Archivio mensile:aprile 2014

Un ottimo lavoro di squadra (aborrita espressione aziendalista) con Mondadori

Vi avverto: prima di arrivare all’argomento di cui voglio parlare, farò una delle mie lunghe e pedanti premesse.

Anzi due.

Ecco la prima.

Detesto la neolingua aziendalista, e quando sento espressioni come “Lavoro di squadra“, “Spirito di team” o, peggio ancora, “Facciamo squadra!“, mi colo la cera nelle orecchie e cerco di non ascoltare le altre orribili idiozie che presumibilmente seguiranno un tale aborrito incipit.

Tutte le volte che sono stata coinvolta in iniziative aziendali che avevano l’obiettivo di “corroborare” lo spirito di team, mi sedevo in ultima fila e cercavo di non farmi notare.

Una volta, durante una delle iniziative in questione, mi sono persino rotta un polso mentre provavo a sgattaiolare fuori dall’aula, momentaneamente oscurata durante la proiezione di uno dei soliti video su come si costruisce un team.

Sono inciampata al buio e sono volata lunga distesa sulla moquette. Dopo due ore, avevo il polso ingessato.

Posso quindi dire – con grandissimo orgoglio – di non sapere cos’è il lavoro di squadra, sia da un punto di vista teorico, non avendo mai ascoltato con attenzione i formatori aziendali che discettavano sull’argomento, sia da un punto di vista pratico, perché mi è difficilmente capitato di lavorare BENE come nei video che ci facevano vedere durante i corsi, in particolare in quello – storico! – sul carrello progettato dall’IDEO.

Ma nonostante la mia avversione per l’argomento “squadra” e per tutte le espressioni lessicali correlate, mi sono fatta un’idea di cosa significhi l’aborrito “Fare squadra“.

Penso che voglia dire qualcosa del genere: “Ascolta l’opinione dell’altro, qualunque sia il suo ruolo nella scala gerarchica aziendale“.

L’innovazione, insomma, e la buona qualità del lavoro che svolgi insieme agli altri, è possibile solo se ci si dimentica dei propri gradi aziendali, e si lavora insieme su un piano di parità e rispetto reciproco.

Non per niente Google viene sempre citata come esempio di un luogo di lavoro favorevole all’innovazione.

I dipendenti di Google sembrano abbastanza liberi di organizzare le loro giornate, e non marciano col passo dell’oca come nelle parate dell’esercito nordcoreano.

Questa era dunque la prima premessa: a nessuno vengono delle belle idee in contesti fortemente gerarchici, e le aziende della vecchia Unione Sovietica non producevano lavatrici da esportazioni.

La seconda premessa è molto più veloce e diretta.

Non mi piace mangiare la merda, nel senso che non amo le strutture gerarchiche dove devi OBBLIGATORIAMENTE fare quello che ti dice il tuo capo, senza il minimo diritto di replica.

Le aziende italiane sono quasi tutte vecchiotte – non siamo nella Silicon Valley – e hanno ancora una fortissima impronta gerarchica. Non stanno quindi resistendo molto bene alle spinte innovative che vengono dai mercati esterni.

Le aziende italiane (e le amministrazioni pubbliche) profumano di caserma, e infatti ne chiudono 100 al giorno.

La mia esperienza di selfpublisher è stata quindi molto gratificante perché ero DA SOLA e potevo fare tutto quello che volevo.

Sono stata una piccola imprenditrice che ha gestito da sola per un anno i suoi libretti, facendo anche minuscole campagne pubblicitarie, in cui sceglievo il target e la spesa giornaliera.

Ascoltavo le opinioni degli altri, questo sì, in particolare degli editor con cui avevo lavorato, ma alla fine ero io a scegliere cosa fare, senza dover trattare o mediare con nessuno.

Insomma, autopubblicarmi mi ha dato delle grandi soddisfazioni perché non c’era nessuna catena gerarchica da rispettare ed ero padrona di me stessa (anche questa è un’espressione un po’ banale, sorry).

Ero infatti decisissima a continuare a godere della mia libertà, senza dover mangiare altra merda, oltre alle generose e abbondati porzioni che a tutti noi vengono  servite quotidianamente.

I primi segnali arrivati da Mondadori erano quindi stati sufficientemente buoni da convincermi che non avrei dovuto fare il passo dell’oca davanti alla sede di Segrate. Avevo abbandonato abbastanza tranquillamente la mia barchetta per salire sulla nave da crociera che era passata di di fianco.

Bene, posso dire PUBBLICAMENTE che – per lo meno fino ad oggi – Mondadori non mi ha fatto mangiare neanche un cucchiaino (da frutta) della merda gerarchica in questione.

Oggi infatti abbiamo chiuso il libro. E cioè la copertina, i testi di copertina e il libro (editato) sono stati approvati da tutti, a cominciare da me.

Tutto è stato deciso insieme, compresa la foto che apparirà sulla sulla copertina.

Ho corretto anche i testi per le alette del libro, scritti dalla responsabile della Narrativa italiana, Giulia Ichino, che manderà in stampa la versione finale, quella rivista da me, da lei e dall’editor, Alessandra Maffiolini.

Anche con Alessandra ho discusso di tutte le sue proposte di editing al mio testo, e per ognuna delle proposte in questione, Alessandra ha chiesto la mia approvazione.

Insomma, non mi sono sentita privata di nessuna delle mie vecchie libertà da selfpubisher, ma ho avuto invece l’impressione che sia stato possibile lavorare insieme, su un piano di parità, rispetto e buona educazione.

Credo che in fondo il lavoro di squadra sia questo qui: trattare gli altri con rispetto e ascoltarli.

Io, Giulia e Alessandra lo abbiamo fatto. Ci siamo trattate bene l’un l’altra e ci siamo ascoltate.

Credo quindi che il mio libro ne sia uscito migliorato. E’ scritto meglio, la copertina è più bella. 

E poi sarà quel che sarà.

A giugno lo saprò.

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La tela di Penelope della casalinga lavoratrice

Ho ricordi vaghi e imperfetti della tela di Penelope.

Non mi ricordo che cosa tessesse, ricordo solo che ogni notte disfava quello che aveva tessuto durante il giorno, per ricominciare da capo il giorno dopo.

Ecco, mi sembra che la vita delle donne-impiegate-mamme-eccetera sia diventata una tele di Penolope perenne, dove ogni giorno viene disfatto il lavoro che ti sembrava di aver fatto il giorno prima.

Ogni sera metti i piatti in lavastoviglie e apparecchi per la prima colazione, come se ogni volta fosse un gesto nuovo, ma in realtà il gesto è sempre lo stesso destinato a ripetersi Dio solo sa quante volte.

Tutto quello che faccio in casa è destinato ad essere ripetuto un numero infinito di volte, e ogni bucato appena raccolto verrà rilavato e ridisteso in capo a pochi giorni.

Certo, senza elettrodomestici non potrei stare undici ore fuori casa ogni giorno, ma non credo che la lavatrice sia un simbolo della liberazione femminile.

Non so neanche se il lavoro sia più un simbolo della rivoluzione femminile, quando è accompagnato da queste infinite corvée domestiche.

La noia di queste giornate faticose e uguali mi tortura e mi perplime: quanto durerà?

Quando finirà?

Quando sarò troppo vecchia per godermi un po’ la vita?

Credo che l’unica vera liberazione femminile passi per MENO ore di lavoro, accompagnata da pasti caldi (nei ristoranti di quartiere) a prezzi più polari di quelli attuali.

So perfettamente di appartenere alla quota più fortunata della popolazione mondiale, ma il nostro livello di consumi ha un prezzo molto alto.

Molte ore dedicate al lavoro – in ufficio e domestico – e poco tempo per l’ozio e per gli amici.

Il downshifting, che oggi in italiano si traduce come semplicità volontaria è il mio consapevole obiettivo, anche se non so se riuscirò mai a raggiungerlo.

E’ veramente difficile scendere dalla giostra quando gira velocissima e quando non hai quasi il tempo di fare progetti.

E quando sta per finire il secondo quadrimestre e tuo figlio ha una verifica al giorno.

E quando investi tutte le tue plusvalenze in ripetizioni.

Voglio scendere…

I have a dream: l’esposto al Provveditorato

Farò una lunghissima premessa prima di arrivare al mio sogno: presentare un esposto in Provveditorato.

Dunque, sono figlia e nipote di insegnanti delle scuole medie.

Mia madre insegnava matematica e scienze, mentre mia zia insegnava italiano, storia e geografia.

Nessuna delle due insegna più, anche perché una delle due (mia zia) è morta più di dieci anni fa.

Erano le tipiche insegnanti delle scuole medie di una trentina di anni fa, quando le profie si mettevano dei baschetti pelosi con la visiera e portavano delle scarpe con le frangette che credo nessun’altro in Italia avesse il coraggio di indossare.

Mia zia aveva una vera collezione di quei terribili cappelli pelosi da insegnante e mia madre non era da meno. Avresti capito che erano due insegnanti a chilometri di distanza. Marchiate a fuoco dai baschetti e dalle frangette sui mocassini marroni.

A tutte e due piaceva moltissimo insegnare, e gli allievi d’estate le andavano a trovare.
Mia zia organizzava delle piccole feste per le sue studentesse, per le quali preparava delle buonissime torte.

A mia madre arrivano ancora gli auguri a Natale di un suo ex-allievo con un cognome buffissimo: “Porcelli”, allievo del quale mia madre parla ancora con sconfinata ammirazione, e di cui ha conservato un quaderno di esercizi di geometria, che ogni tanto sfoglia con trepida gioia, mormorando: “Era bravissimo!“.

Insomma, non ho nessuna preclusione nei confronti della categoria degli insegnanti.
Anzi, sono cresciuta in famiglie dove si parlava solo di allievi, bidelli, colleghe, gite di classe, eccetera, e dove il vanto di mia madre era quello di NON AVERE MAI BOCCIATO NESSUNO.

Ancora adesso le piace raccontare di come si sia sempre spesa per evitare che venissero bocciati i suoi alunni, perché, secondo lei, alle medie non bisogna bocciare i bambini. Cosa di gran buon senso, perché anche io ritengo che un bambino non sia in grado di sopportare il peso psichico di una bocciatura fino a quando non arriva al ciclo di studi superiori.

Ma oggi è tutto cambiato. Le scuole sono diventate severe, i programmi sono immensi, le “verifiche” quasi quotidiane, i voti tirano verso il basso, le insegnanti danno tutti i giorni una marea di note sul comportamento dei bambini.

Sì, certo, i ragazzini di oggi sono più vivaci di quanto non fossero quelli di trent’anni fa, cresciuti in famiglie molto più normative di quelle attuali, ma non è neanche vero che TUTTI i ragazzi siano dei bulli fuori controllo. Se devo essere sincera, non ho ancora conosciuto un vero bullo pericoloso tra i compagni di classe di mio figlio. Né tanto meno lo è il povero Tommaso, che frequenta persino il corso di scacchi della scuola.

Mio figlio, per di più, è un dislessico certificato. Dal più importante ospedale italiano che studia e certifica la dislessia. Ma questo non impedisce alle sue insegnanti di ficcargli dei bei tre in grammatica (argomento sul quale i dislessici sono debolucci), e sbattersene le palle di quanto concordiamo ogni anno in un Piano Didattico Personalizzato, che dobbiamo controfirmare entrambi (genitori e insegnanti).

Al contrario, Tommaso ha dovuto ascoltare per tutte le scuole elementari le lamentele delle sue maestre che gli dicevano che ero pazza a credere che fosse dislessico, perché lui non aveva “problemi”.  Il suo unico problema era quello di avere poca voglia di studiare. Le diagnosi dei medici erano anche loro il frutto i una qualche mia passione maniacale per medicalizzare il fatto che lui non aveva voglia di studiare (uno dei sintomi, anche questo, tipici della sindrome dislessica).

Ecco, io credo che alle insegnanti di oggi manchi la pietas che avevano mia madre e mia zia per i loro allievi, anche per quelli un po’ asinelli che loro “portavano avanti“, per usare una delle loro vecchie espressioni.

Insomma, sapevano tutte e due che se un ragazzo non aveva voglia di studiare era inutile bocciarlo alle medie, ma sapevano anche che forse qualcuno aveva bisogno di più tempo per crescere e maturare.

I dislessici sono una gran parte di quegli asini di una volta, dopo che le neuroscienze hanno finalmente decrittato loro difficoltà (un disturbo a non so quali lobi temporali).

La scuola dovrebbe quindi trattarli con un po’ più di gentilezza, anche perché i dislessici sono pessimi in grammatica, ma possono essere molto bravi a fare qualcos’altro, visto che il loro QUI è nella norma (i Disturbi Specifici dell’Apprendimento possono essere certificati solo in ragazzi che abbiamo un quoziente intellettivo nella norma).

I dislessici sono “asini” dotati di grandi potenzialità, anche se per tutta la vita potrebbero leggere e scrivere male, e non sapere far di conto.

Ma le insegnanti di oggi – tranne qualche rara eccezione – sembrano avere abbandonato quell’antico buon senso che le vedeva in una posizione benevolente verso i loro allievi, per trasformarsi invece in cerberi giudicanti, nella convinzione che non ci sia stimolo migliore allo studio che qualche bel TRE sparso con generoso furore su ragazzini di dodici anni (ma so che i TRE stanno cominciando a fiorire anche alla elementari).

Ebbene, sono sicura che in quella particolare età della vita l’incoraggiamento allo studio non possa che passare per stimoli positivi, come spiega Sugata Mitra, mentre invece, quando ti iscrivi alla facoltà di Ingegneria, nessuno potrebbe questionare sul fatto che se non passi gli esami, non ti puoi laureare.

Trovo invece ORRIBILE la nuova moda dei brutti voti e delle bocciatura nella scuola dell’obbligo, e in quanto madre di un dislessico potrei anche presentare un esposto al Provveditorato per contestare i voti che vengono dati a mio figlio (sulla base di verifiche non somministrate secondo quanto prevede la legge).

Non escludo quindi che un giorno il mio sogno di presentare un esposto non si compia.

Visto che qualcuno ce l’ha già fatta:

http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/04/04/news/dislessia-82705187/

Gloria a quei genitori coraggiosi.

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Sono la madre orgogliosa di uno youtuber (pre-adoloscente)

Tommaso ha studiato lungamente i video di Frank Matano sui videogiochi, di cui riporto un esemplare qui sopra, perché ha una sola aspirazione: diventare uno youtuber.

Tra un po’ Frank Matano diventerà oggetto di un corso di laurea – allo IULM di Milano – che insegnerà come diventare uno youtuber efficace ed efficiente.

Il primo step  –  per diventare uno youtuber efficace – consiste naturalmente nello scaricarsi uno screen-recorder, e poi di registrare schermo e voce mentre fai un videogioco e dici cose molto divertenti.

Così divertenti che tutti guarderanno i tuoi video, si iscriveranno al tuo canale e tu diventerai ricco (con la pubblicità) e famoso, perché tutti ti troveranno MOLTO MOLTO SIMPATICO.

Sono queste, grosso modo, le aspirazioni di un pre-adolescente che si rispetti, e Tommaso vi ha finalmente dato corso – per usare delle espressioni degne di nonna Papera – lo scorso sabato sera, quando si è recato a casa di un compagno di classe, munito di computer e pigiama, infilati dentro una borsa che gli avevo prestato.

So che la nuttata si è conclusa quasi all’una di sera, quando i due youtuber – lui e il suo socio – sono riusciti a creare il loro canale (con un nome banalissimo, assolutamente identico a quello di almeno un’altra ventina di canali del genere), mentre invece, per fortuna, non sono ancora riusciti a caricare il primo video.

Che ho visto in anteprima mondiale. E che ho trovato RACCAPRICCIANTE.

Frank Matano – il quale fa discretamente ridere anche me – è un genio della comicità e della buona creanza rispetto a Tommaso ed esibisce una parlata forbita ed educata.

Tommaso, invece, nel suo video, ridacchiava senza freno e ogni tanto infilava una parolaccia – seguita anche lei da una risatina atona – che faceva accapponare la pelle.

MA NON MICA VORRAI PUBBLICARE SU YOUTUBE QUESTA ROBA?!“, gli ho detto, minacciando come sempre il ritiro dei potenti mezzi informatici di cui è dotato.

E poi ho urlato: “E NON DIRE TUTTE QUESTE PAROLACCE!”, sempre con il tono e le espressioni lessicali degne di nonna Papera.

Ma il giovane youtuber non si è lasciato smontare, e adesso è nell’altra stanza che cerca ancora di diventare Frank Matano.

Frank Matano rappresenta infatti un luminoso esempio di una carriera nel mondo dei NEW MEDIA, al quale ogni giovine moderno – scritto con la i – dovrebbe consapevolmente aspirare.

Mentre la madre orgogliosa si butta giù dal Duomo pensando di avere sbagliato TUTTO – ma proprio TUTTO – nella vita.

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La fantascienza nella testa (quella di Rita Carla Francesca Monticelli)

Rita Carla Francesca Monticelli scrive libri di fantascienza.  

È una biologa ecologa e immagino che sia in perfetta forma fisica. 

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Nessuno potrebbe sinceramente augurare a uno scrittore di fantascienza di fare la stessa vita di Philip K. Dick, perché pochi esseri umani sono stati infelici quanto lui.

Se non ci credete, potete cercare un vecchio libro di Emmanuel Carrère: “Io sono vivo, voi siete morti. Un viaggio nella mente di Philip K. Dick”,  per capire quali sono stati i costi fisici e psichici della sua produzione letteraria. 

Dick scriveva anche dieci libri in un anno, pagati sempre pochissimo, e per riuscire a resistere a quei ritmi doveva ricorrere all’uso di sostanze eccitanti, come per esempio l’anfetamina.

Ma non voglio fare il riassunto della vita di Dick, voglio solo chiedere a Rita come nascono le trame dei suoi libri.
Come nascono nella sua testa, insomma, visto che le trame fantascientifiche hanno qualche ingrediente in più di quelle di un romanzo “tradizionale”.

 

Rita, quanti anni avevi quando hai pensato di voler scrivere un libro di fantascienza?

Ciao Viola, grazie per l’ospitalità! La prima volta che ho pensato di scrivere un romanzo originale di fantascienza è stato solo nel 2006, quindi non tantissimo tempo fa. Avevo già scritto altre cose in precedenza, anche nell’ambito di questo genere, ma erano fan-fiction. In particolare avevo partecipato a una fan-fiction di gruppo nell’universo di “Star Wars”. Anni prima mi ero cimentata nella scrittura di sceneggiature di lungometraggi, ma erano più che altro thriller (più una commedia romantica), e da ragazzina avevo scritto la sceneggiatura di un corto di argomento paranormale (una storia di fantasmi). La fantascienza, però, l’ho sempre amata sin da bambina, ma non avevo mai provato a inventare un universo che fosse completamente frutto della mia immaginazione fino, appunto, al 2006.

Quali sono stati i fattori che hanno influenzato la tua scelta? Libri che hai letto e ti sono piaciuti, gli studi che hai fatto, un film che hai visto quando eri piccola e che ti ha colpito? 

Nel caso specifico dell’idea che ho avuto nel 2006, che poi si è trasformata in un romanzo tra il 2009 e il 2011 (e che finalmente pubblicherò alla fine di quest’anno col titolo “L’isola di Gaia”), tutto era nato da un sogno, uno di quelli che ti angoscia e di cui hai un nitido ricordo al risveglio. Chiaramente qualcosa l’aveva scatenato, forse un insieme di cose. Ho il sospetto che tra queste ci fosse la serie TV “Battlestar Galactica”, anche se la storia che poi ho scritto non è affatto una space opera.
Ho sempre visto tanta fantascienza già da bambina/ragazzina. Sono cresciuta con “Star Wars” (anzi “Guerre Stellari”!), “E.T.”, “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo”, la serie dei “Visitors”, la trilogia di “Ritorno al Futuro”, “The Abyss” (ah, quanto mi piaceva quel film!) e tanti film e telefilm degli anni ’80.
Al contrario ho iniziato a leggere fantascienza solo quando ho deciso di scrivere quel romanzo. In realtà avevo letto qualcosa in passato, un libro di Asimov e qualche novelisation di film di fantascienza (tra cui lo stesso “The Abyss”), ma in maniera molto sporadica. Un po’ come tutti, leggevo i libri che trovavo in libreria e purtroppo di fantascienza se ne trovava e se ne trova sempre poca.
Probabilmente il mio interesse verso la fantascienza è legato agli studi scientifici che ho fatto, nel senso che entrambe le cose sono frutto dell’innato interesse che ho sempre avuto per le meraviglie della scienza, in particolare l’astronomia, con cui è stato amore a prima vista quando ho studiato geografia astronomica al liceo. Anche se poi mi sono laureata in biologia, ho sempre continuato a sollevare gli occhi per ammirare le stelle, la Luna e i pianeti.
A tutto questo aggiungi il fatto che mi è sempre piaciuto immaginare delle storie e farlo nell’ambito di questo genere mi permetteva muovere il mio sguardo un po’ più in là, verso il futuro, dove potevo creare le mie regole e fingere di essere anch’io laggiù a vedere con i miei occhi lo spazio, i pianeti, le stelle e la tecnologia di cui mi piacerebbe poter disporre.

Come sei riuscita a immaginare gli scenari e le trame dei tuoi libri? Li hai “visti” da qualche parte del tuo cervello, prima di descriverli?

Creo le storie per immagini, proprio come in un film. Adoro il cinema. Ammetto che per quanto ami leggere, nulla per me supera l’emozione di trovarmi nella sala di un cinema a guardare uno di quei film in grado di farmi perdere la percezione di me stessa. Perciò, quando immagino una storia, la vedo nella mia mente, solo che a differenza di come accade in un film, posso decidere di vederla attraverso un personaggio oltre che al suo esterno, posso rivederla con tutte le inquadrature possibili, oltre alla vista e all’udito immagino sensazioni tattili, gli odori, e vivo le emozioni dei personaggi. Scrivere per me è semplicemente un altro modo di vivere, in cui però ho il controllo o almeno ho l’illusione di averlo, perché ogni tanto i miei personaggi se lo prendono. I ricordi che scaturiscono dai momenti in cui scrivo una storia sono così reali che mi sembra di averli vissuti realmente, senza tutti i rischi e i fastidi associati. Diciamocelo, fare l’astronauta, per esempio, non farebbe di certo per me che non riesco neppure a leggere un libro in aereo senza che mi venga il mal d’aria… altro che essere sparata in orbita o stare in assenza di gravità!

Quando ti vengono le idee? Mentre non stai facendo niente e lasci vagare i pensieri, o quando ti siedi a un tavolo e ti leghi alla seggiola?

Nei momenti più svariati. Spesso, come ti dicevo, vengo ispirata da un sogno. Il mio subconscio rimescola le cose che vedo e tira fuori delle idee fantastiche, me le mostra proprio. Altre volte l’illuminazione avviene mentre guardo un film o assisto a qualcosa che coinvolge soprattutto la mia vista, per esempio, un paesaggio particolare durante un viaggio, magari associato a una musica che sto ascoltando in quel momento. Talvolta, invece, saltano fuori leggendo un altro libro o anche un saggio, che presenti uno spunto stimolante. L’idea di “Deserto rosso” per esempio è scaturita dalla lettura di un altro libro, “First Landing” di Robert Zubrin, che parla appunto di una missione su Marte, mescolata a un articolo letto tanto tempo prima sull’idea di mandare degli uomini a vivere il resto della loro vita su Marte. Questo è stato prima che scoprissi di Mars One, che ha proprio questa ambizione.
Comunque sia, quando mi metto davanti al computer per scrivere è perché ho a grandi linee in mente le idee base di una scena, poi il resto viene fuori naturalmente in corso d’opera. Come inizio a muovere le dita sulla tastiera, i personaggi prendono vita.

Cominci a scrivere un libro solo dopo avere deciso tutti i punti della trama, oppure cominci a scrivere solo quando hai una bozza di trama? E  ti vengono altre idee mentre stai scrivendo?

In genere inizio a scrivere un libro quando ho in testa almeno quattro cose (inventate in questo ordine): fine, inizio e due punti di svolta. È il meccanismo del paradigma che si usa per la scrittura delle sceneggiature. Vedi? Ancora una volta tendo a essere cinematografica.
Lo scorso novembre mi è capitato di scrivere un romanzo avendo solo in mente questi quattro punti e poi procedendo a fari quasi spenti, cioè con idee che coprivano tre o quattro scene successive a quella che stavo scrivendo. Sono stata costretta a fare così perché volevo partecipare al NaNoWriMo (una sfida che gli autori fanno contro se stessi ogni novembre, proponendosi di scrivere 50 mila parole di un romanzo dal 1° al 30 novembre), ma non avevo avuto tempo di preparare un’outline dettagliata.
In tutti gli altri casi, invece, prima di mettermi a scrivere, iniziavo sempre a prendere appunti sparsi, talvolta nei classici post-it, e ad accumularli, finché non li riordinavo e costruivo un’outline di massima. Una volta preparata questa, partivo dalla prima scena, ma poi spesso e volentieri il numero di scene aumentava rispetto a quelle previste e la trama seguiva strade diverse per poi giungere al finale che avevo deciso. Il bello di programmare tutto è che ti dà una certa sicurezza nel momento in cui ti metti davanti al foglio bianco, ma allo stesso tempo non crea vincoli. Puoi sempre cambiare tutto quello che ti pare, perché una storia, se prima non la scrivi, non puoi essere sicura che funzioni davvero.

Quanto ti influenzano le tue letture scientifiche? E come riesci a distorcerle fino a farle diventare “fantascienza”?

Dalle letture scientifiche, tra cui annovero anche i romanzi di fantascienza hard e i techno-thriller (tipo quelli di Crichton), traggo degli spunti per la scienza che viene inserita nelle mie storie, ma alla fine esse sono dominate più che altro all’elemento umano. La scienza si muove a volte di pari passo, come in gran parte di “Deserto rosso”, in parallelo, rimanendo un contesto in cui si muovono i personaggi, altre volte è lei stessa a fare la storia, ma in tal caso scivola spesso dal plausibile, quindi dalla fantascienza hard, al fantasioso, cioè verso la fantascienza soft. E così, per esempio, un retrovirus a RNA con tutte le sue caratteristiche di replicazione e trasmissione agli individui può diventare il prodotto di una biotecnologia in grado di cambiare “magicamente” il loro corpo rendendoli qualcun altro o, meglio, qualcos’altro di senziente. Mi diverto così tanto a mescolare la scienza vera, fatta di accurati dettagli, con l’immaginazione, per cui stabilisco delle regole altrettanto dettagliate e ferree, che, grazie alla sospensione dell’incredulità, talvolta è difficile scorgere il confine tra le due cose.
L’esempio che ho fatto nasce direttamente dal mio background, poiché ho studiato microbiologia all’università e ne sono sempre stata affascinata. A questo aggiungo qua e là informazioni tratte da letture, come articoli scientifici relativi a recenti scoperte o eventi di natura scientifica. Nella serie hanno trovato posto, per esempio, le teoria sulla possibile terraformazione di Marte, come pure il ritrovamento di gesso da parte del rover Opportunity sul pianeta rosso, o ancora il fenomeno della congiunzione con relativo blocco delle trasmissioni tra Marte e Terra per un mese avvenuto un anno fa, la procedura di ritorno orbitale descritta dall’astronauta Luca Parmitano nel suo blog, i diavoli di polvere alti 20 km che si formano sulla superficie di Marte visti in una foto scattata da un orbiter della NASA, il fenomeno della sublimazione del ghiaccio secco nei poli marziani durante l’estate che li rende di un bianco più luminoso e tantissime altre cose che in cui mi imbatto spesso per caso nel periodo in cui sto ideando o già scrivendo una storia e quindi ci finiscono dentro, in maniera apparentemente naturale, ma in realtà del tutto voluta, cioè con un intento divulgativo.

Secondo te, uno scrittore di fantascienza quali caratteristiche deve avere? E’ necessario che abbia un back-ground scientifico? 

Dipende dal tipo di fantascienza che scrive. Se si tratta di fantascienza soft, cioè non plausibile dal punto di vista scientifico, non è affatto necessario un background del genere, ma basta solo una fantasia particolarmente feconda. Se invece si scrive fantascienza hard, per forza di cose, bisogna essere plausibili e, se anche non è di certo obbligatorio avere una laurea in una materia scientifica, bisogna perlomeno avere una passione per una di esse che spinga lo scrittore a documentarsi e a comprendere, ma soprattutto assorbire e rielaborare le nozioni scientifiche. È ovvio che la fantascienza non è solo soft o hard, ci sono tutta una serie di gradazioni che richiedono competenze più o meno approfondite. Forse, più che un background scientifico, per essere credibili come autori di fantascienza è necessaria talvolta una semplice predisposizione della mente a fare proprie alcune nozioni scientifiche che possono essere apprese nelle maniere più disparate.

Non hai paura di perdere “l’ispirazione”? Il mestiere di scrivere non è fatto appunto solo di mestiere, ma anche di una strana mescolanza tra conscio e inconscio, dal quale nascono le idee nuove. Ti vengono spesso “idee nuove”?

Sai qual è la mia paura? Non vivere abbastanza da poter scrivere tutte le cose che mi vengono in mente di continuo. Anzi, più che una paura è una certezza, purtroppo. La mia immaginazione va mille volte più veloce delle mie dita. Sono piena di nuove idee e prendo di continuo appunti. Ciò che manca è sempre e soltanto il tempo per svilupparle. Ma non importa. Se un’idea non ce la fa, forse non era tanto buona. Chissà! Intanto però continuo ad accumulare idee e se, malauguratamente, un giorno dovessi perdere l’ispirazione, ho comunque tanto di quel materiale da parte che credo proprio mi basterà finché l’ispirazione si deciderà a tornare!

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