Archivio mensile:marzo 2013

In morte digitale di un’amica

Un’amica è morta, poco tempo fa. Fumava troppo e non ce l’ha fatta.
L’abbiamo seguita su Facebook, mentre faceva la chemio.
Prima stava benino, sorrideva, era solo un po’ gonfia per il cortisone.

Le piaceva l’idea di non andare a lavorare. Era un’impiegata, come me.
Avere il cancro le permetteva di non andare in ufficio, e la cosa la rendeva contenta.
Anzi felicissima. Ci sono delle foto in cui sorride, durante la chemio, allegra come Dio solo sa cosa.

Poi le cellule sono impazzite. Lei stava sempre peggio e ha messo di postare su Facebook. Era un brutto segno, ho pensato, se non postava più niente su Facebook.
Poi le sue amiche hanno cominciato a postare loro delle foto nel suo Diario, con i foularoni per coprire i capelli che non c’erano più.

E poi, alla fine, se n’è andata. Cazzo, com’era simpatica. Chi la conoscerà mai più una così simpatica. Lucida e geniale fino all’ultimo secondo. Difficile lasciare andare chi è morto vivo.

Ma le sue amiche non ce l’hanno fatta. Non potevano credere che la Cri non rispondesse più alle email, non postasse su Facebook,  non facesse i +1 ai loro post.

E si sono messe a farlo loro, al posto suo. Tutti i giorni c’è qualcuno che passa sul suo Diario, e le lascia un saluto, o posta una foto dove c’è lei, bellissima, dieci anni fa. Qualcuno ha scritto: “Teniamolo vivo questo posto!”. Il Diario su Facebook. Il suo cimitero digitale, dove la Cri continua a vivere, digitalmente, bella come una volta, e dove puoi ancora leggere i suoi vecchi post, vedere le foto di quando stava bene e sorrideva a tutti, parlava con tutti, rispondeva a tutti.

Come si fa a morire, oggi, quando ti lasci dietro una traccia digitale che continuerà a girare su qualche server in America fino a chissà quando? Come si fa a non rispondere più a chi ti lascia un saluto sul Diario? Come si fa?

Morire è diventato più difficile. Siamo entrati nell’infinito internettiano.  Incidiamo la nostra storia su qualche computer che ci fa sembrare sempre vivi, sorridenti. Non siamo mai morti, eppure siamo già morti.

Bioy Casares l’aveva capito, nell’Invenzione di Morel. Aveva già capito tutto.

La congiura delle mamme

Tommaso fa la prima media.
E’ il sesto anno della mia vita che passo i weekend chiusa in casa a fare i compiti insieme a lui.

20 operazioni tutte le domeniche pomeriggio – alle elementari – anche se Tommaso è discalculico: capisce la matematica, ma non sa fare i calcoli. Anche adesso, di domenica, facciamo le espressioni, studiamo storia e un’altra tonnellata di roba che Tommaso si dimenticherà nel giro di poche ore (una volta preso il 6 nell’interrogazione).

Ho provato, quando mio figlio era alle elementari, di convincere le maestre a lasciarli senza compiti – i bambini, ma anche noi mamme – per almeno un weekend al mese.

Niente da fare: le maestre hanno detto che no, i compiti erano necessari. I bambini non si potevano fermare MAI.  Neanche durante le vacanze di Natale, quelle di Pasqua e quelle al mare.

Noi mamme italiane a correre dietro ai pargoli per fargli fare i compiti, mentre i bambini tedeschi, olandesi, nordici insomma, erano belli tranquilli. Niente compiti. Anzi, come mi spiegò un papà sloveno, compagno di campeggio, se i bambini fanno i compiti a casa, è perché non hanno imparato niente a scuola!

Bene: ho in mente un piano. Tutte le mamme d’Italia un giorno si vendicheranno del tempo passato a perseguitare i loro figli per fargli fare i compiti.

Daremo noi, le mamme, i compiti  a casa alle insegnanti: qualche bel tema, tre o quattro capitoli di storia, i settori produttivi di tutte le Regioni d’Italia, e poi le interrogheremo noi. Il 15 agosto! Il 26 dicembre! Il 4 gennaio!

E le bocceremo, Dio sa che le bocceremo!
Sarà bello, bellissimo.

Un Goncourt in salamoia

Ne parla Céline, nei “Colloqui con il Professor Y”, dei capolavori in salamoia che tutti gli scrittori tengono da parte per vincere un Goncourt in Francia (e lo Strega in Italia).
O magari qualche premio minore, in genere elargito da cittadine a loro volta minori, disposte a pagare l’albergo e un paio di cene a una dozzina di critici pronti a fare da giuria.

Confesso di avere anch’io qualcosa in salamoia, ma non certo un capolavoro.
Piacersi e apprezzare quello che si scrive è un orrore – parlo di cattivo gusto – del quale spero di non macchiarmi mai.
Vendere qualche copia di un ebook, invece, non mi dispiacerebbe. Ma il mare internettiano è magno e profondo.
Abitato da pesci affamati di fama e senza tutto ‘sto gusto.
Ho una passione perversa per i titoli dei libri autopubblicati (su carta e ebook).
Li becchi subito.
Sono BRUTTI. Pomposi, autorefenziali, dolciastri, melensi, cagati fuori a fatica da autori troppo innamorati di sé.
Segue un elenco di titoli per ebook autopubblicati, assolutamente immaginari (così da evitare la denuncia).
“La passione di Martina per le mele”.
“L’amore è…” (i tre puntini tirano sempre)
“Cantico d’amore per umani”
“Rosso vermiglio come il tuo cuore”
“Foglie morte per te”
“La vita è già passata”
“Ti sento lontano, ti sento vicino”
Eccetera.
Se possibile, si consiglia di usare come colore sempre e solo il vermiglio, perché la parola suona ultrachic.

Che palle! Che pizza!

Domenica pomeriggio col figlio undicenne.

Tommaso è ancora in quell’età di mezzo – né carne né pesce, tanto per non essere banali – in cui ti sei stufato di stare con i genitori, ma sei troppo piccolo per andare in giro da solo.  
Sì, all’oratorio un giretto da solo se lo fa, ma non gli va più manco quello.

Tommaso soffre di una noia consustanziale, da pre-adoloscente moderno, e non sa neanche lui cosa vorrebbe fare.

Passo la domenica a proporgli tutto quello che immagino potrebbe piacergli, e che magari piacerebbe anche a me, ma lui risponde immancabilmente: “Che pizza!”, oppure: “Che palle!”.

 Io: “Vuoi andare al cinema?”
Tommaso: “Che palle, sempre la stessa roba!” (quale roba non si capisce, perché tutta l’industria cinematografica è diventata un immenso e indistinto bolo di noia).
Io: “Andiamo al planetario?”
Tommaso: “Che palle! Ancora?” (ci siamo andati un anno fa).
Io: “Allora chiama un amico!”
Tommaso, un po’ più interessato: “Chi? Chi chiamo?”
Faccio una proposta: “Chiama Tizio!”
Tommaso: “Tizio, che palle!”
Ci riprovo: “Chiama Caio!”
Tommaso, più convinto: “Sì, dai, lo chiamo!”
Gli passo il cellulare, così lui non consuma la sua ricarica. 

Fa il numero e parte una di quelle buffe conversazioni fra pre-asoloscenti che non hanno ancora imparato a dire: “Ciao come stai, come va, eccetera”.

Tommaso, parlando con Caio, parte subito con: “Ciao sei libero?”
Sento Caio che risponde a Tommaso: “No, sono con un mio amico”
Tommaso: “Va bene, ciao”.
E mette giù.
Mi guarda con l’aria schifata, come per dire: “La tua solita proposta di merda…”.
Ricominciamo.
Io: “Andiamo al parco?”
Tommaso: “Che pizza, sempre al parco…”.

 Lo so già: mi mancheranno i suoi “Che pizza!” quando non avrà più bisogno di me, e si farà gli affari suoi.

Mi godo i suoi ultimi sprazzi di noia, condivisa, prima che Tommaso sparisca per sempre, intruppato col branco alla scoperta del mondo.

 

 

Spegni il computer!

Non c’è serata casalinga che non finisca in rissa. Con mio figlio Tommaso, di anni undici, entrato in possesso di un PC tutto suo, dopo la diagnosi di dislessia.
Oggi, se sei dislessico, ti viene prescritto l’uso del PC come supporto didattico per lo studio, ma a casa il PC viene usato SOLO per i videogiochi.
Liberamente, largamente, lungamente. Senza possibilmente spegnerlo mai.

I ragazzi ormai sanno che, se sono dislessici, i genitori gli comprano un PC sul quale installare i software compensativi per la scuola (sintetizzatori vocali, mappe concettuali, eccetera).
Ma ai ragazzini dei software compensativi non gliene frega niente, manco della dislessia gli frega qualcosa, loro vogliono il PC. Punto.

Tanto è vero che l’ultimo compagno di classe di Tommaso al quale è stata diagnostica la dislessia, si è presentato in classe urlando di gioia: “Sono dislessico, mi comprano il PC!”.
E tutti giù a fargli i complimenti, qualcuno forse un po’ invidioso.

Festa grande, insomma, anche perché il giorno dopo l’acquisto del portatile, inizia l’orgia dei videogiochi.

Tommaso ha investito tutti i suoi risparmi da Free Games, un negozio vicino a noi, dove vendono i videogiochi con lo sconto.
Ci siamo andati insieme un paio di volte, mentre lui si guardava attorno con l’aria lasciva di uno che sta pensando: “ADESSO E’ TUTTO MIO, TUTTO MIO!”.
Poi si è informato con riverenza dal proprietario per sapere quale gioco fosse meglio: “Cosa dice: quale mi consiglia?”.
Siamo tornati a casa con un paio di “Sparatutto” – si chiamano così – che ha immediatamente caricato sul PC.

E adesso Tommaso spara. A tutto e tutti, in quei giochi maledetti dove si sentono sempre gli stessi rumori:

  • passi di qualcuno che corre (sta scappando o rincorre qualcun altro),
  • spari – Bum! Bum! Bum! – di chi sta scappando o di uno dei suoi nemici,
  • ansimi, sempre di quello che sta correndo,
  • urla – degli “Ahhhhh!” impressionati – dei moribondi.

Questo schifo è diventato il sottofondo musicale delle nostre serate, insieme alla musica di un altro gioco online, Dark Orbit, ambientato in non so quale galassia (più di una, credo), dove Tommaso, trasformato in astronave e non più in mercenario travestito da marine, spara alle altre astronavi.
Il sottofondo musicale di Dark Orbit è una specie di musichetta aliena che si ripete sempre uguale, su dei toni bassi, come un mantra tibetano. Anche dopo che sono riuscita a fargli spegnere il PC, la musichetta continua a rimbombarmi in testa.
Non se ne va, non mi lascia in pace, mi sembra di sentirla anche a letto.

Ma veniamo al dunque. All’urlo.
“Spegni il computer!”
Il primo urlo è verso le nove e mezza di sera.
Ma è solo il primo, lo sa anche lui.
Non vale niente, come dare un’allegra scampanellata in bicicletta mentre fai un giro nel quartiere.
Poi il livello acustico sale. L’urlo diventa un boato: “Spegni il computer, spegnilo!”.
Tommaso allora mi dice: “Svegli il figlio dei vicini!”, perché sa che si sono lamentati. Dei miei urli.

Io allora abbasso il tono di voce, e passo alla modalità di un urlo solo sussurrato: “Spegni il PC, spegnilo!”.
Lui se ne fotte. Continua a sparare. A un mercenario o un’astronave.
Lo minaccio, sempre sussurrando, di comminargli punizioni esemplari: “Ti tolgo questo e quell’altro!”, ma tanto lui sa che poi non lo faccio.
Continua a sparare imperterrito.
Allora spengo il modem.
Urlo sempre sussurrando: “Vai a letto, vai a letto!”.
Lui corre a riaccendere il modem.
Lo rispengo.
La scena si ripete due o tre volte, poi lui si sfianca e non lo riaccende più.
Andiamo a letto.
Come madre sono un fallimento.
Lo ammetto.

I have a dream

Scomodare Martin Luther King per il titoletto di un post è veramente meschino.
Tanto meschino quanto il MIO sogno.
Vorrei una stanza-lavanderia. La vorrei con dentro un’asciugatrice gigante, di quelle che non ti stropicciano la roba.
Un Tumble Dryer, come lo chiamano gli americani, da 20 chili. Ciclopico, immenso, silenzioso, che faccia il suo porco lavoro – asciugare le lenzuola, le mutande, i calzini – in una stanza separata dal resto della casa (gli americani hanno le villette).
Chiudi la porta e te ne vai. Torni quando è tutto finito (asciutto).
Io invece ho la lavatrice in cucina, di fianco alla lavapiatti, e lo stendino sempre aperto, nell’ingresso, che schifo…

Ho un altro sogno: che anche in Italia si comincino a produrre vestiti, sempre come negli Stati Uniti, con quelle stupende stoffe sintetiche che non devi stirare.
La viscosa è meravigliosa (fa anche rima).
Un abito in viscosa lo puoi lavare per anni, appenderlo su uno stendino (non ho il Tumble Dryer) e il mattino dopo è perfetto, praticamente nuovo. Come un paio di vestitini che ho comprato in America dieci anni fa, pagandoli pochissimo, e che uso ancora.

Negli Stati Uniti tutti i tessuti, o quasi, vengono trattati con l'”antistiro”, un liquido sbalordivo che funziona come un appretto perpetuo.
Certo, il lino è meglio, bello anche quando si stropiccia, e il cotone egiziano è più fresco di una camicia di viscosa trattata con l’antistiro.
Ma nel locale lavanderia delle casalinghe americane, c’è tutto, tranne che il ferro da stiro.

In un paese dove le donne lavorano, e  tanto, a nessuno passa più per la testa di tenerle chiuse in casa il sabato e la domenica a stirare le camice del marito e le magliette dei figli.
Gli americani vanno in giro stropicciati o antistirati, e il weekend si infilano quello che capita, senza starci a pensare su troppo.
La “vasca” all’italiana, e cioè la passeggiata domenicale, tutti in tiro, per la piazza del paesotto, non è compatibile con un’occupazione femminile che, sempre negli Stati Uniti, è pari a quella maschile.

Nessuna donna non può sopravvivere al lavoro a tempo pieno, senza portare fino in fondo la rivoluzione degli elettrodomestici. Rivoluzione capitalistica che libera forza lavoro femminile qualificata e a basso costo, ma offre in cambio alla lavoratrice uno sgravio dai lavori domestici. Grazie appunto agli elettrodomestici, tra cui il Tumble Dryer. E grazie alle stoffe antistiro, che reclamo dall’industria tessile italiana (anche se poi produce tutto in Cina).

Ultimo sogno: la rivolta dei ferri da stiro. Tutte le donne italiane lo buttino dalla finestra e mandino in giro figli e mariti spiegazzati.
Se poi proprio ci tengono – i mariti – al polsino stirato, che se lo stirino da soli, visto che lavoriamo anche noi, come loro, o quasi come loro.
Anche i figli che pretendono dalla mamma lo stiro del jeans, imparino a stirare.
A stirare si impara, chiunque può farlo. Non è come allattare, che ci vogliono le tette.
Basta prendere il ferro, attaccarlo alla corrente, e passarlo sui panni inumiditi.
Che non vi chiederanno se sei un maschio o una femmina, ma si lasceranno stirare.
Passivamente. Senza lamenti.

Il mediatore aziendale

Nelle aziende si vive – si sopravvive – solo se ti guardi alle spalle.
Ovvero non parli mai male di nessuno, perché quel nessuno potrebbe un giorno diventare il tuo capo, o potrebbe – domani mattina – andare dal tuo capo a parlar male di te. Mai farsi nemici, meglio sorridere e andare d’accordo con tutti.

Si consiglia di attestarsi su un costante atteggiamento positivo: le proposte fatte dagli altri vanno sempre bene.
E’ di cattivo gusto metterle in dubbio, e si suggerisce di approvare cautelativamente TUTTO quello che viene detto in una riunione, anche se qualcuno dei punti di vista – dei vari partecipanti alla riunione – è in evidente contrasto con quello degli altri.
Meglio approvare i pareri di tutti, cautelativamente e caldamente, in ordine cronologico di presentazione.

Se A propone A, approvate con cenno convinto della testa.
Se B propone B, fornitegli immediatamente il vostro plauso.
Se C propone C, lodate subito anche lui, mettendo in risalto come A, B e C siano proposte assolutamente compatibili tra loro, anzi COMPLEMENTARI.

Presentatevi sempre come ambasciatore di pace, ovvero come mediatori.
Se poi la vostra mediazione non porterà a nulla, cioè a nessun risultato, non importa.
Ci vorranno dei mesi prima che i capi se ne accorgano, e magari sarete già stati spostati di ufficio.
Probabilmente promossi. In virtù del vostro bel carattere. Da mediatore.

L’Europa Alpina

Non basta lavorare dal lunedì al venerdì, otto ore al giorno, più una di mensa, più di due di trasporto da casa all’ufficio.

No, non basta. La domenica si studia. In compagnia del ragazzino di undici anni che il lunedì ha la verifica. Sempre. Tutti i lunedì c’è una verifica, fosse mai che nel weekend ti venisse voglia di riposarti un po’.

La scena è sempre la stessa.
Domenica pomeriggio.
Libro aperto sul tavolo della sala.
Computer acceso e pronto in un angolo, perché il ragazzino è dislessico e deve fare le “mappe logiche” che può tenere sul banco durante le verifiche (l’equivalente dei nostri riassunti, ma realizzati con un programma che collega i concetti con un sistema di frecce “logiche”).

Il ragazzino ha la testa a ciondoloni e si guarda intorno come se cercasse una via di fuga. Ma non ne ha. Potrebbe solo buttarsi dalla finestra.
Libro di geografia aperto sul capitolo: “L’Europa Alpina”, argomento al confronto del quale la Corazzata Potemkin sembra più figa di un film porno.

Io urlo: “Leggi!”.
Ma lui dà una scampanata con la testa, come quando ti viene sonno in treno e mugola: “Nohhh…”.
Poi aggiunge una serie di: “Che palle! Che pizza!”, ripetuti con frequenza ipnotica. Corro il rischio di cadere anch’io in catalessi.

Comincio a leggere, prima che il ragazzino si butti per davvero dalla finestra, e io dietro di lui. Dell’Europa Alpina me ne frega meno di niente, e speravo di morire senza sapere dove sono i Carpazi. Cerchiamo i Carpazi sulla cartina. Li indico con un dito. Lui mi guarda il dito ma sembra sempre più assente.

Forse si sta addormentando.
Gli do una pacchetta sulla spalla, per tenerlo sveglio.
Lui quasi non reagisce.
Passiamo alle cave e le miniere. L’industria siderurgica. I fiumi, l’energia idroelettrica.
Gli chiedo: “Come si chiama l’industria che estrae energia dall’acqua?”.
Risposta un po’ dubitosa: “L’industria SIDRELETTRICA…”.
Non lo meno solo perché diventato troppo grosso, e ormai me le dà indietro.

Bene, cambiamo argomento e passiamo alle vie di comunicazione, sempre nell’Europa Alpina. Trafori, viadotti, eccetera.
Pacchetta sulla spalla, per tenerlo sveglio, e ditino – mio – puntato sulla foto del viadotto.
“Cos’è questo?”
Risposta: “Un ponte…”.
Niente da fare. Inutile.
Punto il dito sulla foto di un traforo e gli do la pacchetta sveglia-studente: “E questo che cos’è?”.
Riposta: “Un tunnel…”.
Anzi, la riposta è sempre a sua volta una domanda: “Un tunnel?”.
No, è un traforo.

Un traforo nei Carpazi che porta verso un tunnel, passa sotto un viadotto e produce finalmente tanta bella energia pulita: quella SIDRELETTRICA, con una gradazione alcolica leggera, piacevole al palato. Il sidro, insomma, la bevanda più diffusa dell’Europa Alpina, sin dai tempi dei Galli…

Suicidi politicamente assisti (dagli elettori)

Impossibile smettere con la serie dei post “politici” (chiamiamoli così).

Lo ammetto. Provo la stessa curiosità malsana della folla sotto il patibolo che guarda con occhio ipnotico e adorante lo spettacolo dei partiti e dei politici in attesa di suicidio. Assistiti dai loro elettori, anzi ex-elettori, che li accompagnano alla ghigliottina tenendoli per mano, mentre loro pensano ancora di andare a una festa.

“Ehi ragazzi, è qui la festa?”, urlava qualche anno fa un giovane Giovanotti paninaro, ormai sotterrato da quello ultrachic di adesso.

“No, fratello, qui c’è la tagliola”, dovrebbe rispondere qualcuno, magari solo un amico, ai politici suicidi, prima che infilino la testa sotto la lama purificatrice.
M non c’è niente da fare, non lo vogliono capire.

Facciamo un esempio. Già vecchio. Vi ricordate Bertinotti? Ha sotterrato un partito, oltre che se stesso.

Nel 2008 era Presidente della Camera, nonché orgoglioso amico di Valeria Marini – perché no, ma c’era tutto ‘sto bisogno di raccontarlo in giro? – e utente TOP dei jet presidenziali, con i quali portava a spasso gli amici tra le feste parigine.

La sera del 15 aprile, dopo le elezioni, aveva convocato i giornalisti per la conferenza stampa all’Hard Rock Cafè di Via Veneto – da pronunciarsi HAVD VOK CAFÈ – perché gli sembrava fico che un uomo della sua cultura e statura politica incontrasse i giornalisti all’HAVD VOK CAFÈ, che, peraltro, è poco di più – in termini di figaggine – del McDonald’s di Piazza di Spagna.

Alla conferenza stampa non c’era naturalmente nessuno, se non qualche appassionato di funerali (in quel caso della Sinistra Arcobaleno, mai più risentita). Bertinotti si era presentato con un trenchettino della Burberry da almeno mille euro, che comunque con l’HAVD VOK CAFE’ c’entrava come i cavoli a merenda. Poi aveva promesso a tutti, belli e brutti, che sarebbe tornato a fare il militante.
Adesso, per fortuna, fa solo qualche comparsata in TV, di cui se ne farebbe volentieri a meno.

Ma Bertinotti è solo il primo dell’illustre serie dei suicidi eccellenti.
Con le ultime elezioni, la lista si è impennata.

Gianfranco Fini, che in meno di cinque anni ha fatto fuori un partito del 10%, cedendo all’abbraccio di Berlusconi. Ha capito troppo tardi che il bacio era col risucchio: mortale.
Pensionato-suicidato anche lui, insieme a Italo Bocchino, più noto per le recenti corna alla moglie, che non per le ampie vedute politiche.

Antonio Di Pietro, protagonista in questo caso di un caso di suicidio per aborto.
Si associa – insieme all’Italia dei Valori – al futuro aborto della Rivoluzione Civile di Ingroia, e periscono tutti quanti – una strage di Stato – feriti a morte dai seggi elettorali.

Oscar Giannino, plurilaureato, nonché concorrente dello Zecchino d’Oro, viene suicidato dal Mago Zurlì in persona, pochi giorni prima del voto.
Il mago più amato dai bambini italiani (di una certa età) dichiara: “No, mai sentito nominare il Signor Giannino”.
Berlusconi invece Giannino lo conosceva bene, quando era uno suoi più sinceri paggetti, prima di farsi venire la “voglia di un partito tutto mio”.

Francesco Rutelli: ha il colpo di genio di pre-suicidarsi prima delle elezioni, per evitare di finire nella lista dei trombati.

Mi fermo qui. Non insisto.
Vi prego solo di notare alcune ricorrenze. Sono tutti maschi. Di una certa età. Bolliti.

Bolliamo vivi i bolliti

Non  c’entra niente, questo post, con la mamma impiegata, ma vorrei dire che trovo ridicolo e fanè – aggettivo orribile, ma adatto al contesto – il corteggiamento del PD ai grillini.

Mi ricordo che verso i vent’anni avevo uno spasimante – vicino di ombrellone al mare – sui sessanta, che mi lanciava battute a metà tra lo sporcaccione e la riverenza col cappello. L’ometto cercava di offrirmi la brioche al mattino a la coppa di champagne alla sera, sempre seduto al tavolino del bar di uno stabilimento balneare a Cesenatico. Era vecchio, col papillon, la brillantina sugli ultimi tre capelli tinti di nero, e non riusciva a capire che una ventenne non gliel’avrebbe data neanche morta.

Bene, offrire a Grillo la Presidenza del Senato, al Berlusca quella della Camera, e in mezzo mettersi loro, il PD, magari con D’Alema agli esteri, significa non avere neanche lontanamente percepito quanto sono vecchi – come politici – e fuori gioco.

Ma non gli è bastato – a Bersani e compagnia –   farsi prendere a ceffoni sulla storia del Senato, perché i vecchi gagà hanno continuato con le loro proposte oscene – governo frizzato, governissimo, eccetera – senza capire che la ventenne non ci stava.

Oddio, non è facile prevedere le mosse di Grillo, anche perché punta all’azzeramento del sistema partitico italiano, e non sappiamo cosa farà. Il partito ce l’ha sul web, forse liquido, forse no, ma Grillo non te lo compri – come Bertinotti – con la Presidenza del Senato.

Insomma, nessuno conosce il prezzo di Grillo, né si può escludere che non abbia prezzo, come non ce l’avevo io a vent’anni col vecchio porcaccione bollito.

Ma loro, i bolliti della storia, non lo sanno. Non riescono a capirlo. Stanno provando a offrirgli la brioche, la coppa di champagne, e adesso fanno anche un po’ i ritrosi (gli otto punti!).  Sono tutti un po’ bolliti quelli del PD, diciamocelo, ma diciamoci anche che tra loro non c’è una mezza donna. Perché secondo me, è una roba da maschi non capire – rifiutarsi di capire – chi hai di fronte. Maschi bolliti, ripeto.

Le donne non sono così loffie da non dare neanche un’occhiata all’interlocutore. Siamo talmente abituate a doverci difendere, che in genere sappiamo valutare l’avversario. Nessuna donna sui settanta farebbe la corte a un ventenne. Nessuna donna – in politica – avrebbe offerto a Grillo il Senato.

Allora faccio una proposta: mandiamo a casa i vecchi politici maschi che son lì a dire sempre le stesse cose.  Ma non solo quelli del PD.
TUTTI! Basta,  sono ridicoli, inutili.

Anzi, ho un’idea: bolliamo vivi i bolliti! Come in un’antica tortura – fino alla morte –  giapponese. Il morituro viene messo prima a bagno nell’acqua gelata, e poi bollito vivo, lentamente, per prolungarne il supplizio.

Naturalmente la mia è una proposta orrorifica e paradossale, ma non li reggo più.
Sono vecchi. Incipriati come Gustav von Aschenbach sulla spiaggia del Lido, in Morte a Venezia, mentre muore guardando Tazio che nuota verso il largo. Col fondo tinta che gli cola sui baffetti e le basette tinte.
Basta nonni in politica!
State a casa coi nipotini, che fate meno danni. No joke.