La cosiddetta globalizzazione è stata possibile solo quando le frontiere sono diventate “porose”, e cioè hanno permesso alla manodopera di emigrare in paesi dove le retribuzione erano più alte.
Naturalmente, cinquant’anni fa, le ondate migratori erano più ridotte di quelle attuali, perché non esistevano gli aerei low-cost o gli autobus che ti portano in Italia dalla Moldavia per 100 euro.
Ottenere un passaporto, cinquanta anni fa, era molto difficile.
Le frontiere erano più difficile da “bucare” e un borghese italiano non doveva confrontarsi quotidianamente con la miseria in arrivo da paesi lontani come l’Africa o l’Asia.
Adesso invece la miseria di importazione – quella che arriva sui barconi che sbarcano a Lamepdusa – è in mezzo a noi.
E’ bastato fare un giro sui Navigli oggi pomeriggio per vedere decine di giovani uomini cingalesi o africani che cercavano di vendere i soliti orecchini o che mendicavano senza neanche far finta di volerti vendere una rosa.
Facce depresse, dove è quasi impossibile veder spuntare un sorriso.
E noi, con i soldi in tasca per comprarci un gelato e un trancio di pizza, siamo infastiditi dal vedere quanto è miserabile chi ci cammina di fianco.
Poveracci senza terra che fino a qualche anno fa non sarebbero riusciti a arrivare in Italia, perché non esistevano i trafficanti di uomini, e perché le frontiere erano sigillate.
Ma l’accattonaggio è la parte “visibile” dell’immigrazione.
Quella invisibile è nel prezzo dei pomodori e delle altre verdure raccolte da chi accetta paghe da un paio di euro all’ora.
Abbiamo importato manodopera a basso costo e adesso importiamo anche miseria, l’altra faccia della globalizzazione.
Personalmente provo dolore quando vedo persone che abitano lontano dai loro paesi e che non sanno quando ci potranno tornare.
Provo dolore e non rabbia.
Mi vergogno invece molto del paffuto Matteo Salvini, a pranzo con Marine Le Pen.
Anche perché ormai le frontiere sono aperte.
E’ il capitalismo, bellezza.