Archivio mensile:Maggio 2014

Import-export di miseria: i nuovi business della globalizzazione

La cosiddetta globalizzazione è stata possibile solo quando le frontiere sono diventate “porose”, e cioè hanno permesso alla manodopera di emigrare in paesi dove le retribuzione erano più alte.

Naturalmente, cinquant’anni fa, le ondate migratori erano più ridotte di quelle attuali, perché non esistevano gli aerei low-cost o gli autobus che ti portano in Italia dalla Moldavia per 100 euro.

Ottenere un passaporto, cinquanta anni fa,  era molto difficile.

Le frontiere erano più difficile da “bucare” e un borghese italiano non doveva confrontarsi quotidianamente con la miseria in arrivo da paesi lontani come l’Africa o l’Asia.

Adesso invece la miseria di importazione – quella che arriva sui barconi che sbarcano a Lamepdusa – è in mezzo a noi.

E’ bastato fare un giro sui Navigli oggi pomeriggio per vedere decine di giovani uomini cingalesi o africani che cercavano di vendere i soliti orecchini o che mendicavano senza neanche far finta di volerti vendere una rosa.

Facce depresse, dove è quasi impossibile veder spuntare un sorriso.

E noi, con i soldi in tasca per comprarci un gelato e un trancio di pizza, siamo infastiditi dal vedere quanto è miserabile chi ci cammina di fianco.

Poveracci senza terra che fino a qualche anno fa non sarebbero riusciti a arrivare in Italia, perché non esistevano i trafficanti di uomini, e perché le frontiere erano sigillate.

Ma l’accattonaggio è la parte “visibile” dell’immigrazione.

Quella invisibile è nel prezzo dei pomodori e delle altre verdure raccolte da chi accetta paghe da un paio di euro all’ora.

Abbiamo importato manodopera a basso costo e adesso importiamo anche miseria, l’altra faccia della globalizzazione.

Personalmente provo dolore quando vedo persone che abitano lontano dai loro paesi e che non sanno quando ci potranno tornare.

Provo dolore e non rabbia.

Mi vergogno invece molto del paffuto Matteo Salvini, a pranzo con Marine Le Pen.

Anche perché ormai le frontiere sono aperte.

E’ il capitalismo, bellezza.

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Da Gola Profonda al POV: il cinema porno diventa social

Non guardo i film pornografici, non mi piacciono.

Ma non voglio parlare del fatto che mi piaccia o meno il porno, ma del fatto che anche l’industria del porno è stata invasa e sopraffatta dai porno fai-da-te, in cui gli attori diventano produttori e autoriprendono le scene con una tecnica che si chiama POV: Private Point of View.

Vengono utilizzate delle videocamere portatili che devono riprendere la scena dal punto di vista dell’attore maschile.
Chi guarda il film, insomma, ha la sensazione di essere al posto dell’attore.

Quando poi le telecamere sono utilizzate dall’attore, che diventa anche operatore, il genere viene definito gonzo.

Nei gonzo non c’è più neanche la trama – un’attrice che fa finta di emozionarsi, eccetera – ma vengono riprese esclusivamente scene di sesso, slegate anche tra loro.

Sono stati fatti degli studi sui tempi medi di “visione” di un video pornografico, e pare che non superino i dieci minuti.

Perché sprecare tempo con la trama?

Insomma, sono finiti i tempi in cui i film pornografici venivano fruiti nei cinema “a luci rosse”, e dove le storie dovevano avevano una quasi-trama, come nella mega-produzione Gola Profonda che portò ai suoi produttori non so quanti soldi.

Oggi, chiunque può produrre un gonzo e metterlo online con l’aiuto di un amico che glielo monti.

Se poi l’attore-operatore sa anche usare i tool di editing, può confezionare un video da solo, in una mezza giornata.

La filiera che andava dal produttore al distributore si è praticamente annullata in meno di vent’anni.

L’accesso “facile” al web ha poi chiuso il cerchio: il video viene pubblicato in pochi secondi sulle piattaforme che distribuiscono film porno (e che fanno i soldi con la pubblicità, eccetera).

Aggiungasi l’ultimo fenomeno del porno on demand, con le signorine che fanno sesso online con i loro clienti, che hanno remotizzato anche la possibilità di un insuccesso.

La performance è stata annullata dal sesso remoto a pagamento, che viene consumato mentre la moglie sta ronfando tranquilla in camera sua, dopo che il marito le ha dato il bacio della buona notte (e poi ha aperto il pc).

Bisogna stare attenti anche con il sesso online, perché qualcuno è stato ricattato e ha dovuto pagare perché non venissero diffusi i suoi video, registrati senza avergli chiesto il consenso all’utilizzo dei dati.

Ho letto da qualche parte che ci sono 800.000 porno-lavoratrici del web, e che i signori che gestiscono i porno-server stanno facendo un sacco di soldi.

Bene, fatta la solita lunga premessa, la tesi che voglio sostenere è che anche il porno è diventato social, polverizzando l’industria che una volta produceva le pellicole e poi le cassette pornografiche.

Il porno 2.0 prevede non solo che attori e produttori coincidano, ma anche che si spenda pochissimo per produrre un video porno.

Con il risultato che il “discorso” – anche quello pornografico – si spezza e si frammenta, proprio come sui social network.

140 battute su Twitter.

10 minuti per un gonzo.

E’ il web, bellezza.

P.S. Ringrazio Poldo per la ricerca sulle fonti storiografiche.

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#2 Il lungo viaggio tra i topi negli scantinati degli editori italiani

Viola, comincerò con la più banale delle domande. Ti piace scrivere?

Se tutte le domande saranno così stupide, non andremo molto lontani…

Va bene, allora puoi dirmi perché lo fai? Insomma perché la sera stai davanti a un computer invece di passare in modo più divertente le tue serate?

Neanche questa domanda mi sembra molto brillante, ma ti risponderò lo stesso. Ho sempre pensato che la scrittura potesse diventare il mio secondo lavoro e che avrei potuto farci qualche soldo. Non sai mai quando non arriveranno i tempi grami e bisogna avere sempre un altro colpo in canna.

Cosa vorresti dire? Che scrivevi pensando di GUADAGNARE  dai tuoi libri?

Sì, certo. Mai pensato di scrivere capolavori. E’ da coglioni avere una buona opinione di sé. A Hitler piacevano i suoi quadri come a Mao piacevano le poesie che poi faceva leggere a un miliardo di cinesi. A me non piace quello che scrivo. Ma penso che sia meglio di certa roba che pubblicano adesso.

Viola, cosa c’entra Mao?

Ecco un suo verso: dimmi sei ti piace: “Soltanto uomini coraggiosi danno caccia alla tigre, ancor minore è la paura che i valorosi hanno dell’orso. Fiori di pruno per la gioia che il grande cielo sia innevato; rigide mosche congelate, e nessuno che se ne stupisca”

Hai ragione, fa schifo…

Hai capito cosa volevo dire? Scrivere sperando di guadagnarci due soldi è più dignitoso che non scrivere perché sei convinto di essere un genio!

Va bene, ma tu l’hai scritto da tutte le parti: nessuno ha mai voluto pubblicare quello che scrivevi! Forse erano porcate…

Allora… questa è la vera storia delle mie porcate. Quando ho scritto il primo libro, nel 2004, non esisteva ancora l’editoria digitale.
L’unica possibilità per chi aveva un libro nel cassetto – o un Goncourt in salamoia, per dirla con Céline ‒ era di trovare un editore cartaceo disposto a pubblicarlo.

E quindi?

Le strade che si aprivano di fronte a un volenteroso scrittore erano solo due: trovare un agente letterario che fosse disposto a contattare gli editori per proporre i suoi libri, oppure stamparne un discreto numero di copie in qualche rilegatoria dalle parti dell’Università Statale in Via Festa del Perdono – sono di Milano ‒ e poi mettersi in coda alle Poste per mandare i dattiloscritti agli editori, dopo aver trovato l’elenco degli indirizzi sul web.
Anche se sapevamo più o meno tutti – noi autori allo sbaraglio – che i manoscritti sarebbero probabilmente finiti in qualche sgabuzzino secondario, letti più probabilmente dai topi che non da occhi umani.

E tu che cosa avevi fatto?

Qualche manoscritto l’avevo imbustato e spedito anch’io, ma poi ero riuscita a contattare un agente letterario che aveva trovato il mio primo libro ben scritto e aveva accettato di rappresentarmi. Con esiti altrettanto letali di quelli dell’invio del manoscritto ai topi degli scantinati delle case editrici.

Bocciata, insomma…

Sì, l’agente aveva mandato il libro a qualche editore, ma quando erano arrivati i primi no, si era scoraggiato immediatamente. E mi aveva detto: “Perché non ne scrivi un altro?”.

E tu?

Ho continuato a provarci. Dal 2004 al 2010 ho scritto tre libri, tutti affidati all’agente in questione, e tutti sonoramente bocciati.

Tre libri bocciati con lo stesso agente? Sei masochista!

Mi sono detta un sacco di volte che il mio insistere con lo stesso agente – fallimentare ‒ era una forma di masochismo piuttosto idiota, anche perché l’agente in questione si scoraggiava più di me quando bocciavano uno dei mie libri, e quindi non mi comunicava messaggi del tipo: “Brava, vai avanti!”, ma mi diceva appunto: “Questo libro fa schifo, magari il prossimo sarà meglio!”.

Insomma, sei anni sbattuti nel cesso!

Non completamente… il risvolto positivo del mio perseverare con un agente così svalutante è stato il fatto che ho continuato a scrivere, e quindi alla fine di capolavori nel cassetto ne avevo addirittura tre. E nel frattempo era arrivata l’editoria digitale…

TO BE CONTINUED…

#1 Autointervista sul salto della quaglia: da Amazon alla Mondadori

Scrivere non è la cosa più importante del mondo e mi piace poco chi parla di sé e della propria scrittura.

Ma io purtroppo sono grafomane e anche un po’ timida.

Se devo dire qualcosa a qualcuno, preferisco mandargli un’email o un messaggio che non invece chiamarlo al telefono.

Scrivere mi tranquillizza anche perché mi permette di fare tutto da sola, senza dover tirare dentro qualcun’altro.

Bene, detto questo, farò una delle mie solite premesse prima di arrivare all’autointervista.

Quando, un mese fa, sono andata alla sede della Mondadori di Segrate per parlare del libro che uscirà con loro il 3 giugno, “Omicidi in pausa pranzo“, ho incontrato una vecchia amica che non vedevo da molti anni, Emanuela Canali.

Avevo conosciuta Emanuela quando lei era incinta, un venerdì sera di un bel po’ di tempo fa.

Aveva un premaman piuttosto elegante e rideva.

Non mi ricordo più di cosa ridesse, ma sono sicura che stesse ridendo.

Quando ci siamo riviste, ci siamo riconosciute subito e abbiamo cominciato a chiacchierare.

Anzi a ridacchiare, perché la nostra comunicazione è sempre stata impostata su una risata continua e di sottofondo, non priva di un discreto auto-cinismo che potrebbe sembrare strano a chi ci ascolta.

Né io né lei siamo troppo gentili con noi stesse, ma l’auto-crudeltà ha mantenuto i nostri canali auditivi liberi e intatti.

Ho la convinzione che chi si piace troppo, ascolta in genere solo se stesso e mai gli altri.

Diffido di chi parla troppo di sé, anche solo per lagnarsi delle proprie sciagure.

In lui – o lei – si nasconde sempre un egocentrico pronto ad assordarti senza il minimo rispetto per i casi tuoi.

Emanuela invece ascolta – eccome! – e quella sera mi ha accompagnato a casa in macchina, mentre pioveva come piove a Milano.

Le ho raccontato tutta la storia del mio passaggio da Amazon alla Mondadori.

Le ho raccontato che prima di diventare Viola Veloce ero stata una certa Nora O’Dublin, di cui esiste ancora una traccia su Facebook.

Le ho parlato di come l’avventura nel selfpublshing del mio precedente personaggio, la Nora di cui sopra, era andata male, mentre invece come Viola Veloce avevo avuto più successo.

Lei allora mi ha detto: “E se ti facessi un’intervista?“.

“Sì”, le ho risposto, “Mi sembra una buona idea“.

Ci siamo scritte un paio di volte e l’intervista ha cominciato a prendere forma.

Ma io sono solipsistica e grafomane.

Le mie risposte erano più lunghe di quanto avessi previsto. E andavo spesso fuori tema.

I miei testi, poi, erano, come sempre, pieni di parolacce.

Ho pensato: non posso tirare dentro Emanuela.

Non posso costringerla a tollerare il turpiloquio e le mie battutacce a sfondo coprofilico.

L’unica soluzione per uscirne vive era una sola.

Mi sarei autointervistata.

Con domande e risposte scritte da me.

Si parte subito….

Quanto vale il voto di un italiano? 80 euro (lordi) al mese

Stanno arrivando gli 80 euro promessi da Renzi a circa 10.000 di italiani che appartengono a una serie di categorie che non starò a elencare, anche perché vengono allargate e ristrette ogni giorno a seconda, temo, dei sondaggi elettorali.

Non sono pochi 80 euro al mese (non sono sempre 80, ma sono variabili a seconda della fascia di reddito), anche se mi chiedo se basteranno per comprare i voti degli indecisi e degli incazzati.

Non credo che chi ha votato per il Movimento a Cinque Stelle negli ultimi anni, cambierà idea per 80 euro al mese.

Non so se neppure l’orientamento politico di una persona possa essere valutato secondo criteri economici basati sugli sgravi fiscali in busta paga.

E poi anche Mubarak prometteva agli impiegati statali egiziani un aumento degli stipendi, ma non aveva capito che in Piazza Tahir non c’erano gli statali.

Non so se Renzi sia in grado di capire l’Italia e non so se Renzi prenderà UN SOLO VOTO da chi ha meno di trent’anni.

Ho il sospetto di no. Neanche uno. Con o senza bonus.

 

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Io, mamma di un futuro precario

Scusate se continuo con la serie dei post un po’ lacrimosi sui costi umani della crisi economica italiana.

Parlo di costi umani, perché il lavoro precario ha dei costi psicologici molto alti, visto che non consente di fare progetti basati su una continuità di reddito.

E’ difficile decidere di fare un figlio se non sai se domani avrai ancora un lavoro.

I lavoratori precari sono uno dei risultati della crisi, ma la precarizzazione del lavoro ha anche l’effetto di peggiorare ulteriormente la nostra situazione economica.

Se gli stipendi/compensi dei lavoratori sono bassi e saltuari, allora si abbassano anche i consumi interni. 

Le imprese che producono beni destinati al consumo interno – e non alle esportazioni – venderanno di meno, e quindi licenzieranno nuovi lavoratori.

Basta solo il buon senso per capire che stiamo andando verso una situazione dove il lavoro sarà sempre meno stabile e remunerato sempre di meno.

In parole povere, aumenterà il numero dei lavoratori pagati poco e male, mentre le categorie protette – con un contratto a tempo indeterminato – si estingueranno lentamente, fino a quando l’ultimo impiegato non sarà pensionato ed eliminato definitivamente dal mercato del lavoro.

Io sono quindi certamente la madre di un futuro precario, ovvero di un lavoratore che dovrà sbattersi tutta la vita per riuscire ad aggiudicarsi dei lavori a termine, alla fine dei quali, cioè, dovrà cercarsi un altro lavoro.

Ma ci sono già molte donne che hanno i figli che non sono riusciti a entrare nel mercato del lavoro garantito e protetto.
Figli che hanno forse già qualche difficoltà economica.
Figli che le madri (e i padri) devono aiutare quando ci sono periodi di vacche magre.

Tutti i genitori vorrebbero vedere i loro figli tranquilli, senza saperli preoccupati o, peggio, disperati.

Ogni genitore vorrebbe proteggere il proprio figlio fino a quando gli è possibile, ma c’è un punto oltre il quale la nostra protezione non può andare. Perché anche i genitori possono finire nella merda – le nostre pensioni faranno schifo – o semplicemente perché a un certo punto i genitori muoiono di vecchiaia.

Insomma, se penso al futuro di mio figlio, non sono per niente tranquilla.

Non so se mio figlio troverà un lavoro, non so come sarà il lavoro che troverà, e non so se mio figlio capirà che bisogna essere parchi e consumare poco per riuscire a sopravvivere nel mondo affollato che lo aspetta.

Nulla è più doloroso dello statuto di consumista frustrato, e spero che a Tommaso non passi mai per la testa che comprarsi una bella macchina possa dargli qualche tipo di soddisfazione.

So che già che Tommaso non potrà comprarsi la macchina in questione, ma soprattutto spero che non desideri quella macchina.

Spero che mio figlio, futuro precario, impari a campare di poco e non sia vittima di desideri idioti e consumisti.

E spero che guadagni abbastanza per mettere insieme pranzo e cena.

E parlo di pasta al burro, non di tagliata di manzo.

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Quando il ceto medio chiede l’elemosina

Leggo sempre con terrore gli articoli sui padri separati che vanno a mangiare alle mense della Caritas (e delle altre comunità) e osservo con molta attenzione le code di fronte alla parrocchie che distribuiscono i pacchi alimentari (pasta, olio, biscotti, eccetera).

Ci sono molti anziani, molti extracomunitari, e adesso anche qualche italiano che si guarda attorno con aria imbarazzata.

Tra l’altro, il servizio di distribuzione dei pacchi alimentari è stato interrotto – o gravemente ridotto, non riesco a capirlo dagli articolo sul web  – grazie a una legge europea che taglia il bilancio sociale agli stati “spreconi” come l’Italia.

Per farla breve, guardo le code delle signore col carrello davanti alle parrocchie perché ho paura di finirci anch’io.

Il ceto medio italiano oggi cammina su una lastra sottilissima che si può rompere da un momento all’altro.

Basta perdere il lavoro e non avere un genitore – anziano – dotato ancora di una pensione decente che ti aiuti.

Oggi i genitori pensionati danno ancora una mano ai figli perché le loro pensioni sono ancora abbastanza sostanziose (in molti casi).

Ma se non hai più la mamma e il papà che ti aiutano, e perdi il lavoro, finisci a fare la coda per i pacchi alimentari.

E sabato scorso, a Milano, verso l’una del pomeriggio, ho visto una signora che aveva tutta l’aria di provenire dal nuovo ceto medio impoverito e che cercava di vendere delle piante per strada per la festa della mamma.

Andavo di corsa e ho visto una tipa carina, vestita bene, con le scarpe della Nike, che tirava un carrellino ordinato con delle piantine di rosa mentre ne teneva delle altre in mano, dentro una specie di cestello, e cercava di venderle, dicendo: “Compratele, sono una mamma anch’io“.

Non mi sono fermata perché mi stava aspettando a casa mio figlio, ma anche perché ho avuto paura di parlarle.

Ho avuto paura di chiederle perché era finita lì con le piantine, in Viale Coni Zugna, a Milano, in un tranquillo pomeriggio di maggio, quando fino a poco tempo fa sarebbe andata anche lei a fare la spesa al mercato di Via Papiniano.

Era la prima volta che vedevo una donna italiana, gentile e ordinata, fare qualcosa di molto vicino a chiedere l’elemosina.

Oggi basta un colpo di sfortuna, e sei fuori strada. Nel giro di un paio di mesi finisci tutti i tuoi risparmi e non sai cosa fare.

Non siamo attrezzati, noi dell’ex-ceto medio, a fare i conti con la miseria nera che arriva in due mesi.

Non ce l’aspettiamo, non era prevista, e ci prende per l’appunto di sprovvista.

Bene, alle elezioni europee non voterò per NESSUNO dei partiti che sono stati al governo in questi ultimi vent’anni.

Si dividono egualmente la colpa di aver mandato una mamma a vendere le rose per strada, come in una delle tristissime favole dell’Ottocento.

Mi dispiace per il tono lamentoso e indignato, ma la lastra è sempre più sottile. 

Sono sempre di più quelli che possono scivolare fuori.

E quando saranno in tanti quelli che sono scivolati fuori, forse, allora, ci incazzeremo tutti…

 

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Macedonia di fragole e cozze: un dislessico nella scuola media italiana

Sono la fortunata madre di un ragazzino dislessico – non grave, ma dislessico – che sta finendo di fare la seconda media.

Forse l’ho già scritto da qualche parte: i dislessici sono gli “asini” di una volta, quelli che scrivevano scuola con la q e non si ricordavano la data della “Breccia di Porta Pia”.

Non so quali siano le cause neurologiche della dislessia, di cui soffro sicuramente anch’io, seppure in forma non grave, ma so che i dislessici hanno poca memoria.

Anzi, non ne hanno per nulla se non riescono ad associare le nozioni “pure” – le date, per esempio – a qualche ragionamento che li aiuti a ricordare il dato da memorizzare.

Il dislessico usa insomma degli “stratagemmi” per ricordarsi di qualcosa, ma oggi, grazie a Dio, non c’è più bisogno di ricordare quasi nulla.

Basta avere uno smartphone: tutte le date e le nozioni del mondo ti stanno dentro una tasca.

Nel 2014, insomma, la data della “Breccia di Porta Pia” non va imparata a memoria.

Ma lascio l’argomento “nuovi metodi di studio” ai brillanti pedagoghi come Ken Robinson, per arrivare all’argomento che mi sta a cuore: la scuola media italiana.

Ordunque, i programmi della scuola media italiana si potrebbero riassumere in una parola: TUTTO!

Nella scuola media italiana si studia TUTTO (tranne un po’ di storia, riservata alle elementari: i soliti assiri, i romani, eccetera).

Alle medie si studia tutta la grammatica e tutta l’analisi logica.

Il programma di scienze comprende temi di fisica, chimica, anatomia, eccetera, trattati tutti con una terminologia che affronto a fatica anche io.

La geografia riguarda TUTTO il mondo e anche Storia dell’Arte è riferita all’intera e mondiale storia dei movimenti artistici.

Le insegnanti sono inoltre in perenne lotta tra loro perché ritengono che TUTTE le loro materie abbiano pari dignità, e quindi sui ragazzini vengono caricati montagne di compiti e vengono loro somministrate continue interrogazioni sui temi più disparati, in una confusa macedonia – di fragole e cozze – dove persino io che sono adulta faccio fatica a raccapezzarmi.

Tommaso studia addirittura un paio di secoli per volta, oppure due rivoluzioni alla volta. L’ultima verifica di storia che ha fatto riguardava la Rivoluzione Francese, quella americana e Napoleone.

E così il povero Tommaso, che è appunto dislessico e quindi dotato di scarsissima memoria, deve passare questi ultimi giorni di maggio chiuso in casa, a cercare di fissarsi in testa – ma solo per il tempo dell’interrogazione – un’abnorme quantità di argomenti che si dimenticherà il giorno dopo.

Entra Napoleone, esce la Digestione.

Esce la Digestione, entra l’Ariosto.

Esce l’Ariosto, entra il complemento indiretto (24 tipi di complementi), e così via, fino a quando non sarà finito il quadrimestre.

Che cosa resterà nella sua memoria profonda di TUTTO questo minestrone non lo sa nessuno.

L’unica cosa che sappiamo è che la scuola media italiana sta scivolando all’indietro nelle classifiche mondiali.

E forse sarebbe il caso di farsi venire qualche dubbio sui metodi e i programmi di studio.

La vasta, immensa e superficiale superficie dei programmi sta diventando l’ostacolo a una forma vera e profonda di conoscenza, dove i concetti vengono gradualmente e profondamente assimilati, per seguirti in TUTTA la vita.

Così, invece, Tommaso non si ricorderà nulla del magma mondiale del sapere, concentrato in tre anni di squola media.

 

 

 

 

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