Archivio mensile:settembre 2013

Amato figlio mio (che sei un marziano)

Tommaso è chiuso nella sua stanza insieme a un compagno di classe, e ha appeso alla sua porta una di quelle targhette degli alberghi che dicono: “Non disturbare”.

Non posso entrare, ma li sento.

Stanno facendo un videogioco sul computer. Si sono collegati su Skype a un terzo ragazzino che gioca con loro e commenta le varie mosse dalla finestrella di Skype che i due tengono aperta in basso, su un lato dello schermo.

Per accompagnare la serata di sciambola (giocare in tre allo stesso videogioco), si sono fatti i pop corn al microonde, e poi Tommaso ha scovato in cucina due contenitori di plastica che assomigliano ai bicchieroni del cinema, dove ha versato i pop corn.

Io ho cucinato delle schifezze semisane, e gli ho fatto un litro di frullato, che hanno bevuto più o meno volentieri.

Non posso dire che sono contenta di saperli chiusi in camera a giocare in tre (di cui uno su Skype)  a un videogioco.

Ma non posso neanche sperare che passino la serata impegnati in una sfida a scacchi all’ultimo sangue (e quello su skype cosa farebbe?).

Naturalmente ho insegnato a Tommaso come si gioca a scacchi, ed è stato anche costretto a seguire un corso organizzato dall’Accademia degli scacchi.

Secondo me gli sarà utile imparare a ragionare come uno scacchista, ma a Tommaso degli scacchi, in realtà, non gliene sbatte una beata mazza.

Ai nostri figli MASCHI piacciono SOLO  i videogiochi e, se giocano a carte, usano SOLO quelle di Yu-Gi-Oh!, che costano un botto ma li costringono a imparare a fare i calcoli a mente (per sommare la “potenza” delle varie carte).

Insomma, i nostri figli sono dei MARZIANI rispetto a noi che disponevamo di due soli supporti ludici: la palla e le carte (anche quelle romagnole…).

L’unico gioco tecnologico in circolazione era l’Allegro Chirurgo: si illuminava l’organo che rimuovevi con la pinzetta. Punto.

Posso confessare che non ho dei bei ricordi dei pomeriggi passati all’oratorio a giocare a palla prigioniera con le suore?

Posso dire che odiavo giocare a carte fino allo sfinimento, perché c’era sempre qualche ragazzino che invece ADORAVA la Scala Quaranta o il Tresette col Morto e voleva sempre la rivincita?

Posso URLARE che le nostre infanzie sono state noiose come la morte, perché eravamo già inurbati, chiusi in casa, senza giardini, senza cortili, e avevamo come unico passatempo le carte romagnole?

Posso GRIDARE  che giocare a briscola per tutta l’estate (con i tuoi fratelli) era di una NOIA FUNESTA E MORTALE?!

E poi, io avevo per lo meno dei fratelli (mi ricordo una volta che per cambiare gioco li feci inginocchiare in sala e li costrinsi a recitare delle Ave Marie), mentre quella di adesso è una generazione di figli unici.

Le donne che lavorano ci pensano tre volte prima di fare il secondo pargolone e i nostri figli sono spesso da soli.

Il computer gli fa compagnia e vedono gli amici su Skype.

Triste, tristissimo, ma non me la sento di dire che questi poveri ragazzi sono peggio di noi.

Certo, quando noi eravamo annoiati, prendevamo un libro e leggevamo.

Loro, no, non si annoiano mai, e non leggono mai.

I videogiochi sono stati pensati per creare dei meccanismi di dipendenza e ogni volta che decido di far spegnere il computer a Tommaso, mi devo impegnare in lotte discretamente faticose.

Ma non me la sento di spegnere TUTTO e mettergli in mano un mazzo di carte romagnole (le odio ancora!) e sfidarlo a Scopone.

Oggi i ragazzi, quando si vedono, giocano insieme con dei GIOCHI ELETTRONICI.

Non si può tornare indietro, anche se mi chiedo cosa ci sia nel futuro dei nostri figli marziani.

Passività intellettuale e  dipendenza dal mondo digitale?

Oppure diventeranno una generazione di smanettoni – poco colti – capaci di interagire col nuovo mondo produttivo, che sarà necessariamente tutto digitalizzato?

Non lo so, forse leggere Joyce serviva per davvero a qualcosa.

Ma è inutile piangere sul latte versato.

La sfiga ai tempi dei social network

Voglio sostenere una tesi ardita: con i social network è finita la sfiga.

Tranqui, adesso argomento.

Dunque, io non sono nata digitale, ma lo sono diventata in età adulta (sono androidiana, se vogliamo proprio dirla tutta).

Ricordo benissimo i tempi in cui c’era solo il telefono, se volevi parlare con qualcuno.

Ricordo benissimo anche la gioia di quando mi comprai una segreteria telefonica, perché non volevo perdere quelle poche telefonate che ricevevo.

E se volevi conoscere qualcuno di nuovo, dovevi sperare che ti invitassero a una festa o a una cena, e poi dovevi aspettare che LUI (o anche lei), ti chiedesse il numero del telefono di casa.

Forse qualcuno si ricorda gli annunci che dicevano: TELEFONARE ORE PASTI.

Mi ricordo il batticuore di quando suonava il telefono: sarebbe stato LUI?

E l’angoscia di quando arrivavi a casa, sentivi suonare il telefono, correvi dentro, sperando che fosse LUI, e poi non riuscivi a rispondere in tempo. E non sapevi chi ti aveva chiamato.

Eravamo quindi tutti un po’ SFIGATI.

Conoscevamo poche persone, conoscerne di nuove era molto difficile, e anche l’invito per una festa arrivava per telefono, e se ti perdevi la telefonata, ti perdevi l’invito.

Mi ricordo che c’erano dei periodi in cui avevo l’impressione che nessuno mi volesse, perché era molto difficile mettere in moto degli ingranaggi sociali dove tu venivi riconosciuto come parte di un gruppo, e quindi ritenuta degna di un invito.

La società pre-social network era in realtà composta da clan, dove le persone si riunivano perché si assomigliavano (stessa città, stessa scuola, stesso reddito, stesso ceto sociale).

E se non ti davi da fare, rimanevi fuori dal clan. E ti sentivi uno SFIGATO.

Ma oggi chi si sente più sfigato?

Con i social network, sotto la cui categoria rubrico non solo i soliti Facebook e Twitter, ma anche i forum, i blog, eccetera, è molto facile incontrare persone – VERE – che hanno i tuoi gusti e le tue passioni, con le quali costruisci delle relazioni – VERE – basate su pensieri comuni e scambi REALI di opinioni su argomenti che ti interessano.

Io non credo che la socializzazione su internet sia solo virtuale, anzi, ci sono molti gruppi che nascono su internet e poi si incontrano, si conoscono, organizzare gite, discussioni, serate insieme.

Potrei fare milioni di esempi: dalle camminate in montagne, alle cene a casa di qualcuno che mette il proprio desco a disposizione, ai gruppi di auto-aiuto di donne e uomini che hanno qualche strana e rara malattia in comune e riescono a mettersi in contatto tra di loro  per aiutarsi e scambiarsi aiuti e consigli.

Tutto questo è FANTASTICO!

Non sono più una sfigata, no, e non lo è più nessuno che riesca a stabilire delle relazioni con persone che gli assomigliano, che hanno le sue passioni o i suoi problemi.

C’è solo un’UNICA e GRANDE  controindicazione all’esplosione sociale ANTISFIGA compiuta grazie alla rete: le persone che vorrei incontrare e conoscere sono TANTE e so che non riuscirò a vederle tutte.

Vorrei andare a Verona a passare un week-end con Salvo e la sua compagna, che non ho mai visto, ma ci siamo scritti tante email e ci siamo parlati al telefono.

Vorrei rivedere Marcello, perché fa delle fantastiche battute.

Vorrei rivedere anche Lollo, che conoscevo di persona, ma poi ho letto quello che scriveva sul web, e ho pensato: “Ehi, ma fa ridere sul serio!”.

Insomma, vorrei avere 1000 vite per incontrare e parlare con tutti quelli che ho conosciuto sul web o conosciuto MEGLIO sul web, scoprendo anche lati insospettabili di loro, perché quando si scrive, si è diversi da quando si parla.

E oggi, i social network, sono fatti ancora di PAROLE.

PAROLE SCRITTE.

Certo, sui social network ci sono anche le foto e anche i video.

Ma io amo molto le parole – amo anche i video e le foto – ma trovo ancora molto belle le parole.

Evviva quindi chi usa le parole!

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Lasciate ogni speranza o voi che vi autopubblicate!

Non fidatevi del titolo del post.

Io difendo il self publishing e vi spiegherò perché.

Ma quella di autopubblicarsi è una strada senza ritorno (e vi spiegherò cosa voglio dire).

Parto dall’inizio della storia.

Abito a Milano.

Conosco un po’ il mondo dell’editoria (quella di “carta”), e qualche anno fa ho pubblicato un libro con un editore, usando il mio vero nome.

Il libro è andato malissimo, e sto facendo causa per la seconda volta all’editore.

Mi sto battendo da quasi dieci anni per riprendermi i diritti di un libro che oggi venderebbe due copie (su Amazon), se me lo auto-ripubblicassi.

Ma non tollero l’idea di essere finita – per sbaglio – in una casa editrice di destra, che pubblica ancora delle sonore schifezze.

Detesto vedere il mio – vero – nome associato a quello della casa editrice in questione, ed è per questo che vado in Tribunale.

Ci sono stata la prima volta dieci anni fa. Mi volevo riprendere i diritti del libro e volevo che tutte le copie stampate fossero distrutte, mandate al macero.

Il giudice mi ha fatto firmare una bizzarra transazione: se avessi restituito l’anticipo ricevuto dalla casa editrice, sarei rientrata in possesso dei diritti di pubblicazione (che avevo ceduto per vent’anni), ma le copie in magazzino sarebbero rimaste alla casa editrice. Che poteva continuare a venderle dove e come credeva.

Ho firmato.

Non avevo previsto che la casa editrice si sarebbe tenuta per dieci anni in magazzino le duemila copie invendute, e le avrebbe sparate dieci anni dopo su tutti i bookstore digitali del mondo.

Pensavo che le mie duemila copie invendute sarebbero finite in qualche polveroso Reminders e sarebbero quindi sparite PER SEMPRE dal mondo REALE.

Ma non è successo così.

Le  copie sono in vendita su una ventina di bookstore, e il mio amico del cuore, che fa l’avvocato, mi ha REGALATO una citazione in Tribunale.

Chiederemo alla casa editrice in questione di ritirare le copie dalla vendita.

Ometto le motivazioni legali, ma basta il buon senso per capire che se la casa editrice non detiene più i diritti del mio libro, non può continuare a venderlo per i prossimi cento anni (solo per farmi un dispetto), e senza mai essersi degnata di mandarmi un rendiconto sulle vendite, DICO UNO,  da quando il libro è arrivato in libreria.

Ecco, forse sono stata particolarmente tonta o sfortunata, ma i piccoli editori vanno presi con le pinze.

Voi gli cedete i diritti del vostro libro per vent’anni, e loro magari ne stampano 500 copie e non vi dicono neanche in quali libreria sono finite.

In genere hanno un ufficio stampa che non vale nulla, e riusciranno a farvi avere solo un paio di articoli sulla Gazzetta di Brembate di Sopra, scritti da un’allieva della quinta elementare che ha vinto il primo premio per la poesia delle scuole di Brembate di Sopra e di Sotto,e  che definisce il vostro libro “un moderno capolavoro della prosa contemporanea”.

Ma, per favore, non pensate che pubblicare un libro con le major dell’editoria italiana significhi avere un successo garantito.

No, gli uffici stampa delle case editrici – anche di quelle enormi – scelgono di puntare TUTTO su un paio di titoli all’anno, e se non siete tra quelli, baciatevi i gomiti se arrivate alle duemila copie.

E se il libro va male – cioè non lo compra nessuno – i librai lo rimandano al mittente (l’editore) a stretto giro di posta per non trovarsi gli scaffali pieni di ROBA che non va.

Il punto è proprio questo. I libri stampati diventano ROBA da vendere.

E se la ROBA è invendibile, la si butta.

Ma anche VOI scrittori verrete buttati via insieme a lei, perché la casa editrice ritirerà il libro dal catalogo e vi chiederà se volete comprarvi 500 copie con lo sconto (meglio di niente, pensano gli editori: almeno ci paghiamo un po’ di spese).

Voi ve le comprerete, e le metterete in cantina, per tirarle fuori tutti i Natali e regalarle ai vostri annoiatissimi parenti, che vi troveranno PATETICI col vostro vecchio libretto in mano.

Poi, il giorno del vostro funerale, qualcuno metterà il libro nella bara (l’ho visto fare), e il vostro incompreso capolavoro scenderà nella terra oscura, per sempre, insieme al defunto e incompreso autore.

Mi pare che non sia più necessario spiegare perché Amazon o qualsivoglia editore digitale sia meglio.

Faccio lo stesso un velocissimo elenco:

  1. restate proprietari dei diritti,
  2. non vi costa nulla pubblicarlo e potete modificare titolo, testi, copertina, tutte le volte che volete,
  3. se siete dei geni autodidatti del marketing, potreste venderne anche qualche migliaio di copie, o anche molto di più se il libro è carino e sapete cosa fare per promuoverlo,
  4. potete mettere in vendita anche l’edizione cartacea, se qualcuno dei vostri amici non si volesse comprare un ereader,
  5. non dovrete mangiare la merda che vi viene in genere fatta trangugiare a palate da un editore che non è riuscito a vendere neanche mille copie del vostro capolavoro.

L’unica controindicazione all’autopubblicazione è l’impossibilità di tornare indietro verso l’editoria tradizionale.

Nessun editore pubblica un autopubblicato a meno che non abbia venduto un milione di copie.

In Italia c’è una sola eccezione: Newton Compton. Ogni tanto Raffaele Avanzini pesca laicamente un autore dal web, ma Avanzini non ha la distribuzione (le librerie), e quindi viaggia più leggero di chi ha librerie, case editrici, testate giornalistiche, eccetera, che stanno andando tutte insieme in picchiata verso il sicuro fallimento.

Il motivo per cui gli editori non amano gli autopubblicati è molto semplice: gli intasiamo il canale online.

Lo riempiamo con i nostri ebook, impaginati da noi smanettoni che teniamo il prezzo basso per venderne di più (siamo singoli imprenditori, in genere con un altro lavoro, e quindi non dobbiamo tenere in piedi un’impresa con i nostri guadagni).

Gli editori tradizionali preferirebbero che noi SELF ci scannassimo in quei tremendi concorsi letterari che durano anni e si concludono con la vittoria di UNO SOLO, che vince appunto il diritto a finire in libreria con le solite tremila copie (e si ricomincia come sopra).

Intanto, tutti quelli che hanno partecipato al concorso, hanno ceduto all’editore i diritti di pubblicazione per qualche anno, e stanno fuori dal giro (dei bookstore).

Se si spargesse la voce che Rizzoli e Mondadori pubblicano i libri più venduti dai SELF su Amazon, tutti si butterebbero a pubblicare sui bookstore nella speranza di farsi notare dagli editor delle collane.

Ma loro se ne stanno zittini a guardarci. Non ci amano, believe me.

Io rivendico il diritto di impiastare Amazon con tutto quello che voglio.

Poi, anche su Amazon, ci sarebbe un lungo discorso da fare.

Il primo del quale sull’annosa questione delle critiche false a cinque stelle. Sono troppe.

Ma su questo ho già pontificato.

Buonanotte.

Basta con i Rosa loffi come una scoreggia!

Scusate se mi esprimo con tale veemenza, ma non riesco a capire come diavolo sia possibile che i Rosa che vendono di più siano ancora quelle tremende schifezze in cui lei è una sfigata che  sposa il Principe Azzurro, oggi nella moderna versione di Amministratore Delegato.

Non so quale sia il meccanismo psichico che spinge ancora le lettrici ad acquistare questo genere di Rosa, adesso condito anche da qualche bella frustata (l’Amministratore Delegato usa la frusta, cosa che in fondo le piace).

Scusatemi, ma io mi rifiuto di scrivere di donne che corrono dietro a qualche maschio col reddito superiore al loro, mettendo in scena un passato antropologico dal quale credo che le donne si dovrebbero liberare.

Noi femmine, di fronte alla capanna, che prepariamo il pane, mentre LUI, il cacciatore, porta a casa proteine animali.

Oggi, le proteine animali le compriamo all’Esselunga – tutti, uomini e donne – e io rivendico la possibilità di scrivere dei Rosa in cui la donna non sia un’oca che vuole sposare uno che guadagna più di lei e sia possibilmente proprietario di loft a Londra, Parigi e New York.

Oggi siamo tutti nella stessa merda e sarebbe carino poter scrivere dei Rosa leggeri, un po’ meno stereotipati, dove LUI e LEI sono delle persone NORMALI  che pensano delle cose NORMALI.

Anche perché, se nella realtà il tuo capo tira fuori la frusta, chiami la Polizia.

Ma poi I ROSA NORMALI non te li compra nessuno (sto parlando del mio, naturalmente).

Qualcuno sa il perché?

Dio bono, quanto mi rode.

Il porno spiegato ai bambini

Sto citando “La televisione spiegata al popolo” di Achille Campanile, il libro preferito di Aldo Grasso.

L’ho letto anch’io e amo quel titolo meraviglioso di un libro tanto leggero quanto intelligente.

Prendo in prestito quel titolo, allora, perché continuo a leggere articoli su come limitare l’uso del web da parte dei bambini, e soprattutto su come tenerli lontani dalla pornografia, che oggi è veramente a portata di clic.

Mi irritano ugualmente gli stucchevoli consigli degli esperti, che peraltro dicono sempre le stesse cose:

  1. di usare un parental filter per impedire al pargolo che vada a finire su siti sconvenienti,
  2. di sorvegliare il pargolo mentre naviga sul web, facendo in modo che il computer si trovi in un’area aperta, a voi visibile, così da poter lanciare un occhio su quello che sta facendo.

Anche applicando alla lettera i consigli degli esperti – per un po’ l’ho fatto – non si può comunque impedire a tuo figlio di andare a casa di qualche amichetto/a, dove tutte queste precauzioni invece non vengono prese.

Se poi un compagno dice a tutta la classe di digitare “Youporn” su Google, allora la frittata è fatta.

E così, di punto in bianco, dovrete spiegare a vostro figlio (e magari non solo a lui) che cos’è un film (o un video autoprodotto) porno.

E gli esperti, con tutti i loro fastidiosi consigli per tenere il web sotto controllo, non vi saranno di grande aiuto.

Perché ormai il il bambino il pornetto se l’è visto.

E voi dovrete dirgli QUALCOSA, non potrete far finta di niente.

Ma non saprete COSA dirgli, perché negli articoli sui parental filter non si prevedeva che voi avreste fallito la mission impossible di tenere lontano vostro figlio dalla pornografia fino alla notte prima del matrimonio.

Ma torniamo indietro alla quinta elementare, anno in cui si svolgono i fatti che vi vado a raccontare.

In una bella mattina di ottobre, passo a prendere la compagna di classe con la quale allora Tommaso andava a scuola.

Facciamo due passi e la bambina mi dice: “Ma è vero che prima di fare l’amore bisogna ciucciare il pisello dei maschi?”.

Ricordo di aver sentito un brivido gelido scendere lungo la schiena e di averle chiesto che cosa aveva detto ESATTAMENTE, perché di sicuro IO avevo capito male.

La bambina mi ripeté la stessa domanda, mentre Tommaso ridacchiava.

Il brivido gelido era giustificato.

NON C’ERANO DUBBI: i due avevano visto un video porno.

Gli feci immediatamente confessare TUTTA LA VERITA’: quando avevano visto la schifezza (il pomeriggio precedente, di nascosto da tutti, sul computer di casa dell’amichetta), come si chiamava il sito in questione, e chi gli aveva consigliato di vedere la schifezza (un altro compagno di classe, un po’ più svegliotto di loro due).

Poi, dopo averli accompagnati a scuola, chiamai la madre della bambina per raccontarle cos’era successo.

Non me ne sbatteva niente del fatto che lei non avesse il parental filter, perché sono cose che possono succedere a chiunque, ma pensavo che fosse il caso che spiegasse alla figlia che cos’è un fil porno.

La mia amica rimase a dir poco colpita da quanto era avvenuto e so che l’argomento fu affrontato  immediatamente.

Poi feci la posta fuori da scuola alla madre del bambino che aveva consigliato il sito in questione ai due giovani pargoli.

Ricordo molto bene la reazione della mamma del pupo: mi svenne praticamente tra le braccia quando le spiegai cos’era successo, mentre il piccolo porno advisor negava tutto, dando la colpa a un altro: “Me l’ha detto Tizio di andare su Youporn!”.

Poi arrivò il turno di Tommaso.

La presi alla larga, annunciando che il porno advisor non sarebbe mai entrato a casa nostra, e che lui doveva sempre raccontarmi che cosa guardava quando navigava su Internet.

E poi mi bloccai.

Perché non sapevo cosa dirgli sui film porno.

Non sapevo spiegargli perché sono così brutti e perché è meglio non guardarli.

Allora sono andata anch’io su Youporn, visto che non sono mai stata una frequentatrice del genere porcellone.

Era la prima volta che vedevo quella roba – non sto scherzando, io non mi vergogno di niente – e ho capito che l’unica cosa sensata che potevo dire a Tommaso era che il porno è FALSO.

E che i film porno  non c’entrano niente con il sesso e con l’amore, e che tutto quello che si fa nei film porno è fondamentalmente INVENTATO.

E che le donne VERE non sono così ridicolmente sottomesse.

Nei film porno, le donne fanno cose INVENTATE dagli uomini (ma inventare è già un complimento: ripetere è il verbo giusto, perché i porno sono tutti uguali).

Ho spiegato a Tommaso tutto questo, e poi l’ho chiusa lì, sapendo che tra un po’, quando avrà quindici anni, ritornerà di sua sponte su quei siti, ma prima spero di avergli potuto spiegare qualcos’altro.

E cioè che su Youporn non c’è proprio niente di vero.

Quelli di Youporn non sono video casalinghi fatti da coppie caldamente esibizioniste

Sono solo filmini scadenti fatti da qualche porcaccione che si è comprato una webcam e ha pagato una prostituta per dar corpo alle sue fantasie, in genere noiosissime: uno stantuffamento potente e continuato, con lo stile e la sensualità di un martello pneumatico.

Su Youporn è tutto assolutamente falso, perché una donna con con dei figli, una vita piena d’amore e degli amici, NON METTE LA FACCIA in un video porno (anche se fatto in casa).

Quelle povere ragazze costrette a far finta di godere di quei tristi stantuffamenti sono prostitute travestite da donne normali.

E sulla prostituzione ho la stessa posizione del governo svedese, danese e norvegese: deve essere proibita.

Proibita completamente, senza case chiuse, quartieri a luci rosse, partire IVA e tasse da pagare.

Ma come si fa a proibire la prostituzione?

Punendo i clienti, non la prostituta.

Si chiama “Modello Svedese”.

Ma di questo parlerò in un prossimo post.

Vi faccio solo notare che senza prostitute, non ci sarebbero più film porno.

Nessuno dovrebbe più spiegare a un bambino che un film porno è solo una tristissima bugia.

E scomparirebbero finalmente anche gli articoli sui parental filter.

E quelli che li scrivono.

Un’incurabile malattia genetica: nascere maschi!

Tutte le mie conversazioni con Tommaso sono caratterizzate dalla tediosa ripetizione della stessa frase/domanda, fino a quando lui non si decide ad ascoltarmi.

Mio figlio non è sordo, semplicemente mi ignora.

Devo dirgli: “Ti sei lavato i denti, ti sei lavato i denti, ti sei lavato i denti?“, fino a quando lui risponde annoiato: “Sì...”.

Ma io so che non è vero e ricomincio: “Ti sei lavato i denti, ti sei lavato i denti, ti sei lavato i denti?”, fino a quando lui ammette: “No…“.

Allora io riparto: “Vatti a lavare i denti, vatti a lavare i denti!”, fino a quando lui non si alza e, fiaccato dal mio stalking, non va a lavarseli per davvero.

Pensavo che crescendo sarebbe guarito da queste forme di sordità intermittenti, ma pare di no.

Una collega mi ha confermato che la malattia è irreversibilmente genetica- intrinsecamente legata al cromosoma XY-  e quindi incurabile.

Anche a casa sua, infatti, vige la regola del RIPETI MILLE VOLTE LA STESSA COSA PRIMA CHE TUO MARITO TI ASCOLTI.

Avrete già una prova della mia teoria leggendo il commento al post di ieri sera, commento postato dalla Signora A., che, per inciso, è la moglie del second’ultimo piazzato al beauty contest “PER LUI” nel nostro campeggio nudista (ma non voglio rivangare su vecchi post e su quella triste sconfitta).

Ma, per tornare alla solita collega, ecco quanto mi ha raccontato a supporto della teoria genetica del maschio sordastro per natura.

Ordunque, la mia collega ha una bambina che va all’asilo.

A questa bambina viene richiesto di presentarsi ogni mattina con un grembiulino candido e immacolato, perché se no la suora si incazza (la bambina va in un asilo di suore).

Quando è il marito ad accompagnare la bambina all’asilo, la mia collega gli dà un grembiulino dentro a un sacchetto e gli dice: “Questo è quello pulito. Dallo alla suora e ritira quello sporco. Mi raccomando: non stropicciare troppo quello sporco, perché se no lo devo stirare. E quando torni a casa, mettilo nella cesta della cose sporche da lavare”.

La collega fa quindi ripetere al marito – che ha un titolo di studi superiore – tutta la sequela di comandi.

Lei gli domanda: “Cosa fai col grembiulino pulito?”.

Lui le risponde: “Lo do alla suora”.

E poi lei gli chiede: “E cosa fai con quello con quello lo sporco?”.

Lui allora dice: “Lo porto a casa e lo metto a lavare”.

La lezione viene quindi ripetuta qualche volta, fino a quando sembra che lui abbia afferrato il concetto del grembiulino pulito e di quello sporco.

Bene, si può finalmente andare a dormire…

Il mattino dopo, alle sette, il marito viene quindi reinterrogato (la mia collega giustamente non si fida).

Lei gli chiede: “Allora, cosa fai col grembiulino pulito?”.

E lui le risponde: “NON LO STROPICCIO!“,  dimostrando l’assunto originario.

Il maschio non ascolta MAI, neanche quando finge di farlo.

E perché non ascolta?

Perché è appunto un maschio.

Un’inguaribile malattia genetica.

E tu, donna, sarai multitasking (con dolore)

Sì, è una parola orrenda: multitasking.

Si usa generalmente in forma positiva: significa saper fare tante cose contemporaneamente.

In realtà, è una specie di corsa quotidiana per riuscire ad andare a letto la sera, senza essersi dimenticate un figlio all’Ikea – dove sei appena stata a comprare un po’ di roba per la scuola – e avergli controllato i compiti sul diario: “MA LI HAI FATTI I COMPITI DI MATEMATICA? NON E’ VERO! FAMMI VEDERE I QUADERNI!“.

E poi devi fare la spesa, e poi internet non va, allora chiami il 187, e poi il computer di tuo figlio non si connette in Wi-fi e allora ti trasformi in manutengola informatica di oggetti marziani.

Perché, dal mio punto di vista, basta che le cose funzionino. Che cosa ci sia dentro – a un PC o a una macchina da corsa – non è un argomento che mi interessa, as long as they work.

Le mie giornate, come quelle delle mie consorelle, sono pertanto accompagnate da un mal di testa di sottofondo, perché mentre sto cucinando una delle mie veloci schifezze, Tommaso urla: “MAMMA, INTERNET NON VA!“, oppure mi chiede di firmargli una di quelle maledette comunicazioni sul diario di scuola, che oggi sono diventate una persecuzione per madri e insegnanti (se ti dimentichi di firmarle, arriva la nuova nota dell’insegnante che ti dice di firmare quella vecchia, ma anche naturalmente quella nuova).

Senza dimenticare tutto quello che oggi una donna fa quando lavora.

Siamo infatti  molto “operative”, nel senso che anche in ufficio le cose le facciamo, mentre gli altri (in genere maschi), ne parlano.

Vogliamo dire la verità, ALLORA?

Il maschio è generalmente MONOTASKING  e sarebbe felice se ci fosse qualcuno che mettesse in pratica quell’unico pensiero che riesce a concepire – UNO ALLA VOLTA, PER CARITA’! – irritandosi se provi ad accennare a due questioni contemporaneamente.

Se infatti cerchi di avviare una conversazione con un maschio su DUE argomenti (noi sappiamo farlo), il maschio ti guarda come per dire: “Sei pazza, hai bisogno di cure psichiatriche urgenti!”.

Se poi provi a parlargli di cose sgradevoli, come per esempio il contenuto (scarso o nullo del frigorifero), lui ti guarda come per dire: “ROMPI SEMPRE I COGLIONI! SEI NEVROTICA! NON SAI MAI PENSARE A NIENTE DI PIÙ’ GRADEVOLE‘”.

Vogliamo ridirci la verità?

Un mondo senza donne sarebbe forse più divertente. MA SI ESTINGUEREBBE DIECI SECONDI DOPO LA NOSTRA SCOMPARSA!

(Oggi sono un po’ nervosa, sorry).

Critiche a cinque stelle

Il nome del movimento di Grillo pare sia ispirato a cinque temi fondamentali, tra cui l’e-democrazia e l’ambientalismo.

Si può discutere quanto si vuole sulle stelle polari del suo movimento – quali siano per davvero  –  ma certamente il logo di Grillo assomiglia molto ai voti che si danno su Internet.

Cinque stelle, su Internet, significa insomma: “Mi è proprio piaciuto!”.

Le stelline si illuminano (in genere di giallo) e tu a colpo d’occhio pensi: “Capperi, ha cinque stelle!” (ma chi dice più “Capperi!”…).

Che cosa speri, allora, quando pubblichi un ebook?

Che molti ti diano cinque stelle.

E cosa fai, se solo sei un po’ furbacchione?

Chiedi ai tuoi amici di farti le recensione a cinque stelle, o magari te le fai da solo, dopo esserti aperto un po’ di account falsi, con nomi tipo Grazia, Cate, Giovanni, Marino78, eccetera.

La questione delle critiche strepitose e strepitosamente false è peraltro arcinota.

In realtà, si potrebbe beccare il PLURIcritico dall’indirizzo IP del computer, e credo che qualche sito stia facendo qualcosa al proposito, ma se a darti una mano sono le cugine, le zie e le prozie, tutte dotate di un PC, allora beccarle diventa più difficile.

Oddio, ormai ho cominciato a capire cos’è vero e cos’è falso (delle critiche a cinque stelle).

Il primo indizio è naturalmente il numero di critiche già pubblicate dal volonteroso e generoso recensore.

Se il critico in questione ha pubblicato solo UNA critica a cinque stelle, potete essere certi che i gradi di parentela siano molto stretti.

Questo nel caso in cui le cinque stelle vadano a uno scrittore self published.

Se invece il generoso critico ha recensito molti libri della stessa casa editrice, dando a tutti cinque stelle, potete stare tranquilli: il recensore è l’editor dei libri in questione, e si sta generosamente lodando. Oppure, visto che le stesse case editrici si stanno svegliando sul web, potrebbe essere qualcuno pagato (da loro) per fare recensioni a cinque stelle.

Se poi la recensione a cinque stelle esce cinque minuti dopo che il libro è stato pubblicato, allora abbiamo la certezza matematica che sia FALSA.

Ci vogliono più di cinque minuti per trovare un libro, scaricarlo, leggerlo e quindi concepire qualcosa di sensato da dire in proposito.

Tutte le critiche pubblicate troppo in fretta sono già state scritte da un pezzo, ed erano pronte in canna.

PRESTO, SPARATE CINQUE STELLE!

Se poi tutte le critiche che un libro si è meritato sono a CINQUE STELLE, allora la contraffazione è TOTALE!

Non è possibile che non ci sia qualcuno che ne dà due o tre, o magari quattro, che è già un buon voto.

Ma non disperate: i parenti (e gli editor) finiscono, e le critiche false ed entusiastiche servono a poco.

Alla fine, i lettori non sono dei fessi.

E se un libro continua a vendere copie, un motivo c’è.

I cugini non bastano a far partire il passaparola.

Neanche in Italia…

In classifica su Amazon prima di Dante e Boccaccio

Quando fai una promozione su Amazon, vai a finire in un immenso calderone – quello dei libri gratis – dove ti batti contro Dante e Boccaccio.

Amazon  calcola infatti la posizione in classifica dei libri venduti con un algoritmo misterioso.

Una volta all’ora ci mette tutti in fila: dal primo al centesimo dei TOP 100 scaricati gratis.

Ti può quindi capitare di finire prima di Dante e Boccaccio, che sono, tutti e due, morti da più di settant’anni (anche da settecento, e i loro libri possono essere distribuiti gratuitamente).

Il Decamerone va così a finire in mezzo a una miscellanea di libri strani, che vanno dai corsi di inglese ai libri di self help: “Come diventare  un amministratore delegato in dieci lezioni”.

Credo che il Decamerone possa essere senz’altro definito un LONG SELLER, mentre invece di “Mariti in salsa web” non si saprà più nulla tra qualche giorno.

Non possiamo inoltre dimenticarci che Boccaccio è morto prima che si potesse bloggare o fare ADV online, e quindi le sue armi, e quelle di Dante, sono un po’ spuntate rispetto alle mie, che bloggo su WordPress.

Sarebbe quindi meschino oltre che idiota pensare: “Oddio, sono prima di Ovidio, che è  SOLO 36esimo  con “Le Metamorfosi”!

Ma una piccola soddisfazione – meschina – la provo lo stesso…

In classifica, sono prima anche di Verga!

Perché ogni volta che vedo quel libro malefico – I Malavoglia – col quale ogni studente italiano è stato torturato alla maturità, mi vengono ancora i conati di vomito.

Ho odiato quel libro, quei maledetti lupini e quei personaggi tragici destinati alla sciagura fin dalla PRIMA PAGINA!

Immagino l’inferno come una perpetua interrogazione su “I Malavoglia”, in cui un’insegnante di mezza età, sorniona e con i baffi, ti chieda di ripetere quali sono le TEMATICHE del libro e poi di illustrare il VERISMO ITALIANO.

Interrogazione infinita, che dura tutta l’eternità.

Allora, sì, a quell’infernale insegnante voglio proprio dirlo: “IN CLASSIFICA, SONO PRIMA DEI MALAVOGLIA!” (sulle classifiche dei libri gratis di Amazon…).

E Verga se lo legga lei!

Io non lo scarico manco se me lo danno gratis.

Anzi, non lo scarico neanche se mi pagano.

Vade retro, lupini maledetti.

La verità, vi prego, sull’autore!

Ho pubblicato su Amazon tre libri in sei mesi.

Lo confesso: non scrivo un libro al bimestre.

I tre libri li ho tirati fuori dai cassetti, dove giacevano dopo le lunghe e sonore bocciature ricevute dagli editori.

Scrivo – ahimè – da un bel po’ di anni.

Avevo anche un agente, qualche tempo fa, che “ci credeva”.

Ma poi i libri me li bocciavano lo stesso.

L’agente allora mi diceva: “Dai, scrivine un altro. Io in te ci credo!”.

E così ne ho scritti tre nel giro di sei anni.

Poi – io sono masochista – ho finalmente capito che non era l’agente giusto e ci siamo lasciati.

Ho mandato – da sola – i libri a qualche editore.

Mi ha risposto subito un editore piccolo ma molto cool, che pubblicava dei libri bellissimi.

Mi ha detto: “Te lo pubblico il tuo libro: vieni al Salone di Torino che ci conosciamo!”.

Accidenti, ho pensato, sono stata più brava io del mio agente!

Ma quando sono andata a Torino, ho fatto fatica a trovare lo stand della casa editrice molto cool.

Era seminascosto in una delle zone dove vendono i libri sui riti celtici e su come coltivare le Rose del deserto.

Oddio, ho pensato, se va male a LORO, come può andare bene a ME (con loro)?

Poi ho parlato col giovane editore –  molto figo, per carità – che mi ha detto: “Ti pubblico, ma mettiti in coda insieme agli altri autori. Sai quanta gente c’è che vuole farsi pubblicare da ME? Se sai aspettare, arriverà il tuo turno”.

Che cos’ho fatto, allora?

Mi sono inginocchiata sui CECI e gli ho baciato la mano, ringraziandolo umilmente e umidamente?

No, sono SCAPPATA!

Ho pensato: “Sto già (tutto il giorno) in ginocchio sui CECI in ufficio, e adesso devo farlo anche davanti all’uscio di un piccolo editore che venderà 200 copie del mio libro – perché non sa fare le promozioni –  e poi dirà che è colpa mia: “Hai scritto una schifezza che non riesco a vendere!”.

Per carità, ho pensato, basta con i CECI!

Se proprio devo mettermi in ginocchio – sempre sui CECI – che sia per lo meno davanti all’uscio di un castello, non di un bilocale a Trezzano.

Sono ordunque scomparsa, e ho cominciato a guardarmi in giro sul web.

Ho scartato i concorsi letterari organizzati dalle grandi case editrici perché servono solo a tenere gli esordienti dentro a recinti ben guardati, dai quali non possono scappare.

Gli esordienti in questione si scannano tra loro per eleggere un vincitore, e intanto devono cedere agli editori i diritti dei libri per il solito TOT di anni.

Poi, finalmente, è arrivato il self-publishing.

Quello degli americani, che danno a tutti una possibilità – per davvero – come raccontano nei loro film.

Anche il più sfigato ce la fa, purché sia onesto e di buona volontà.

E così ho cominciato a pubblicare i miei vecchi libri su Amazon.

Non ci sto guadagnando niente – mi faccio da sola delle campagnucce di marketing e reinvesto quello che guadagno – ma il mio fegato è salvo.

Anche le ginocchia. Nessun segno di CECI sulle rotule.

Persino la dignità è salva. E il divertimento pure.