TUTTA LA VITA ALL’ULTIMO BANCO

Sono tornata alla mia identità originaria, mi chiamo Maria Pia Baroncelli, per pubblicare quest’opera perfida sulla scuola italiana: “Tutta la vita all’ultimo banco”, edita da Zolfo. Sarebbe stato vigliacco nascondersi dietro Viola Veloce per lanciare il sasso contro  docenti e professori, ai quali ammetto di attribuire buona parte delle colpe per la situazione in cui versa – stremata – la scuola italiana.

Volevo scrivere un libro sulla scuola, dalla parte dei genitori, perché  siamo ormai diventati il capro espiatorio al quale si dà la colpa dei cattivi risultati scolastici dei nostri figli. Non solo, sempre secondo la vulgata, i genitori oggi picchierebbero volentieri gli insegnanti quando il ragazzino prende una nota o un brutto voto, come se le mamme e i papà si presentassero ai consigli di classe con i tirapugni, pronti a difendere i pargoli dalle sconfitte “narcisistiche” che gli può infliggere la scuola (questa è la vulgata psicoanalitica, in cui noi genitori siamo dipinti come iperprotettivi dell’ego dei nostri figli).

Per cominciare, mettiamo bene in chiaro una cosa: le scuole italiane non sono tutte uguali. in Italia ci sono delle scuole di ottimo livello, i licei classici e scientifici, che sorgono in genere nel centro delle grandi città, in particolare al nord ma anche nel centro Italia, e poi ci sono le scuole dove gli studenti arrivano da famiglie più povere, quasi mai in grado di seguire i loro figli nei percorsi scolastici, sempre più difficili e complicati, soprattutto se paragonati con quelli delle scuole che ho frequentato negli anni Sessanta e Settanta. 

Ma se le scuole di oggi (anche quelle di ieri…) non sono tutte uguali, va da sé che non sono uguali neanche i genitori. Quelli che si arrabbiano con gli insegnanti arrivano in genere da contesti sociali svantaggiati, non lavorano in uno studio legale nel centro di Milano. Quindi non si può parlare di “cattivi genitori” in generale, ma bisognerebbe analizzare i casi uno per uno, per capire che cosa non va in una certa scuola o in una certa famiglia. 

E poi ci sono i test INVALSI: ormai sappiamo che sulle pagelle possono comparire ottimi voti anche quando (nei test INVALSI) i ragazzi dimostrano di non essere in grado di comprendere un testo in italiano e non sanno fare decentemente quattro calcoli. Colpa dei genitori anche i risultati degli INVALSI? Direi proprio di no.

Dare la colpa ai genitori e agli studenti di quello che sta succedendo alla scuola italiana è veramente ingiusto. In classe ci sono i professori e i programmi li decide il Ministero dell’Istruzione, anche se sono gli insegnanti che decidono se farli per intero, senza saltare una riga delle decine di libri di testo che i ragazzi si portano in giro in cartella. Nelle scuole medie, per esempio, bisogna studiare dozzine di materie che comprendono, per esempio, anche l’epica, e l’epica comprende tutto: l’Odissea, l’Iliade, l’Eneide, eccetera, con i cui testi si cerca di ingozzare dei ragazzi di undici anni come se fossero oche da fegato, senza neanche la soddisfazione di ricavarne il paté (se non un paté di cervello, perchè tutte quelle nozioni finiscono per mescolarsi molto malamente nei loro poveri cervelli, ridotti a una poltiglia senza forma).

I docenti potrebbero anche saltare qualche pagina (sono migliaia…) e soffermarsi per capire – gentilmente – se i ragazzi hanno capito quello che stanno studiando. E se non hanno capito, è proprio necessario mettergli subito un due sul registro di classe (restituendo ai discenti la colpa di “non sapere”), oppure non sarebbe meglio chiedersi se la responsabilità (del mancato apprendimento) non possa dipendere anche dagli stessi docenti?

ATTENZIONE: il libro non è un saggio ma il racconto dei miei anni di scuola, a partire dal 1964, quando ho cominciato le elementari, seguiti dal racconto di quelli di mio figlio, nato nel 2001, che se l’è passata molto peggio di me. Descrivo tutto ma proprio tutto: il mio primo giorno di scuola alle elementari, e poi quello di mio figlio Antonio. Paragono la mia meravigliosa maestra, Anna Monfardini, alle sue due maestre (si possono fare i paragoni, non è vietato), e concludo che nelle quattro ore di lezione (alla mattina) che facevamo negli anni Sessanta – in classe eravamo quaranta bambine – imparavamo ben di più, e meglio, di quanto non abbia imparato mio figlio nelle sette ore di lezione al giorno, con venti studenti in classe, negli anni Duemila.

Il racconto delle avventure scolastiche mie e di Antonio – siamo entrambi dislessici, e quindi un po’ “asini” – termina nell’anno della Didattica a Distanza, quando le scuole italiane vennero chiuse, per poi essere riaperte quasi un anno e mezzo dopo. Da allora, secondo le rilevazioni dei soliti test INVALSI, l’asinaggine degli studenti italiani è ulteriormente peggiorata, fatti salvi i soliti licei del centro-nord.

I dislessici – e tutti i ragazzi che per qualche motivo sono in una situazione di difficoltà  – soffrono ancora di più nella scuola degli anni Duemila, dove c’è stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci sia per quanto riguarda il numero della materie (arrivano a 13 nel biennio di un istituto tecnico!), ma anche dei docenti (13, per l’appunto, sempre nel biennio di in un istituto tecnico), che a loro volta moltiplicano il numero delle verifiche, scritte e orali, nelle loro materie. Ci sono stati degli anni in cui mio figlio arrivava ad avere 80,90 voti sul registro elettronico!

Ma se i professori passano il tempo a fare verifiche, quand’è che insegnano le loro materie?

Sarà mica colpa di questo iperverificare le performance dei ragazzi (invece di verificare se hanno davvero imparato a ragionare con la loro testa) che la scuola italiana sta andando sottoterra (certo non nei soliti licei)?  

Beh, se siete arrivati a leggere fin qua e volete sentire il resto della storia, accattatevi ‘sto libro!

Nelle librerie e sugli store digitali.

Zolfo editore

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“Lettera a una professoressa” letto oggi

“Lettera a una professoressa” è un libro collettivo scritto dagli allievi della Scuola di Barbiana, una rivoluzionaria scuola parrocchiale guidata da don Lorenzo Milani, e pubblicato nel 1967, un mese prima che don Milani morisse di un tumore. Il libro infiammò gli animi durante la contestazione studentesca per poi scomparire negli anni successivi, citato malamente (dalla destra) come libello CONTRO la scuola.

Ma nessuno ha creduto nella scuola più di don Milani e così ho pensato di riprendere in mano quel libro brutale per capire se la scuola di oggi assomigli ancora a quella descritta da don Milani e i suoi allievi. Dico subito che l’analisi di don Milani è basata su uno studio di tipo scientifico, ovvero sull’analisi dei risultati scolastici dei ragazzi italiani, classificati in base al titolo di studio e alla professione del padre. In quel periodo, infatti, i bambini venivano COPIOSAMENTE bocciati alle elementari e alle medie. Don Milani si chiedeva chi fossero i ragazzi bocciati.

La scuola in quegli anni faceva STRAGI di innocenti fin dalla prima elementare e don Milani dimostra che a essere bocciati sono i figli dei contadini e degli operai che, dopo le ripetute bocciature, prendevano in fretta la strada dei campi e delle fabbriche.

I “Pierini del dottore”, come vengono chiamati nel libro i ragazzi che nascono nelle famiglie dove c’è benessere e cultura, erano gli unici che riuscivano a finire la scuola dell’obbligo nei tempi prescritti (otto anni) per poi andare all’università.

Certo, cinquant’anni dopo, molto è cambiato. Le classi sociali non sono più semplici e nette come negli anni ’60, il boom economico ha aiutato ad uscire dalla povertà milioni di famiglie italiane. Oggi, nessuna maestra boccerebbe metà classe in prima elementare. Aggiungo che sono state scoperte anche le cause neurologiche per cui qualche ragazzo fa fatica a imparare (la dislessia), ma per molti versi l’ANALISI di don Milani – solo i figli di papà riescono a laurearsi – continua a dimostrarsi VERITIERA anche oggi.

In una ricerca dell’IRAPP pubblicata nel 2020 (“Istruzione e mobilità intergenerazionale: un’analisi dei dati italiani”) si conferma come anche adesso vi sia una RELAZIONE DIRETTA tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli. Per dirlo chiaro, la probabilità di laurearsi per un ragazzo dipende quasi esclusivamente dal fatto che uno dei genitori (meglio la madre, secondo alcune ricerche) è laureato. Altrimenti, sarà molto difficile per il figlio riuscire a prendere una laurea.

Cosa significa il fatto che si nota tuttora la persistenza di un tale dato? Significa che la scuola NON PROMUOVE la mobilità ascendente tra classi sociali, resa possibile con l’ottenimento di un buon titolo di studio. Oggi la scuola italiana sbatte ancora fuori (boccia…) i ragazzi che non sono figli di papà, invece di offrire loro la stessa OPPORTUNITA’ di continuare gli studi concessa solo ai figli dei laureati. La bocciatura è ancora lo strumento preferito per effettuare questa SELEZIONE, anche se adesso non si boccia più alle elementari e alle medie, ma SI BOCCIA ALLA GRANDE nelle scuole superiori: soprattutto negli istituti tecnici e professionali.

I ragazzi “scartati” dai licei (perchè non abbastanza “bravi”) vanno a finire in quelle che oggi sono scuole di serie B, dove poi continua la CARNEFICINA. Io che sono la madre di uno degli scarti (dislessici) dei licei milanesi finito in un istituto tecnico, posso testimoniarlo. Al quinto anno, nella classe di mio figlio c’erano 17 ragazzi, frutto della fusione di due classi di 30 (quindi di 60 ragazzi), di cui erano sopravvissuti appunto solo il 30%. Gli altri sono finiti chissà dove, forse appunto in una scuola professionale, percepite come più “facili” dei tecnici, ma dove (anche lì) le bocciature non si contano.

Non sono dati sparati a vanvera: ci sono le evidenze statistiche che in Italia si BOCCIA molto di più che nel resto dell’Europa. Con il risultato che l’abbandono scolastico nel nostro paese è fra i più alti in Europa: i ragazzi che lasciano la scuola prima di finire il ciclo dell’obbligo sono il 14% (contro un auspicato 10%), con il dato che sembra in forte aumento dopo la pandemia.

CILIEGINA SULLA TORTA (un po’ marcia) della scuola italiana è il numero dei laureati. In Italia è laureato solo il 29% dei ragazzi nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, contro il 41% della media europea. In Irlanda, per fare un esempio, sono laureati il 58% dei ragazzi in quella fascia d’età. Più del doppio che in Italia.

Secondo la ricerca dell’IRAPP, “La modesta quota di laureati che il sistema di istruzione italiano produce è già più che sufficiente a soddisfare la scarsa domanda di lavoro qualificato che il nostro sistema economico richiede. In altre parole, il fabbisogno di laureati del sistema economico è così modesto da non riuscire ad assorbire il pur esiguo numero di laureati”. Questo spiegherebbe anche il fatto che le famiglie non puntino sempre a far proseguire i figli nello studio. Non è detto che una laurea aiuti davvero a trovare lavoro.

Sembra di cattivo gusto parlare di COLPE quando si analizzano i cattivi risultati della scuola italiana, ma di colpe ve ne sono tante, così come sarebbe lunghissimo l’elenco dei colpevoli. Dico solo che negli ultimi anni la NARRAZIONE (parola ormai strausata e fastidiosa, ma chiara a tutti) è stata un po’ semplicistica: la scuola italiana va male perchè gli studenti sono diventati un branco di nullafacenti pigri, avvelenati dai social network e adesso anche da Netflix. Ma non solo, questi pessimi ragazzi sono protetti da genitori distratti e in fondo anche cafoni, pronti a tirar un pugno ai professori se qualcuno mette un brutto voto al figlio o magari gli dà una cattiva nota in condotta.

Certo, esistono ancora degli ottimi licei che selezionano il fior fiore degli studenti italiani di buona qualità, che finiranno per laurearsi e forse andarsene dall’Italia, alimentando la cosiddetta fuga dei cervelli. Ma il problema sono tutti gli altri: quelli che non ce la fanno, quelli che nei test dell’INVALSI si scoprono incapaci di comprendere correttamente un testo di italiano a sedici anni (dati della rilevazione del 2020). Ecco, è colpa loro se a scuola non hanno imparato niente? E’ colpa dei genitori che aleggiano sulla scuola – come si racconta che succeda – promettendo busse e vendetta a chi maltratta i loro figlioli? O forse qualche colpa – leggi responsabilità – ce l’hanno anche la scuola e gli stessi insegnanti? In fondo in classe ci sono loro, non i genitori…

Leggiamo cosa scriveva nel 1967 don Milani, insieme ai suoi allievi, sulle scuole elementari e medie degli anni ’60. La lettera è scritta in prima persona da uno dei ragazzi della scuola (che era una scuola parrocchiale di montagna) alla professoressa che lo aveva bocciato due volte all’esame da privatista per ottenere la licenza media: “Alle elementari lo stato mi offrì una scuola di seconda categoria… E’ il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini”.

Sfido chiunque a negare che in Italia esistano ancora scuole di seconda categoria, solo che le “categorie” si sono spostate più avanti: nella scuola secondaria superiore. Tra licei e istituti tecnici e professionale ci sono distanze siderali: difficile passare per la cruna di un ago (laurearsi) dopo essere stato bocciato un paio di volte lungo i percorsi accidentati di chi non è riuscito a entrare in una delle “buone” scuole italiane (dove tra l’altro si boccia poco) e finisce in un tecnico o un professionale.

Rileggere oggi “Lettera a una professoressa” significa riscoprire come VERE molte delle affermazioni di don Milani, anche se sarebbe corretto riferirle alle scuole superiori. Gli istituti tecnici e professionali sono scuole di seconda categoria, per chi non è destinato a laurearsi, dove vengono ANCORA bocciati i figli dei poveri.

Il libro di don Milani è dedicato ai genitori, perchè si devono “organizzare”, com’è scritto nella dedica, così da salvare i loro figli dalle cattive scuole dove sono finiti. Oggi purtroppo si dà nuovamente la COLPA alle famiglie dello scarso rendimento scolastico dei loro figli, e non alla scuola in cui sono capitati. Don Lorenzo non avrebbe mai fatto un simile errore.

UNA MAMMA ITALIANA NON BUSSA MAI

Le mamme italiane hanno caratteristiche sempiterne. Quando sono al mare, chiamano i figli che stanno facendo il bagno a cinquanta metri dalla riva, urlando a squarciagola il loro nome, senza paura di disturbare nessuno: “TORNA A RIVA, SUBITO!”.

Le mamme italiane, quando hanno preparato il pranzo o la cena, strillano con voce ferma e altissima: “E’ PRONTO!”, e se il figlio non arriva subito a tavola, rincarano la dose: “HAI CAPITO CHE E’ PRONTO?!”.

Si potrebbe sostenere che la madre italiana sia priva di quei soft skill descritti dagli psicologi come necessari per mantenere in buona salute una relazione. La mamma italiana infatti si incazza spesso: se c’è bisogno, fa una bella scenata anche al figlio maggiorenne e poi sbatte fragorosamente la porta di camera sua, manco fossimo in una commedia di Eduardo. 

Vorrei aggiungere un’altra caratteristica tipica della madre italiana: quando deve entrare nella stanza del figlio, anche se la porta è chiusa, non bussa nè tanto meno aspetta la risposta del ragazzo, ma abbassa la maniglia con forza ed entra urlando una delle solite cose: “E’ PRONTO! NON HAI DATO DA MANGIARE AL GATTO! NON HAI PORTATO GIÙ L’IMMONDIZIA!”.

Orbene, mio figlio ha vent’anni ma non ho modificato nessuno dei comportamenti sopra elencati, con il risultato che mi è successo di tornare a casa e, senza pensarci due volte, aprire di botto la porta di camera sua.

L’ho trovato per ben tre volte nudo, intento con la fidanzata in pratiche erotiche, mentre io imbarazzata (ma neanche così tanto) richiudevo subito la porta. In una di queste occasioni, mio figlio, sempre nudo come un verme, si è addirittura buttato addosso alla fidanzata, cercando di coprirne istintivamente la vista da un mostro invadente come me. 

E così, qualche giorno fa, è comparsa una chiave nella sua porta. Non so dove l’abbia trovata, ma ogni volta che la fidanzata si presenta a casa nostro, sento il rumore della chiave che gira nella toppa. 

Per carità, avevo capito che dovevo bussare se tornavo a casa e non sapevo con chi fosse, ma l’ISTINTO DELLA MADRE ITALIANA è quello di non bussare MAI.

E così il poverino si è dovuto difendere da me con quella che specialisti chiamano “Sicurezza fisica”, ovvero vere e proprie barriere all’ingresso.

Mi aspetto presto l’installazione di un antifurto perimetrale in camera sua, che squilli appena mi avvicino alla porta per poi urlare uno dei soliti: “E’ PRONTO!”.
La mia manina tende sempre  a afferrare istintivamente quella maniglia e a spingerla con forza verso il basso, per poi penetrare come una falange macedone nella stanza del mio malcapitato figliolo. 

“NON LO FACCIO PIÙ’, LO GIURO”, mi dico, ma so già che non è vero…

TUTTA COLPA DEL MIO PANETTIERE

Ho fatto questa foto al mio panettiere il 26 marzo 2020. Era iniziato da poco il lockdown funerario – nessun rumore, silenzio totale in città – che sembrava uscito da una serie di Netflix. La pandemia dei film catastrofisti era entrata nelle nostre vite – REALI! – e non si sapeva se saremmo tutti morti il giorno dopo rantolando in un Pronto Soccorso di Bergamo e Milano.

Era vietato uscire di casa, se non per andare UNA VOLTA alla settimana a fare la spesa. Non eravamo ancora così sicuri che non ci sarebbero state interruzioni nella catena dei rifornimenti alimentari. I VIVERI potevano finire, proprio come nelle serie su Netflix. Mi ero procurata qualche scatola di tonno e sardine per sopravvivere, nel caso in cui i supermercati fossero stati assaltati da famiglie affamate (o con la PAURA IMMOTIVATA della fame, peggio ancora).

In quelle giornate fosche e cupe, uscivo quatta tutti i giorni verso mezzogiorno e mezza per andare da Davide, il mio panettiere, l’unico essere umano con il quale potevo parlare (oltre a mio figlio, chiuso in camera sua). Entravamo uno alla volta in negozio: aspettavo composta il mio turno e poi mi infilavo dentro sapendo che avevo solo pochi minuti per scambiare due parole.
Ecco, Davide è un ragazzo molto intelligente e osservava tutto quello che succedeva. Mi piaceva chiacchierare in fretta per quei pochi minuti, anche perchè era un ESSERE UMANO, vivo, col quale potevo interloquire di persona e non su Zoom.

E così, ogni giorno, compravo pane, panini, sfilatini, sfogliatelle, pagnotte e ogni altro ben di Dio in esposizione, guidata anche da una specie di istinto alimentare alla conservazione. Poi tornavo a casa col bottino, ne azzannavo una discreta dose e surgelavo quello che non passava dalla mia glottide intasata.

Sembravo la signora Pina, la moglie di Fantozzi quando si innamora di Cecco, il nipote del fornaio, e riempie gli armadi di casa col pane. Era impossibile resistere alle sfogliatelle di mais e quelle integrali, esposte sempre in bella vista sopra il tavolo da pranzo. E in due mesi ero diventata una palla di LARDO (lardo e pane), che ha ulteriormente aumentato le sue dimensioni dopo il secondo (e non meno orribile) lockdown.

Da allora sono riuscita a perdere MOLTI chili. Sono tornata in piscina, ho fatto le vacanze, sono andata al ristorante.

POTERE DEI VACCINI? Direi di sì, di cos’altro se no?
Francamente non capisco perché fare tante storie per un’iniezione antinfluenzale (il Covid è solo un nuovo tipo di influenza) che hanno già fatto SEI MILARDI DI PERSONE. Perchè perdere il lavoro, mettere a soqquadro le famiglie, bloccare i porti, eccetera per non fare una PUNTURA?

Rob de matt, come dicono a Milano…

P.S. La panetteria Peter Pane è in Via Vigevano 25, a Milano.

DDL ZAN: NESSUNO SA VERAMENTE DI COSA PARLI

Ormai la discussione sul benedetto DDL Zan è finita su un binario morto, grazie a Salvini e la Meloni che dicono soprattutto una cosa: “CHI SE NE FREGA DI QUESTE STRONZATE POCO IMPORTANTI!“.

Salvini e la Meloni non hanno il coraggio di entrare in discussione sugli argomenti trattati dalla futura legge Zan, che riguardano sostanzialmente la libertà di scegliere il sesso del proprio partner e addirittura di appartenere a un sesso DIVERSO da quello a cui siamo stati assegnati (secondo natura).

Non sarebbe facile contestare una legge che in fondo riguarda delle LIBERTA’ CIVILI, ovvero diritti inalienabili degli individui. E allora che cosa fanno Salvini e la Meloni? Dicono che con i problemi che oggi ci sono in Italia, non si dovrebbe PERDERE TEMPO a discutere di queste stupidaggini: il tempo è denaro e non bisogna sprecarlo a parlare di cazzate.

Così facendo, Salvini e la Meloni ottengono due risultati. Il primo: che si parli di loro, perchè tengono bloccata una legge già approvata alla Camera. Il secondo: lanciano un messaggio indiretto al loro elettorato di DESTRA: “A noi i FROCI, le LESBICHE e i TRASGENDER non ci piacciono.
Perchè mai dovremmo fare una legge che li difende?”.
Ma se ci fossero per davvero cose più serie della legge Zan, perchè non approvarla subito, per poi passare alle cose SERIE?

Ma questa battaglia di DESTRA – Chi se ne frega della legge Zan! – piace agli elettori di Salvini e la Meloni, che sono tutti tradizionalisti, non esattamente giovanissimi e poco interessati al rispetto delle idee degli altri.

Il “Chi se ne frega” di Salvini e la Meloni è furbissimo: non potrebbero mai dire di essere contrari a una legge che in fondo riguarda le libertà individuali. Dicono solo che sono COSE POCO IMPORTANTI.
Quei due passeranno l’estate in campagna elettorale, solleticando i loro elettori: “Queste cazzate del DDL ZAN le lasciamo alla sinistra…”.
E così si faranno pubblicità aggratisse.
In modo assolutamente consapevole e cinico.
Tenendo bloccata una legge.
Mica stupidi quei due…

1Elda Stefanini

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LA VARIANTE DELTA DELL’ANIMO UMANO

La storia della variante Delta (che potrebbe dare origine a una possibile Quarta Ondata) sta smuovendo un po’ gli animi di tutti, rivelando preziosi frammenti di inconscio: cerco qui (molto arbitrariamente) di sistematizzarli.

Gli ipocondriaci che si sono vaccinati, per esempio, invece di pensare: “Come sono fortunato, se mi prendo la variante Delta, me la cavo SOLO con un raffreddore”, hanno adesso un nuovo motivo per avere paura. 
Temono di venire “in contatto” con un non vaccinato che li possa impestare (sempre con ‘sta variante Delta). 
E quindi sono ancora più attenti di prima: FP2 al supermercato, ma anche quando incontrano un gruppo di ragazzi (presumibilmente non vaccinati), plausibili portatori del virus.

Ecco, dopo aver osservato BENE questo gruppo, ho capito che si potrebbe dividere il mondo a metà.
Tra quelli che hanno soprattutto PAURA per se stessi (e nulla li potrà tranquillizzare, neanche la famosa terza dose del vaccino contro le varianti), e quelli che più laicamente pensano un po’ anche agli ALTRI e si sono fatti il vaccino per mettere al riparo la società nel suo insieme dal rischio di nuovi picchi epidemici e possibili nuovi lockdown.
Questa seconda categoria mi sembra meno spaventata dal futuro, fatta da persone pronte ad ascoltare altre voci sulla pandemia che non siano quelle dei beccamorti che predicono sventure. Sono quindi individui meno ansiosi e generalmente più felici dei primi.

Vaccinarsi è un atto di generosità anche verso gli altri, se fatto in questo spirito, molto utile a SPOSTARE L’ATTENZIONE DA SE STESSI e quindi a ridurre la propria ansia. 
Gli iperansiosi invece – li riconosci subito – pensano solo a loro stessi, cupamente, in genere, senza speranza nel futuro.

E adesso una buona parola per i No-Vax che temono degli indimostrati effetti collaterali del vaccino e si potranno ammalare a settembre, riportando l’economia in uno stato di pre-morte. Che cosa farebbero i No-Vax di fronte a malattie che richiedono cure terribili come la CHEMIOTERAPIA, che ha ben altri effetti collaterali di un vaccino?
Non si curerebbero, spaventati dai rischi che comporta l’assunzione di quei farmaci? O si curerebbero lo stesso, perchè nessuno vuole rimetterci la pelle senza battagliare un po’ contro un tumore?

Io sono convinta che i No-Vax farebbero la chemioterapia, perchè in fondo non sono così diversi dagli ipocondriaci. Sono anche loro eccessivamente centrati su di sé, sugli effetti secondari su di sé di farmaci come i vaccini che sono un bicchiere d’acqua fresca rispetto ai chemioterapici. Ma qualora si trovassero di fronte a una loro MALATTIA probabilmente diventerebbero un po’ meno SEVERI nel giudicare le case farmaceutiche e si curerebbero.

Per concludere, se invece i vaccini venissero considerati come farmaci preventivi per i GRUPPI SOCIALI intesi nel loro complesso, allora un piccolo sforzo potrebbe essere fatto: tutti ci dovremmo vaccinare. Esistono dati, statistiche, serie storiche, basta leggerle: i vaccini hanno già salvato molte volte l’UMANITÀ.
Lo faranno anche adesso. 
La SFIGA è non averli i vaccini, quelli buoni, fatti dai paesi occidentali dove i dati delle ricerche sono stati pubblicati, dove si sa TUTTO.
La SFIGA è avere i vaccini cinesi che non funzionano. Allora sì, posso capire che nessuno si vorrà mai più vaccinare, dopo aver fatto il Sinovac che non protegge dalla malattia.

Bene, mi godrò una bella estate in vacanza, nella solita Croazia, sapendo però di essere fortunata (perchè sono vaccinata). Spero che siano sempre di più quelli che vogliono sentirsi fortunati…




 

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Saman e le altre

Difficile guardare la faccina curiosa di Saman senza pensare: “Quanta vita ti sei persa, povera ragazza, e quanto ti sarebbe piaciuta!”.
Stanno ancora cercando il suo corpo nelle serre dove lavoravano il padre, lo zio e il cugino che l’hanno uccisa perchè si rifiutava di accettare un matrimonio combinato con un uomo scelto dai genitori.

Ecco, adesso dirò una cosa considerata di DESTRA. I parenti di Saman sono pachistani e hanno applicato un vecchio principio considerato illegale anche in Pakistan, ma ancora molto diffuso, secondo cui è COSA BUONA E GIUSTA uccidere una ragazza che si rifiuta di sposare l’uomo scelto per lei dalla famiglia.

Il “delitto d’onore” è vietato anche in Pakistan, per carità, ma è stato praticato dai parenti di Saman in Italia senza nessuna PAURA delle possibili conseguenze. Si vedono le immagini dello zio e dei cugini di Saman con le pale in mano che ritornano dal presunto luogo della sepoltura: sembrano tranquilli, in pace col mondo e con la loro coscienza.
Se l’hanno ammazzata così, a sangue freddo, è perchè pensavano che nessuno avrebbe PARLATO. Che tutti sarebbero stati OMERTOSI. E non avrebbero mai denunciato la scomparsa di quella povera ragazzina e loro l’avrebbero fatta franca. Non sappiamo quindi se ci sono delle altre Saman sotterrate da qualche altre parta in Italia: potrebbe non essere l’unica…

Ecco, la cosa di DESTRA che voglio dire è questa: le persone di altri paesi che vengono a vivere in Italia devono aver ben chiaro che in Italia non si applicano principi di legge medievali vietati anche nei loro paesi di origine. Non ci devono essere dubbi sul fatto che vivere in Europa significa accettare di vivere come degli europei. Punto. Non ci sono vie di mezzo. Questo principio era chiarissimo per Saman e per il giovane fidanzato (pachistano, ma scelto da lei) che ha denunciato la sua scomparsa. Senza di lui, non avremmo mai saputo che Saman era stata uccisa.
In Italia, insomma, si vive da italiani. Liberi di praticare il proprio credo religioso, ma nel rispetto delle leggi italiane.
E chi vive in Italia – tutti – deve avere PAURA delle conseguenze che derivano dal non applicare le nostre leggi.

Ecco, a me non sembra così di DESTRA come principio, ma adesso ne esporrò un altro che invece è considerato di SINISTRA. Saman era nata in Italia, ma non era italiana. Era ancora pachistana, perchè secondo la legge italiana si può diventare italiani, se i tuoi genitori sono stranieri e tu sei nato in Italia, solo dopo aver compiuto diciott’anni.
Ma prendere la cittadinanza a diciott’anni è un processo molto complesso, reso ancora più difficile dal fatto che per ottenerla bisogna ottemperare a requisiti burocratici complicatissimi (siamo in Italia…).
Sembra che Saman fosse tornata a casa dei genitori (dai quali era scappata per evitare il matrimonio combinato) nella speranza che il padre la sostenesse nel processo per diventare cittadina italiana. Senza l’appoggio della famiglia, non sarebbe riuscita a portare a termine la richiesta della cittadinanza.

Ed ecco che arrivo alla cosa considerata di SINISTRA: per quale stupido motivo non si vuole considerare italiani – a tutti gli effetti – dei ragazzi nati in Italia, che vivono insieme ai nostri figli, parlano la nostra stessa lingua e che tutti desideriamo fortemente si sentano italiani e europei, visto che sono loro il nostro futuro?

Com’è possibile offrire loro minori diritti che non ai nostri figli? E soprattutto come si può rendere difficile il processo di acquisizione della cittadinanza a RAGAZZI che devono vedere gli adulti come delle brave persone disposti a supportarli, e non come degli stronzi pronti a rendergli la vita difficile?
Qualcuno crede veramente che i nostri figli (figli di italiani) vorrebbero che i loro amici (figli di stranieri) facciano fatica ad acquisire gli stessi diritti di cui sono dotati anche loro?

Quando Salvini SVENTOLA I ROSARI e poi dice di essere contrario alla cittadinanza per chi nasce in Italia ma è figlio di stranieri, non si comporta da UOMO, ma da da bambino cattivo, perchè gli adulti non devono prendersela con dei ragazzini per il semplice fatto che il loro SANGUE non è italiano (non menziono chi parlava di “sangue”, ma non è facile riconoscerlo).

Ecco, direi che ho detto tutto. Sono di DESTRA o di SINISTRA? Boh…


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Ode a Tina Venturi, divina maestra di tutto

Se sapessi scrivere poesie, avrei composto un poema in onore di Tina, alla quale dedico invece una più modesta ode in prosa. Provo nei suoi confronti infinita gratitudine per tutto quello che mi ha insegnato, e bisogna dire che l’elenco dei suoi insegnamenti è piuttosto lungo.

Il punto è proprio questo: Tina sa fare quasi tutto. Sa recitare, doppiare, speakerare, parlare in pubblico, scrivere, editare, leggere e soprattutto sa analizzare i testi letterari solo come la mia insegnante del liceo, Gabriella Untersteiner, sapeva fare. Ma non finisce qui: Tina sa insegnare tutto quello che sa, e siccome sa tanto, mentre ti insegna qualcosa, tu ne impari anche un altro paio. Proprio mentre ti sembra che stai solo imparando a leggere un testo letterario, imparerai anche a “editarlo” con la voce. Perchè Tina mi ha insegnato che rileggere a voce alta un proprio testo è il migliore degli editing che si possano fare.
Ma vado con ordine e racconto tutta la storia.

Ho scoperto quasi per caso che esisteva un corso di lettura ad alta voce, tenuto da Tina che allora non conoscevo. Ecco, si era accesa una lampadina: cosa sarebbe successo se ci avessi provato anch’io? Ho passato la vita a combattere contro una balbuzie che mi ha tormentato fino ai trent’anni e ritorna quando sono nervosa, e ho anche una bella diagnosi di dislessia. Se un testo non è scritto a caratteri grossi, faccio fatica ad affrontarlo, mi stanco subito.
Sarei stata una schiappa, insomma, a leggere a voce alta, ma all’improvviso ho capito che volevo sapere COME SI FA!

E così ho conosciuto Tina, in una sera milanese prima che iniziasse il lockdown dello scorso marzo. Sono entrata nella stanza dove si sarebbe svolto il corso e l’ho vista. SIMPATICA, che faccia simpatica che aveva! Non sembrava un’intellettuale da salotto, come mi sarei aspettata, visto l’argomento del corso. Perchè Tina ha un’altra grande qualità: nasconde le infinite cose che sa (e che sa fare) sotto un’aria da svampita che produce un effetto ilare in chi la osserva. Tina sembra appena scesa da un’astronave e si guarda intorno curiosa come un marziano atterrato a Roma, a Villa Borghese. Ha sempre lo smalto, il rossetto, anelli, braccialetti, monili e altri orpelli, e poi sa fare l’analisi perfetta di un testo di Whitman o della Dickinson, e intanto sorride e ammicca come se ti stesse spiegando come si prepara la crostata al cioccolato e pere.

Insomma, Tina è serissima in tutto quello che fa, ma veleggia per il mondo con una lievità da farfallina adolescente che ha appena scoperto l’esistenza dei fiori e PLUF!, infila il suo nasino contento tra le corolle.
Forse è proprio questa dote della leggerezza che permette a Tina di spiegare ai suoi allievi come si legge (ad altra voce) o si recita un testo. Non ho mai provato fatica durante le sue lezioni, anzi il tempo passava troppo in fretta mentre noi allieve (eravamo tutte donne) scoprivamo qualcosa di noi stesse mentre leggevamo ad alta voce.

Incredibile infatti come la sola esperienza di leggere un testo davanti agli altri riveli aspetti di te che non conoscevi. La timidezza, per esempio, diventa letteralmente esplosiva se devi affrontare una lettura in pubblico e la voce si fa sottile e tremolante (non era il mio caso…). Leggere a voce alta davanti agli altri è una specie di psicoterapia di gruppo, dove scopri delle parti di te che tenevi nascoste ma devi guardare in faccia per trovare la tua voce. Ognuno di noi può trovare la sua voce (questo l’ho imparato da Tina), anche se si tratta di fare un viaggio in profondità (dentro di noi ma anche nei testi letterari) che Tina sa guidare con una mano delicatissima ma decisa.

Nelle serate passate con Tina ho scoperto che l’unico modo per saper leggere un testo è averlo analizzato a fondo, assimilato, gustato e fatto risuonare nelle nostre cavità emotive, prima di poterlo finalmente DIRE. E poi bisogna imparare a SENTIRE come diciamo il testo, che in realtà è DIFFICILISSIMO. Noi siamo così abituati a sentire la nostra voce che non riconosciamo le cantilene di cui siamo ignari, e che in realtà tolgono ogni naturalezza alle nostre letture a voce alta. Tina è bravissima a farti SENTIRE LA TUA VOCE: sa riprodurre gli errori non solo di dizione ma anche di intonazione che facciamo senza rendercene conto.

Inutile dire che solo la sua gentilezza rende possibile fare un lavoro su di sé come quello necessario per leggere un testo. Un uomo o una donna boriosi (nella vita) sono boriosi nella lettura, chi invece ha poco coraggio e un carattere esitante, ha una lettura sgradevolmente indecisa, così come la superficialità (e la mancata sintonia emotiva) nella comprensione di un testo ha come effetto collaterale quello di una lettura piatta e superficiale.

Un altro dei benefici effetti del corso di lettura che ho fatto con Tina è stato infatti quello di imparare a giudicare la qualità della lettura degli ALTRI (oltre che la qualità non proprio eccezionale della mia…). Infatti, così come per imparare ad ascoltare la musica classica bisogna ascoltarne tanta (e farsi l’orecchio), anche per valutare la qualità di una lettura, bisogna allenare la capacità di ascolto. E in questo Tina è stata bravissima: mi ha REGALATO (perchè questo è uno di quei regali collaterali di cui parlavo prima) l’abilità ad ascoltare le voci degli altri con una profondità che non conoscevo. So smascherare subito i tromboni e i cattivi lettori, quando invece prima mi sembravano solo un po’ eccessivi nel declamare prosa e versi, adesso invece capisco subito quali sono i punti deboli di una cattiva lettura.

Ma Tina mi ha insegnato un’altra grandissima lezione: oggi so editare (correggere) i miei testi, leggendoli a voce alta. Se li leggo con l’INTONAZIONE di una lettura ad alta voce, scopro non solo quello che suona MALE, ma anche gli errori (refusi) che passavano totalmente inosservati quando facevo solo le letture a mente.
Ecco, questo è un consiglio per tutti quelli che scrivono: imparate a leggere a voce alta i vostri testi, magari dopo aver fatto un corso di lettura a voce alta, perchè tutto quello che SUONA MALE quando leggete è sicuramente SCRITTO MALE.

Ogni testo scritto è un testo che può essere letto a voce alta e vi assicuro che un testo con degli intoppi grammaticali, una brutta punteggiatura, troppe subordinate e altri orrori del genere sarà ORRIBILE se lo leggete a voce alta. Non abbiate paura di sembrare pazzi quando declamate le vostre opere letterarie, perchè se vi siete fatti un po’ di orecchio, saprete capire quando bisogna correggere un periodo venuto male.

Bene, potrei continuare con l’ode a Tina, ma la chiudo qui ricordando che Tina insegna anche a scrivere, recitare, parlare in pubblico. Ah, dimenticavo: è laureata in teologia e va pazza per i gatti che seppellisce (quando trapassano) nel suo giardino. Anche i gatti della Tina sono straordinari come lei e ti guardano negli occhi come se volessero mettersi a leggere le poesie di Ada Merini, ma non ce la fanno per un problema dell’apparato fonetico (anche se tu capisci, guardandoli negli occhi, che lo vorrebbero fare per davvero).

Ordunque, qui ci vuole il solito passaggio sul libro “Scrivi la tua voce 2.0” che Tina ha appena pubblicato con una sua amica, Giovanna Senatore, una specie di OPERA MONUMENTALE su come leggere, usare la voce e scrivere sul web.
E poi ecco anche il sito di Tina, se qualcuno volesse scoprire tutte le cose che fa.

Per concludere, Tina è una macedonia vivente di grandi qualità in una salsa mista di leggerezza e generosità. Affidatevi a lei, ne vale la pena. Per cosa? Per tutto…


La paura della morte in Occidente

Credo di aver visto il primo morto della mia vita a trent’anni, in India. Stavo passeggiando con un’amica per le strade di una cittadina del Kerala, quando qualcuno era uscito da un cortile per invitarci a quella che sembrava una festa. Donne e uomini con l’aria allegrotta mangiavano insieme in un cortile, qualcuno suonava uno di quei bizzarri strumenti indiani a corde. Eravamo entrate: ci avevano offerto cibo e caramelle. Poi la mia amica era stata invitata da una delle donne a entrare in casa. Dopo neanche un minuto era scappata fuori urlando: “C’è un morto!”.
Eravamo incappate in un funerale, non così diverso dai nostri se non per un piccolo dettaglio: il defunto non era nascosto in una bara sigillata e chiusa, ma esposto all’aria di una stanza, perfettamente vestito, sdraiato per terra su un materassino.

La moglie e le altre donne della famiglia lo vegliavano chiacchierando
. Ci avevano indicato a segni di sederci insieme a loro: la veglia funebre era un affare per signore, come peraltro è sempre stato in Italia fino all’avvento del funerale moderno, quello che si chiude in fretta e furia al crematorio dell’'”Outlet del funerale”, come si legge nelle pubblicità in metropolitana: “Abbiamo semplificato il vecchio modo di gestire un funerale rendendolo semplice, efficace ed economico”.
Ero rimasta in compagnia delle prefiche indiane fino a notte fondissima, poi avevo ceduto alla stanchezza, ma la tappa successiva del viaggio era stata Varanasi: la città dove tutti gli indiani vorrebbero morire e poi farsi cremare, perché secondo la religione induista (di cui non so nulla), chi muore e viene cremato sulla riva occidentale del Gange a Varanasi, potrà sfuggire al ciclo (malefico) della reincarnazione.

A Varanasi avevo assistito per qualche giorno all’arrivo dei cadaveri trasportati in riva al fiume per essere bruciati sulle pire scoppiettanti, mentre sentivo lo strano odore di grigliata che saliva dalla piattaforma dove avvenivano le cremazioni. La morte profumava (o puzzava) come le grigliate della domenica: ricordo ancora la nausea provata nelle prime ore, poi era passata anche quella leggera repulsione verso l’olezzo a cui nessuno sembrava fare caso nella città dei funerali perenni. Il fuoco bruciava dalla mattina alla sera ed io avevo pensato: “Ecco, mi sono “abituata” alla morte, perchè l’ho vista in faccia. Adesso sono pronta a morire”.

Erano i pensieri svitati di una trentenne che credeva di avere illuminazioni permanenti dopo una vacanza in India, adesso non credo più di essere pronta a trapassare mentre invece sono sempre più convinta che gli esseri umani riescano a prendere in considerazione la morte solo come se fosse un affare degli altri. Per tutta la vita, guardiamo morire gli altri e solo quando arriverà il nostro turno di affacciarci sul buio sconosciuto della fine dell’attività cerebrale, allora valuteremo la morte come una possibilità REALE. Ma prima di quel momento, noi clienti occidentali dell’”Outlet del Funerale” ormai consideriamo la morte come un evento che in fondo non ci riguarda più di tanto e può essere rimandato sine die con buoni medici, un po’ di palestra e un dietologo di fiducia che ci illumini la strada per l’eternità in un mondo senza colesterolo e con la glicemia bassa.

Bene, questa lunga premessa per arrivare al Covid. Settantacinque anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la morte è tornata ad essere un evento probabile anche in assenza di tutti i fattori di rischio ineludibili, primo fra tutti un’età almeno centenaria, seguito da malattie che oggi speriamo di poter curare e non ci spaventano più come pochi anni fa. Non solo la morte tenuta nascosta è diventata la temuta compagna di vita degli anziani e di chi soffre di patologie gravi, suscettibili a dar corso a un’evoluzione maligna del virus, ma la morte si è presentata a mietere le vite numerose anche dei giovani che abitano nei posti sbagliati del mondo: dal Brasile a Harlem, quartiere di New York, perché la malattia colpisce le comunità che hanno un più difficile accesso alle cure. La paura di morire ormai è entrata nelle case di tutti e la morte viene ormai nominata milioni di volte al giorno da un’umanità spaventata dalla propria riscoperta plausibile mortalità.

L’applicazione di misure severe come i lockdown messi in atto dagli stati si è resa necessaria anche per rispondere alla richiesta collettiva di “non morire”. Quando Boris Johnson ha proposto lo scorso anno la ricetta di un’immunità di gregge che avrebbe provocato molte morti, il mondo intero si è ribellato di fronte alla crudeltà della sua proposta. Nessun leader politico oggi potrebbe sperare di sopravvivere senza promettere la sconfitta dell’epidemia e quindi della morte, vedi il caso di Trump che ha perso le elezioni anche per aver sottostimato la paura del virus da parte degli stessi americani. La scelta di sottostimare i rischi epidemici, il rifiuto machista della mascherina, l’atteggiamento spavaldo e poco cauto nei confronti delle persone che gli erano vicine (con tanto di cluster di positivi alla Casa Bianca) gli sono certamente costati molti voti.

I cittadini oggi chiedono agli stati di diventare i garanti della loro vita. I leader politici intenzionati a durare dovranno offrire ai loro elettori la promessa che la morte tornerà a essere quell’evento scongiurabile di prima della pandemia, quando noi occidentali pensavamo che bastava fare ginnastica e mangiare sano per vivere appunto fino a cent’anni.
Credo che la severità di alcune misure di quarantena si giustifichino proprio con il fatto che oggi per i leader politici la VITA dei cittadini viene prima della loro sopravvivenza economica, danneggiata irreversibilmente dalle misure messe in atto contro il virus.

Persino le paure e le proteste diffuse contro i possibili effetti collaterali dei vaccini, prima fra tutti quello di Astra-Zeneca, pertengono alla stessa visione: i cittadini ritengono di avere il diritto di essere vaccinati con un farmaco SENZA effetti collaterali. I leader politici che propugnassero l’uso di vaccini ritenuti non perfettamente sicuri verranno ritenuti direttamente responsabili delle possibili morti dovute agli effetti collaterali. Da qui, le nuove linee guida europee all’utilizzo di Astra-Zeneca solo per gli ultra-sessantenni o addirittura la scelta di alcuni paesi di non utilizzarlo più.

La promessa della VITA – a tutti i costi, a ogni età, contro qualsiasi malattia – sta diventando un ingrediente necessario del nuovo marketing politico che le élite dovranno praticare se vogliono restare al potere in anni in cui la paura di morire è tornata prepotente a colpire i paesi occidentali.

Sento montare il nervosismo dei topi in gabbia…

Ci sono esperimenti che dimostrano che i topi, come gli essere umani, se rimangono a lungo chiusi da soli in una gabbia, diventano molto aggressivi ma anche paurosi. Ma non c’è bisogno di tirare in ballo i topi per sapere che l’isolamento fa male. Non per nulla, viene ancora utilizzato nelle prigioni come punizione, in particolare in quelle americane. C’è un documentario doloroso e geniale prodotto da Jay-Z – the Kalief Browther Story – sul suicidio del ragazzo del titolo, imprigionato per un crimine che non ha commesso. Kalief ha passato 800 giorni rinchiuso in una cella di isolamento e si è suicidato due anni dopo essere uscito dalla prigione. L’isolamento prolungato ha quindi effetti devastanti: aggressività, ansia, pensieri (azioni) suicidali.

Non ci vuol molto per capire dove voglio arrivare… L’Italia ha scelto subito (un anno fa) di entrare in un lockdown durissimo che non ci ha portato ad avere risultati sorprendenti, ma al contrario abbiamo avuto un numero di morti (in percentuale) fra i più alti del mondo. L’attuale coprifuoco è in vigore da ottobre, mentre pare in arrivo la famosa “terza ondata”. Stiamo aspettando il vaccino (se fosse per me, me lo farei questa sera stessa!), ma la strada sembra lunga.

Ecco, in tempi così grami, mi piacerebbe che succedessero le seguenti cose. Il Ministro Speranza invece di presentarsi con quel suo faccino aggrottato che gli dà un’aria da mosca pensierosa dovrebbe finalmente sorridere. E dire qualcosa del tipo: “Mi dispiace moltissimo per la vita di merda che stanno facendo gli italiani e li ringrazio per la loro resistenza. Siete stati bravissimi e scusateci per i nostri errori!”. Dopo di che, vorrei sapere in quali date verremo vaccinati. Punto. Invece continuiamo ad assistere a questa orribile pantomima secondo la quale noi italiani siamo dei discolacci da sgridare perchè non siamo stati bravi come avremmo dovuto. Con il risultato che mi viene voglia di prendere una di quelle retine che si usano per schiacciare le mosche e sbatterla in testa al nostro Ministro della Salute, perchè manca di empatia, simpatia, calore e comprensione per un popolo chiuso in casa da mesi, senza che si sia levato un solo lamento. (I fenomeni della movida a Milano hanno riguardato qualche migliaia di persone e sono dipesi da ERRORI nella gestione dell’ordine pubblico.)

Poi mi piacerebbe usare quello stesso retino da mosche per prendere a retinate tutti quelli che si lamentano del fatto che le REGOLE non sono MAI applicate a dovere. Sono quelli che ti guardano male per strada se hai la mascherina appena sotto il naso (e poi ci sono persone sedute al bar senza mascherina che prendono l’aperitivo). Quelli che se per caso ti avvicini (inavvertitamente, come capitava di fare prima) si spostano di scatto come per dire: “Ehi, attenta alle distanze: così potresti infettarmi!”. Quelli che pensano che TU SEI UN VIRUS dal quale loro si devono difendere in modo plateale e osceno.

Potrei citare vari episodi di questo genere, ce ne sono moltissimi. Credo che in un momento così difficile, chi è anche solo minimamente uno stronzo ne approfitti per scatenare la sua aggressività sugli altri topi in gabbia che invece hanno mantenuto un po’ di dignità e si sorridono ancora tra di loro. Ci si può sorridere anche da sotto la mascherina, anche perchè siamo tutti stufi e nessuno si augura che questo orrore duri un momento di più, visto che i vaccini sono in arrivo e con loro la nostra liberazione.

Ecco, insomma, sono stufa anch’io. E comincio anch’io ad avere dei meschini sentimenti da topo in gabbia.

P.S. Se sento ancora Ricciardi che invoca un lockdown TOTALE, come fa da un anno, appena qualcuno gli porge un microfono, aziono anche con lui la mia retina da mosche. Fatelo tacere, per favore…