, adulta, sto bene attenta a quello che dico, e al massimo, nei miei discorsi, finisce impigliata qualche parolaccia.

Detta con senno e con divertimento.

Ma cosa faranno i nostri figli – il mio ha undici anni – quando a venti si vergogneranno delle pirlate che hanno postato quando ne avevano quindici e delle foto cretine che sono finite nelle bacheche delle ex-fidanzatine?

Non parlo di cyberbulllismo, dico solo che a vent’anni puoi trovare idiota quello che hai fatto o detto a quindici.

Quando io avevo vent’anni, sapevo che nessuno si sarebbe ricordato le stronzate dette una sera in cui giravano le bocce di vino rosso.
Adesso, invece, la foto di te con la boccia in mano rimarrà perennemente sui social network.

A futura memoria.
Per il tuo datore di lavoro.
Per la tua prossima fidanzata.
A meno che tu non riesca a cancellarla: MISSION IMPOSSIBLE.

E’ per questo che ho spiegato a mio figlio che per il momento è meglio fare solo le foto dei nostri gatti.
Io amo le foto dei gatti. Io amo i gatti. E faccio sempre i “Mi piaci” alle foto dei gatti degli altri.

I gatti non bevono, non si ubriacano, non si truccano troppo, e non sembra che abbiamo vent’anni, quando ne hanno solo due.

Mi fanno impressione le foto delle bellissime dodicenni di oggi. Sono maestre di trucco e parrucco.
Narcisismo a portata di iPhone (collegato all’account di Facebook).