Archivio mensile:novembre 2017

Il rimpianto digitale per i morti

Sì, è una delle mie ossessioni: cosa ne sarà di tutto quello che ho scritto sul web e di tutte le email che ho mandato, dopo che sarò morta?

Immagino che i miei post su Internet resteranno impressi su qualche server indonesiano ancora per qualche anno, mentre invece le mie email dureranno di più. Perché resteranno nelle caselle di posta di chi le ha ricevute. E forse, qualcuno di quelli a cui ho scritto in tutti questi anni, andrà a rileggerle, di tanto in tanto, come faccio con le email che mi hanno lasciato in eredità un paio di amiche che se ne sono andate.

Ogni tanto rileggo quello che mi hanno scritto, e la mia tentazione è di cliccare su “Rispondi”: chissà che da qualche parte non ci sia un server collegato con i trapassati, che continuano a rispondere alle email anche dal Regno dei Morti?

Insomma, la scia digitale che oggi lasciamo sul web è così ontologicamente reale da farti venire il dubbio che i morti siano veramente morti, e non si siano invece spostati in una realtà virtuale separata, ma pur sempre reale, con la quale è possibile comunicare. Se solo sai come fare…

Mi sembra che morire sia diventato meno probabile e plausibile da quando esiste un nostro doppione digitale in giro per il mondo, che appunto ci sopravvive.

Non sto dicendo nulla di nuovo, c’è addirittura un episodio di una serie di Netflix (San Junipero, Black Mirror), in cui le due protagoniste hanno programmato di restare vive in una specie di capsula temporale-digitale anche dopo la morte, e sono in grado di capire e ricordare la differenza tra essere vive per davvero e trasformarsi in doppioni tecnologici dopo la morte. In San Junipero, la vita continua anche dopo, e il Paradiso è fatto di bit che ti consentono di credere di essere ancora vivo.

Le serie su Netflix sono solo un passatempo e nessuno potrà più usare la mia casella di posta dopo che sarò morta o accettare le amicizie su Facebook, o stabilire nuovi collegamenti su Linkedin.

Certo, essere morti significa soprattutto non godere più della vita, degli amici, dei figli, delle passeggiate in montagna quando lasci le orme nella neve (che fa “cric”) o dei tramonti lombardi in cui il cielo esplode di rosso.

Ma essere morti significherà anche non rispondere più alle email dei nostri amici e scomparire da tutte le conversazioni digitali nelle quali siamo stati ingaggiati, sia on le persone che conosciamo che con gli sconosciuti.

Ecco, la verità è che morire è diventato più difficile. Vorrei restare viva su un server – magari in Nevada – e continuare a controllare la mia corrispondenza su Gmail…

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Una vita passata all’ultimo banco (sono dislessica)

Parto dalla fine per arrivare all’inizio: sono l’orgogliosa madre di un giovane asino dislessico. Ma l’inizio sono io. Il povero Cristo ha solo ereditato il mio cervello.
Perché un mese fa ho ricevuto anch’io l’onorata diagnosi: sono dislessica.

È stato un neurologo di 65 anni a darmi la bella notizia, che peraltro avevo cominciato a subodorare un bel po’ di tempo fa: sono dislessica, discalculica, disgrafica, disortografica.
Ovvero leggo lentamente, non so far di conto, ho una pessima calligrafia, faccio errori di ortografia, ma soprattutto ho poca memoria. Mi dimentico quello che leggo e non mi piace scrivere, inteso come digitare le parole sulla tastiera di un computer o, peggio ancora, scriverle a mano. Preferisco dettarle, le parole.
Grazie a Dio, oggi esistono i programmi di dettatura vocale, come quello che che sto usando per scrivere questo post. E quindi sono in grado di compensare la mia lentezza nello scrivere con strumenti che rendono molto più facile dettare (scrivere) quello che penso. Perché penso in fretta, come tutti, e tendo a prendere velocemente le mie decisioni (sbagliando spesso, come tutti), e mi piace la velocità.

Secondo l’esimio neurologo, il tentativo di andare veloce è infatti un modo di compensare la mia lentezza, perché durante i test fatti insieme, l’elemento che emergeva era proprio la lentezza. Ero lenta a leggere, a scrivere, a rispondere alle domande del test di intelligenza. I miei tempi di risposta erano sempre il doppio di quelli considerati normali, anche se non lo sapevo, perché passo la vita a cercare di fare in fretta. E adesso ho capito perché: sono lenta.
Ma vado subito alla questione dell’ultimo banco, infilata di prepotenza nel titolo.
Durante una delle tappe della Via Crucis scolastica compiuta insieme al figlio sedicenne dislessico, che ha cambiato quattro scuole in tre anni, ero finita in un istituto parificato con un nome tipo “Grande Scuola Europea per il Recupero Anni Scolastici”.
Mio figlio doveva andarsene dal liceo scientifico (come richiesto a gran voce dai suoi insegnanti) e rientrare in un istituto tecnico senza perdere un anno scolastico. L’unico modo per farlo era appunto quello di infilarsi (il 15 marzo) in una di queste “Grandi Scuole” che consentono agli allievi di sostenere gli esami – per tutte le materie – a luglio, in una scuola con un indirizzo differente da quella di provenienza.
Nella “Grande Scuola Europea” eravamo stati accolti da una simpatica preside, che sembrava conoscere molto bene l’asinaggine dei dislessici. Mi aveva spiegato che molti allievi della sua scuola erano dislessici che fuggivano dai licei per passare a un istituto tecnico (nessuno vuole i dislessici nelle “buone” scuole).
Secondo la preside, qualcuno dei suoi studenti aveva una diagnosi fatta da un medico, ma qualcun altro era senza nessuna certificazione: asini semplici, ma probabili dislessici. La preside mi aveva spiegato che ormai riconosceva a occhio nudo i dislessici: “Sono gli studenti seduti sempre all’ultimo banco, che vanno male a scuola ma che fanno ridere tutti con le loro battute, e hanno sempre otto (o sette, o sei) in condotta”.
Alla simpatica professoressa ormai bastava il colpo d’occhio: sapeva che i clienti della sua scuola erano gli studenti seduti all’ultimo banco, che sanno di non essere bravi e cercano di stare nascosti per non farsi notare dagli insegnanti che potrebbero fargli una domanda a sorpresa su qualcosa che non sanno. I giovani asini fanno peraltro di tutto per accattivarsi la simpatia dei compagni di classe (visto che non hanno quella dei professori), con battute e scherzi salaci. Da qui, l’otto in condotta, preso spesso anche da me, non senza un certo orgoglio.
Anche mio figlio ha passato la vita nell’ultimo banco. Ho passato qualche anno a firmare le note sul diario comminate dagli insegnanti a mio figlio. Per delle stupidaggini come suonare i campanelli delle case durante una gita scolastica al museo. Mio figlio non era un bullo, anzi al contrario è timido, ma faceva il possibile per far ridere i compagni di classe. Ed era sempre seduto all’ultimo banco.
Proprio come me. Sono stata all’ultimo banco dalla prima elementare fino all’ultimo anno del liceo. Cercavo un punto della classe dove i professori non potessero vedermi e da lì non mi spostavo. Ho sempre tenuto accuratamente nascosta le mia basse abilità scolastiche, di cui ero perfettamente consapevole. Cercavo di restare fuori dai radar dei professori. Non li ascoltavo mai, come fanno i dislessici, non riuscivo a stare attenta, e avevo paura che se ne accorgessero. Come capitava con una delle mie insegnanti al liceo, che capiva che stavo guardando volare le mosche, e mi chiamava urlando il mio nome.
Durante i compiti in classe, mi spostavo nel banco di fianco alla prima della classe (che è ancora adesso una mia amica), dalla quale ho copiato tutte le verifiche, tranne naturalmente i temi (che erano l’unica cosa che sapevo fare da sola), per tutti gli anni del liceo.
E quando c’erano dei compiti per il giorno dopo, il pomeriggio andavo da un’altra compagna di classe, dalla quale scopiazzavo con eleganza anche i compiti da fare a casa.
Mi sono salvata dalla scuola, perché trent’anni fa non si studiava un granché: alle elementari avevamo addirittura un unico libro di testo per tutte le materie, i programmi non erano quelli di adesso (sconfinati), e non c’erano tutte quelle maledette verifiche scritte che ha dovuto subire il mio povero figlio.
Insomma, mi sono salvata dalla scuola perché mi nascondevo dagli insegnanti e cercavo di scomparire, di non farmi notare. Ma poi ero quella che faceva battute dall’ultimo banco, per piacere ai miei compagni di classe. E prendevo otto in condotta, con mucho gusto!
Niente di tragico, per carità, sono anche riuscita a finire l’università, mettendoci un sacco di anni, perché non potevo copiare più i compiti dalla più brava della classe, ma dovevo fare gli esami. E per ricordarmi quello che c’era scritto sui libri di testo, dovevo passare interi mesi chiusa in casa, studiando dodici ore al giorno, per sette giorni alla settimana, senza peraltro essere così brillante agli esami come ci sarebbe dovuto aspettare da una tale secchiona.
Anzi, sempre secondo il gentile neurologo che ha fatto la diagnosi, molte secchione sono spesso dislessiche che non sanno di esserlo, ma si incaponiscono sullo studio, non mollano mai, si legano alla sedia, passano mesi interi davanti ai libri, senza capire perché facciano tanto fatica a studiare e ricordare quello che hanno studiato.
Però sono riuscita lo stesso a fare quasi tutto quello che volevo, compreso trovare un lavoro dove devo spiegare agli altri – nel modo più semplice possibile – come funzionano i sistemi informatici.
Ormai, dopo tanti anni, ho messo a punto il mio sistema, perché ho capito che riesco a ricordarmi solo quello che ho capito, e per capirlo devo “semplificarlo” ovvero schematizzarlo. Il mio metodo di studio – e di lavoro – prevede riscrivere tutto in un modo semplice, comprensibile, con delle sequenze logiche ordinate. E per me è molto facile spiegare come funziona un sistema informatico, perché prima ho dovuto “spiegarlo” a me stessa.
Ergo, non mi lamento di cosa sono diventata, anche se sono rimasta quella che sta all’ultimo banco, cercando di non farsi notare. Non ho affrontato la vita a grandi falcate sicure, come peraltro non farà mio figlio, perché un asino rimane un asino per sempre. Nessuno riesce a costruirsi una buona opinione di sé, se non capisce perché ci deve mettere il doppio degli altri per riuscire a prendere sei.
Adesso però chiudo il discorso, con un’ultima lagna.
In Italia cominciano ad andare di moda gli articoli dove si denuncia una supposta abbondanza di diagnosi di dislessia. Gli articolisti si domandano se le diagnosi non siano false, alimentando il mercato degli psicologi (o dei medici) che salvano gli asini da una meritata bocciatura, rifornendoli di un certificato che dovrebbe garantire una maggiore clemenza da parte degli insegnanti.
In realtà, non mi aspetto che un medico (che magari lavora alla ASL) abbia voglia di emettere una diagnosi falsa di dislessia solo per fare un piacere a qualcuno col figlio che va male a scuola, e che spera così di salvare il fanciullo dal destino che gli competerebbe: un’allegra sfilza di quattro.
Secondo me l’Italia sta solo recuperando un ritardo diagnostico che non si è verificato in altri paesi, dove la dislessia viene riconosciuta (e accettata) con più facilità.
Ormai non ci sono più dubbi sul fatto che che quel tipo particolare di difficoltà di apprendimento – DSA – sia legato a un diverso funzionamento di alcune zone degli emisferi cerebrali. Il disturbo può essere più o meno grave, anche se nella maggioranza dei casi è possibile imparare a “compensare” le proprie difficoltà di apprendimento, utilizzando delle strategie particolari, come per esempio quella di costruire delle mappe logiche sull’argomento che stai studiando. Il fatto di dover individuare quali sono i nodi logici principali di un problema ti aiuta a capirlo meglio. E il fatto di poter costruire delle mappe con dei software ti aiuta anche a leggere meglio quello che hai scritto, perché se no faresti fatica a capire la tua scrittura (le zampe di gallina…).
In Italia, c’è anche una bellissima legge che stabilisce che puoi portare a scuola quelle mappe, e usarle durante i compiti in classe.
Che male c’è? Durante i compiti in classe, gli allievi dislessici possono consultare le mappe fatte a casa, invece di scopiazzare le verifiche, come facevo io. Quando andavo a scuola, non mi ricordavo il nome dei tempi dei verbi – trapassato prossimo, futuro anteriore, futuro prossimo – eppure li usavo correttamente: quando parlavo, e quando scrivevo, non sbagliavo la consecutio temporum. Ero capace di fare un tema, ma non sapevo qual era il nome dei tempi verbali che stavo usando (ammesso che serva a qualcosa sapere il nome dei tempi verbali).
E stavo all’ultimo banco, sperando che nessuno si accorgesse di me.
Quello che faccio fatica a capire è perché mio figlio debba continuare a starci anche adesso, all’ultimo banco, e non capisco perché ho dovuto passare degli anni a baccagliare con i suoi insegnanti, che non volevano che lui usasse le mappe durante i compiti in classe e gli dicevano (senza mezze misure): “Tu non sei dislessico, tu non hai niente! Hai solo un problema: tua madre è matta!”.
Lo dico con franchezza: questi sono solo i sintomi di una ridicola arretratezza culturale, perché la dislessia non dovrebbe essere un dibattuto argomento di conversazione, così come non lo sono gli occhi blu, i capelli biondi o l’altezza.
Se i ragazzini che vanno a scuola imparassero a studiare nel modo intelligente che oggi ti consentono i nuovi software per dislessici, diventerebbero bravissimi, tutti, anche quelli che non sono dislessici.
Cosa c’è di meglio di fare uno schema per capire quello che stai studiando? Cercando poi di ricordarti solo i concetti principali, e non la data in cui Manzoni ha scritto “Il Cinque Maggio?”.
Queste ormai dovrebbero essere “banalità” acquisite, di cui non vale più neanche la pena di discutere. Eppure no, adesso va di moda chiedersi se i medici non stiano “regalando” le diagnosi ai giovani pulzelli che non hanno voglia di aprire i libri.
No, i medici non stanno regalando nulla, e i dislessici certificati in Italia sono 150.000, quando statisticamente i dislessici (compresi quelli non diagnosticati) dovrebbero essere il 3% della popolazione: circa due milioni di persone.

E non dovrei neanche dover scrivere un post come questo, così come nessuno scrive di avere gli occhi neri e i capelli castani. Tutto qua.