Mentre Varoufakis – il ministro greco delle finanze, più bello e anglofono che mai – riesce a ottenere quattro mesi di tempo per trattare sulle modalità in cui la Grecia restituirà i soldi che deve all’Europa, noi, in Italia, approviamo il Job Act.
Legge della quel sappiamo poco, perché mancano ancora le misure attuative, anche se i principi fondamentali sono abbastanza chiari e molto graditi dalla Confindustria. Bombassei, vicepreseidente di Confindustria, ha infatti urlato al miracolo: così l’economia può ripartire, perché i padroni non avranno più paura di trovarsi un “lavoratore legato per la vita“.
Di fatto, l’unica vera novità del Job Act è che il licenziamento economico – che vuol dire tutto e niente, e quindi vuol dire qualsiasi tipo di licenziamento – verrà risarcito con qualche mensilità, da determinare in funzione del numero di anni per il quale un lavoratore è stato impiegato presso la stessa impresa. Le mensilità “di risarcimento” sono poche – 2 per ogni anno di lavoro – e non possono comunque essere più di 24.
Questo permette inoltre agli imprenditori di non correre più il rischio di finire in un tribunale quando licenziano qualcuno, e i licenziamenti hanno un costo certo: al massimo due anni di stipendio.
Tutte le altre “novità” sono panzane.
Vengono aboliti solo TRE dei contratti atipici, quando ne restano in vigore un’altra quarantina, e per le partite IVA non sono previste misure per alleviare il peso fiscale di chi è costretto ad aprirne una per lavorare.
L’UNICA misura favorevole alle nuove assunzioni con il “contratto” a tutele crescenti (quello per cui un licenziamento costa al massimo 24 mesi di stipendio) è che il governo taglierà i contributi agli imprenditori che assumono, nei prossimi tre anni, un lavoratore con il nuovo contratto.
Insomma, l’incentivo VERO del Job Act è quello di far pagare di meno il lavoro (agli imprenditori italiani), se la smetteranno di utilizzare i contratti a termine quando impiegano un lavoratore.
Oggi, infatti, l‘85% dei nuovi contratti di lavoro è “a termine”, e Renzi spera che con i nuovi sconti fiscali agli imprenditori, e con la garanzia di poter mandare a casa un lavoratore come e quando gli pare, le imprese italiane adottino la nuova forma contrattuale, impropriamente definita a tempo “indeterminato”.
Sarà interessante capire se la Confindustria italiana, alla quale il governo pagherà i contributi per i neoassunti nei prossimi anni, risponderà “positivamente” alla nuova legge sul lavoro.
Peccato che a Renzi, e alle nostre imprese, non venga mai in mente che se i lavoratori vengono pagati, spendono!
La “domanda interna” tiene in piedi le aziende del paese, imprenditori compresi.
Se invece, il lavoro è mal retribuito, l’economia va a picco, perché i “ricchi italiani” investono quote troppo alte dei loro profitti in prodotti finanziari. O portano i soldi in Svizzera, come dimostra lo scandalo “Falciani”.
Insomma, è meglio dare 1.500 euro al mese a dei poveri cristi che poi vanno a fare la spesa, che non ingrossare i profitti da capitale, che poi finiscono in un conto svizzero.
Non lo dico solo io, povera crista, ma anche Piketty, nel “Capitale nel XXI secolo”. Che non è un rivoluzionario ma un professore di università.
Ma sembra che in Italia – e qui sono banale – il buon senso sia passato di moda.
In favore di contratti che durano un giorno (ci sono anche questi!), benedetti dal Job Act.