Archivio mensile:marzo 2014

Signore, allontana da me questo calice amaro (l’assemblea di condominio)

Sono molto consapevole di quanto sia prezioso il poco tempo che ci è stato dato in concessione, dopo quella notte/pomeriggio/sera/eccetera in cui uno spermatozoo più lesto degli altri ha raggiunto l’ovulo di nostra madre.

Non possiamo buttare via un solo secondo di quel tempo scarso, anche perché non sappiamo quanto camperemo.

Ed è proprio in ragione del mio sacro rispetto per la VITA che vorrei proporre l’abolizione delle assemblee di condominio, che sono uno sputo in faccia alla scarsità di tempo che caratterizza l’esistenza di un essere umano, rispetto per esempio a quella di un sasso.

Un sasso può vivere in eterno, ma NOI NO, e quindi vorrei proporre un 35esimo canto dell’Inferno, dove raccogliere i condomini che invece di discutere in 5 minuti se fare la facciata o meno (tema spinoso della serata), parleranno d’altro e soprattutto ne parleranno A LUNGO.

Le assemblee di condominio sono infatti il triste palco dove prende il sopravvento lo sfigato che altrimenti tacerebbe, sfigato che si trova invece di fronte una platea di NOLENTI ascoltatori, che non gli danno una coltellata solo perché oggi il tema delle SPESE DI CONDOMINIO sta diventando una delle dolenti note (canto V dell’Inferno) degli italiani.

Ecco come mi immagino il 35esimo girone, dove finiranno i condomini che tirano inutilmente in lungo le assemblee, rovinando le serate a chi avrebbe di meglio da fare.

Chi sono i diavoli?

  1. I diavoli sono amministratori con il potere di indire una riunione ogni dieci minuti.
  2. I diavoli in questione possono inviare bollettini postali per il pagamento delle spese in questione ogni venti minuti.
  3. Se il condannato non paga il bollettino, il diavolo gli può comminare un decreto ingiuntivo immediato.

In cosa consiste la pena? Nel  dover discutere per l’eternità di solo dieci argomenti.

  1. piante e fioriere,
  2. pulizia delle cantine,
  3. pulizie del vano scale,
  4. cambio dell’impresa di pulizie,
  5. rumori notturni degli altri condomini,
  6. rumori mattutini dei bambini che escono presto per andare a scuola
  7. cani e gatti in generale,
  8. citofoni in ottone,
  9. campanelli in ottone,
  10. zerbini (uguali o diversi) sui vari piani.

Se qualcuno prova ad accennare a un argomento diverso, il diavolo esattore gli manda un decreto ingiuntivo.

Ma forse questa non sarebbe una pena. Forse no. Forse a loro – i condomini logorroici – ne godrebbero…

 

 

 

Torturatrice gentile

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Ecco Alessandra, la mia gentile torturatrice incaricata da Mondadori di fare l’editing di Omicidi in pausa pranzo.

Ha persino accettato che la fotografassi, mentre faceva l’editing a domicilio.

Sono per davvero un’impiegata e non mi posso permettere di prendere dei giorni di ferie, perché altrimenti dovrei andare a lavorare il 24 dicembre.

E così la gentile ragazza mi ha portato a casa il libro nella versione “macroeditata”, con i suoi commenti a margine, tutti molto congruenti, ed è riuscita a beccare anche un paio di erroracci nella trama (colleghi dati per morti prima del tempo).

Mi ritirerò quindi dalla vita mondana per qualche giorno, visto che dovrò riscrivere l’incipit, il finale e aggiustare molte descrizioni.

Tendo a scrivere in fretta e alcuni personaggi sono tratteggiati in modo un po’ troppo sommario.

Per il momento la palla è in campo mio, nel senso che sono io a dover aggiungere nuove pagine nei punti che Alessandra mi ha segnalato.

Insomma, devo scrivere DI PIÙ, con il mio stile – si è raccomandata Alessandra – quando invece mi aspettavo che il libro venisse asciugato (da lei).

E pensavo di godermi un po’ di riposo, ma la gentile fanciulla ha deciso di mettermi sotto a lavorare.

Le sue osservazioni sono peraltro ragionevolissime e io non soffro della sindrome di Stoccolma.

Non mi batto il petto chiedendo pietà se qualcuno mi tratta male, ma gli corro dietro con un gatto a nove code.

Ma sta succedendo tutto il contrario di quello che mi aspettavo.

Bene, ricomincio a scrivere…

Da Amazon alla Mondadori: ho fatto il salto della quaglia

Sto ritirando i miei libri da Amazon e Create Space perché qualche giorno fa mi è arrivata un’email dall’editor della narrativa italiana di Mondadori, che si chiama Giulia Ichino.

Scriveva che aveva letto tutti i miei libri e voleva conoscermi.

Il tono dell’email era incredibilmente gentile e, quando ci siamo sentite al telefono, anche la sua voce era incredibilmente gentile.

Le avrebbe fatto piacere incontrarmi, aveva spiegato, ma non voleva che arrivassi fino a Segrate, visto che è qualche chilometro fuori Milano.

Giulia avrebbe voluto farmi conoscere anche un altro editor, Federico Grignaschi, che aveva letto i miei libri e conosceva il mio blog.

Allora abbiamo scoperto che a Milano abitiamo vicine, e così Giulia è venuta a casa mia, insieme a Federico, una mattina alle nove, pochi giorni fa.

La sera prima avevo fatto una torta di mele e poi avevo guardato un paio di video su Youtube per sapere com’era la faccia di chi avrebbe suonato al citofono.

Avevo visto una ragazza con i riccioli e un sorriso timido che parlava estasiata di un libro che stava per pubblicare, mentre su Federico non avevo trovato nulla.

Ohibò, mi ero detta, costei non sembra il Moloch austero e severo che ti immagini regnare nelle case editrici, dove l’esordiente viene seppellito, insieme al suo manoscritto, in uno sgabuzzino secondario del quale si butta per sempre la chiave.

Ho una collezione di email e gelide lettere con cui le mie operine sono state rifiutate dalle CE senza neanche quel minino di gentilezza che ti aspetteresti in una lettera precompilata (basta scriverla in tono gentile e poi la mandi uguale a tutti), mentre ora l’editor della narrativa italiana di Mondadori stava per arrivare a casa mia, insieme a un altro estimatore delle mie bocciatissime operine!

Ma non solo, sul mio blog non ho mai fatto mistero di quanto mi sentissi una libera esponente di una nuova ondata di scrittori autopubblicati che presto avrebbero travolto il mondo vecchio e consunto delle case editrici tradizionali.

E adesso due dei più blasonati rappresentati delle CE stavano per mangiare la mia torta di mele che sembrava uscita da un fumetto di Walt Disney  degli anni ’40, quelli in cui nonna Papera mette la torta a raffreddare fuori dalla finestra.

Non voglio tirarla troppo lunga, anche perché, quando ho aperto la porta, mi sono trovata di fronte due persone cortesissime e NORMALI, che non assomigliavano all’editor immaginario della CE, così come me l’ero rappresentato in questi anni.

Assomigliavano invece moltissimo a ME, visto che ci siamo subito messi a parlare di libri (scritti da altri, non dei miei) e di selfpublishing.

Argomento, quest’ultimo, sul quale pensavamo le stesse cose (che però evito di dire).

Federico, che ha la barba “da boscaiolo”, come adesso viene orribilmente definita, sembrava più un guerrigliero sandinista che non un editor della Mondadori.

Abbiamo chiacchierato per un paio d’ore e poi Giulia mi ha chiesto se volevo pubblicare i miei libri con loro.

Mi poneva una sola condizione: rivederli insieme a un editor, perché – questa fase l’ho sentita con le mie orecchie! – bisognava tener conto delle indicazioni date dai lettori che postano su Amazon le loro recensioni, e che loro due si erano lette tutte, dalla prima all’ultima.

OK, la favola è a lieto fine, perché le ho risposto che l’editing non mi faceva paura ma che non avrei accettato un C.A.Z., Contratto ad Anticipo Zero, e infatti riceverò un anticipo più che dignitoso. Ho scritto riceverò, perché il contratto sta arrivando in questi giorni.

E poi le ho detto che avrei continuato scrivere quello che mi pareva sul mio blog, anche sul Berlusca.

Giulia mi ha guardato come se fossi un’extraterrestre: “Puoi scrivere tutto quello che vuoi. E su chi ti pare!”.

E così ho fatto il salto della quaglia. Mondadori pubblicherà i miei libri.

Ho ceduto i diritti per dieci anni. Tanto tempo.

Ho firmato perché spero di guadagnare più di adesso, cosa che succederà solo se il libro (in cartaceo) andrà bene.

I miei libri usciranno anche in ebook, ma a un prezzo più alto di quello attuale, e non so se riuscirò a resistere 232 giorni in classifica come ho fatto quando il prezzo era a 0,99.

E se il libro andrà bene, forse in Mondadori riusciranno a vendere i diritti all’estero.

Non me la sentivo di fare un revenue sharing con un traduttore e partire all’attacco di Amazon.com.

Ho una vita sola e comincio a essere stanca.

E ho voglia di rimettermi a scrivere.

Insomma, volevo liberare il mio tempo per ricominciare a fare (di notte) quello che mi piace fare, e cioè scrivere.

Sono diventata una web-marketer mio malgrado e adesso avrò il tempo di scrivere un altro libro che mi aspetta, nella testa, da anni. 

Tutto qui.

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Dieci (categorie di) persone da mandare a cagare prima di morire

Sarebbe ridicolo, dopo un titolo del genere, dire che non sono il tipo che porta rancore.

Però non sarebbe così falso sostenere che non porto per davvero rancore, perché in realtà trasformo i miei rancori in piani gelidamente concepiti per dimostrare il mio disprezzo alle persone che considero stronze. Cercando quindi di evitare, quando è possibile, la rissa.

In realtà, mi piacerebbe molto essere rissosa. Nelle mie vene scorre sangue romagnolo e i romagnoli sono animali a sangue caldo.

Ma siccome non posso mettermi a menare le persone che detesto (il codice penale è in vigore anche in Italia), trasformo le mie antipatie in disprezzo che faccio gelidamente trapelare dai miei pensieri, opere e omissioni.

In realtà, non ho mai fatto nulla per vendicarmi degli stronzi, anche perché lo stronzo perisce in genere sotto i colpi del destino.

Come spiega infatti Robert Sutton nel “Metodo antistronzi”, gli stronzi si fanno così tanti nemici che prima o poi trovano qualcuno che li fa fuori. Non dico fisicamente, basta che questo qualcuno – più coraggioso di me – li isoli dal gruppo e tolga loro il potere.

Però l’ammetto: sono stufa di limitarmi a manifestare educatamente (e in silenzio) il mio disprezzo per gli stronzi, e avrei invece una gran voglia di mandare APERTAMENTE  qualcuno di loro a cagare, prima di morire.

Faccio un’ultima premessa prima di passare all’elenco delle categorie.

Sono allegra di carattere, anche se mi faccio tendenzialmente i cazzi miei. Ovvero non mordo nessuno se prima non sono stata morsa, anche se non partecipo più di tanto alla vita sociale dei gruppi dove finisco per essere coinvolta (dai colleghi di lavoro ai genitori delle scuole dove va mio figlio).

Il mio elenco comprende quindi tutte quelle persone che sono stata costretta a sopportare, senza mai poterle mandare apertamente a cagare.

Non faccio nomi e cognomi, sempre per via del codice penale. L’elenco comprende quindi solo delle tipologie di persone. Io stessa faccio probabilmente parte di qualcuno di questi.

  1. Gli invidiosi che trasformano la loro invidia in cattivissimi attacchi personali, senza avere il coraggio di confessarsi di essere solamente invidiosi.
  2. Gli accidiosi che passano la vita a lamentarsi (con me) di come gli vanno male le cose, e se provi anche solo a dargli un consiglio, ti mandano subito a cagare (loro).
  3. Gli incompetenti che sono riusciti a raggiungere posizioni o posizioncine di potere, e trattano male chiunque gli capiti sotto mano.
  4. I pettegoli e i calunniatori, che passano la vita a spargere veleni sulle vite altrui.
  5. Le mamme e i papà delle mailing list dei vari Comitati Genitori dove sono finita. C’è sempre un troll (disturbatore, in linguaggio informatico) che comincia a massacrare di email gli altri genitori che in realtà non sono colpevoli di nulla, se non di far parte di quella mailing list. Il troll-genitore non vede l’ora che tu lo mandi a cagare, perché poi direbbe: “Hai visto che la stronza è lei!”.
  6. Tutte le maestre e le insegnanti che hanno messo delle note sul diario di Tommaso perché rideva in classe (è un cuor contento anche lui), e che poi gli rimettevano la nota perché la madre (e cioè io), non aveva firmato la nota precedente.
  7. Tutte le maestre e le insegnanti che negli ultimi sette anni mi hanno consegnato la pagella di mio figlio lamentandosi di lui, perché rideva in classe e faceva battute durante “l’orario di lezione” (meno male che rideva).
  8. I condomini che danno origine a inutili mailing list, nelle quali si lamentano delle foglie che perdono le piante del mio terrazzo o di altre stronzate del genere. E che non posso strozzare a mani nude.
  9. I colleghi che passano la giornata in viva voce al telefono, trapanandoti il cervello, anche se è stata inventata l’email (e i vari chattini).
  10. I cafoni che si prendono la libertà di mandare a cagare chi non gli va a genio, senza quel minimo di civiltà che ti spinge a scrivere post come questi.

Ecco, prima di morire, vorrei trovare il coraggio di passare dall’educato disprezzo alla manifesta villania per almeno una persona per categoria. Ma chissà se troverò mai il coraggio…

Figlio maschio pre-adolescente: tra stalking e batticuore

Mio figlio Tommaso – anni dodici –  sta cominciando  a fare qualche volo fuori dal nido.
Prende da solo la metropolitana a Porta Genova per andare a rugby (che adesso non gli piace più).
Poi sale sul monopattino, che si porta dietro, e fa un chilometro e mezzo, lungo una strada non proprio frequentatissima, per arrivare al campo (che è dalle parti di Lambrate). Ritorna, sempre da solo, verso le nove di sera.

Insomma, non mi posso lamentare dei suoi primi voletti nel mondo, anche perché LUI non ha paura e mi sembra molto tranquillo.

Neanche io ho paura che lo rapiscano gli alieni né tanto meno una banda di pedofili, che preferiscono da sempre razzolare in paesi dove, se sparisce un bambino, non succede niente.
E’ tristissimo, ma verissimo: Cambogia, Vietnam, e altri paesi asiatici sono da sempre la meta preferita del turismo sessuale dei pedofili, perché i bordelli sono tollerati e alla luce del sole. Complice qualche mancia generosa data ai poliziotti locali.

Ma un ragazzino di dodici anni è pur sempre un po’ svagato, e fino a quando Tommaso non è arrivato a casa, sono un po’ in apprensione.

Cosa faccio, allora, se per caso è in ritardo di un quarto d’ora rispetto all’ora in cui dovrebbe tornare da rugby, più o meno verso le nove di sera?

Lo chiamo sul cellulare.

E lui risponde alle mie chiamate?

NO, NO, NO.

Il suo cellulare in genere è scarico, oppure l’ha infilato nella tasca di qualche borsa/cartella e quindi non non sente la suoneria.

E siccome è un maschio, e cioè mostra già tutte le doti di insensibilità e mancanza di attenzione per l’ALTRO che svilupperà poi pienamente da adulto, non pensa che sia il caso di avvisarmi se sta per arrivare con mezz’ora di ritardo.

Tommaso scompare dai radar, alle nove di sera, e se ne fotte.

Magari l’allenamento è durato un po’ di più, oppure gli succedono cose buffe, come per esempio perdere una scarpa.

Lui sa di essere in ritardo, ma non mi telefona per dirmelo.

Io allora comincio a chiamarlo sul cellulare, che in genere è spento.
Se invece il cellulare è acceso, lui non risponde.

In quel quarto d’ora di ritardo immagino che Tommaso sia stato rapito veramente dagli alieni oppure da una banda di criminali che lo porteranno per sempre via da me, o magari l’ha tirato sotto una macchina.

Mi chiedo quanto aspetterò prima di chiamare la Polizia per avvisare che mio figlio è scomparso.
A meno che non siano prima i poliziotti a chiamarmi per dire che Tommaso è in un Pronto Soccorso e devo correre da lui.

Non credo di essere “fuori media” con le mie ansie.
Forse i padri non le hanno o le hanno meno di una madre.

Una volta i padri avevano il compito di impedire che i figli – maschi – restassero incollati alle gonne della mamma, ed era loro compito difenderli dai tentativi di “trattenimento” compiuti dalle madri.

Non so se sia vero anche oggi. So solo che cerco di non trattenere mio figlio, anche se poi lo stalko inutilmente sul cellulare.

E rimango da sola col mio batticuore.

#Twitter I #love and #hate you by @veloceviola

Twitter è un social network che presenta livelli di difficoltà diversi – come i videogiochi che fa mio figlio – a seconda di come lo vuoi usare.

Puoi twittare delle semplici frasi testuali, ma puoi anche puoi aggiungere un hashtag, inserire una foto, usare i post in grafica, citare qualcuno, eccetera.

E puoi anche utilizzare un discreto numero di App che retwittano più volte lo stesso contenuto (così che i tuoi follower lo vedano anche se si collegano in momenti diversi da quello in cui l’hai postato per la prima volta), oppure che cancellano i following che non diventano tuoi follower, e così via.

Quello che devi decidere, però, è se vuoi usare Twitter per postare le tue fulminanti battute – che diventano per davvero virali, se sono per davvero buone – o se lo vuoi usare per citare contenuti che rimandano a qualcos’altro: un post che hai appena scritto su un blog, una foto, un libro che hai pubblicato su Amazon, eccetera.

Oppure – e qui secondo me si rischia moltissimo di annoiare il potenziale lettore – puoi twittare le tue conversazioni con gli amici.

In questo caso i twett diventano quelle cose incomprensibili che sembrano scritte da un extraterrestre, dove le parole quasi scompaiono per lasciare posto a hashtag, chioccioline, e link.

Bene, anche se uso Twitter nel modo più stupido e becero possibile – posto il link dei miei post sul blog – sono in grado di capire che i miei twett hanno una viralità prossima allo zero.

Su Twitter sono virali solo un paio di tipologie di tweet.

La prima è quella dei tweet con le foto e i selfie fatte da attori, cantanti, eccetera, perché li riprendono in momenti molto intimi e informali, e ti danno veramente l’impressione di poterli vedere come sono a casa loro.

Mi sono guardata anch’io tutte le foto postate da Ashton Kutcher quando stava con Demi Moore, perché appagavano la curiosità morbosa di una ex-lettrice di rotocalchi (guarita), che adesso può avere la sensazione di andare veramente alla stessa festa in cui va quel gran figo di Ashton, dato che guarda in diretta le foto pubblicate da lui.

Twitter è quindi un social potentissimo e viralissimo per chi è già molto visibile (di questa categoria non fanno parte solo gli attori, eccetera, ma anche personaggi nati sul web, ma che hanno un sito/blog molto conosciuto).

Ma per gli altri? Per i milioni di utenti ZERO che fanno fatica a mettere insieme un paio di centinaia di follower?

Bene, l’unica possibilità di diventare virale per un utente ZERO (categoria della quale faccio parte) è di buttarsi nella seconda tipologia di tweet che funziona, e cioè quella delle BATTUTE GENIALI E FOLGORANTI come quelle di Spinoza o di Casalegglo (che sta scomparendo).

Ma a nessun essere umano verrebbero più di un paio di battute buone al giorno, e il merito di Spinoza sta nel fatto di essere non solo un battutista, ma anche un uomo capace di selezionare le battute migliori della rete (che retwetta), mentre il finto Casaleggio era in realtà un “collettivo” composto da quattro persone (o forse qualcuna di più), che per qualche mese hanno fatto le migliori battute di satira politica di tutto il tweet made in Italy.

Insomma, Twitter è difficile, faticoso, e il “successo” (misurato in termini di follower) è alla portata di pochissimi.

Io di follower ne ho 217 e sono senza speranze.

Ma siccome ho una vita sola, e Twitter è veramente time-consuming, mi rassegno alla mia mediocre carriera di twittatrice.

Anche perché faccio meno fatica a scrivere un post prolisso e verboso come questo, che non a farmi venire in mente una di quelle battute che ammiravo e invidiavo del finto Casaleggio. Visto che persino loro si devono essere stufati.

#vadoadormire
#sonodisgrafica
#scusateirefusi

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Stanchezza digitale

No, non sono nata digitale, ma lo sono diventata.

Senza il web, io e Tommaso saremmo morti di fame, perché non avrei potuto fare la spesa online.

Senza il web, non sarei potuta andare in vacanza, perché avrei dovuto prendere chissà quanti giorni di ferie per prenotare treni, autobus, piazzole in campeggio.

L’elenco è lungo, lunghissimo, perché ho appena comprato a Tommaso delle pellicole per il suo cellulare su Amazon, poi  ho prenotato su Booking.com un albergo (devo andare da un dentista fuori Milano) che costerebbe 120 euro, ma grazie a non so quale sconto web, l’ho pagato solo 60.

Ho anche scoperto come fare per arrivare a Lovere (dove si trova il dentista), e ho salvato gli orari come PDF su Chrome e li ho quindi salvati su Google Drive per trovarmeli già pronti quando sarò in viaggio.

E poi ho aiutato Tommaso a fare le mappe logiche su Cmaps, un programma americano che devono usare i dislessici.

Durante il giorno, ho lavorato, e cioè sono stata svariate ore davanti a un PC.

Insomma, grazie al web – ma questa è l’acqua calda – possiamo molte più cose di una volta, e nel mio caso particolare, grazie al web ho potuto lavorare a tempo pieno (guadagnando un intero stipendio), senza aver bisogno di mantenere una moglie che si occupasse di dar mano alla casa, come diceva Pavese. E di pagare le bollette in Posta o andare in banca a ritirare un libretto degli assegni.

Una donna oggi può sopravvivere – grazie al web – anche con un impiego a tempo pieno, mentre invece, fino a pochi anni fa, un lavoro a tempo pieno sarebbe stato incompatibile con la vita “familiare”.

Vorrei solo dire una cosa: alla fine delle mie giornate sono stanca.

Forse perché non sono nata digitale, o forse perché faccio due vite al posto di una.

Ma sono stanca. Questo non lo posso negare.

La fine delle parole

Non so se in Italia si stia accelerando un corso che altrove ha passi più lenti, ma in questi giorni mi sembra di assistere alla fine delle parole.

Stanno scomparendo anche dai giornali.

Le ultime versioni online di Repubblica e Corriere – versioni “tablet” come le chiamano – portano le parole in secondo piano rispetto alle foto e ai video.

Insomma, le parole sono solo il commento alla galleria di immagini che l’utente è invogliato a vedere fino alla fine. E se le immagini gli sono piaciute, allora forse leggerà anche qualche riga di testo per capire a cosa si riferiscono.

Forse in Italia si sta anticipando un fenomeno che riguarderà anche il resto del mondo, quando le parole definitivamente saranno sostituite dalle immagini (ferme o in movimento).

Non so se la stampa straniera stia scivolando così velocemente verso questa china, o se invece il proceso sia più rallentato che da noi.

Il New York Times non ha ancora sbattuto via le parole, e resistono settimanali austeri come l’Economist, dove il lettore deve LEGGERE.

Noi italiani siamo ancora convinti di detenere la supremazia nel mondo dell’arte e delle lettere, ma Dante è morto da un bel po’ e i nostri maggiori architetti costruiscono all’estero.

Forse dovremmo rassegnarci al fatto che ormai siamo un paese allo sbando per quanto riguarda la produzione intellettuale e artistica.

Sì, so bene che le mie sembrano chiacchiere da treno, ma ormai i giornali cartacei sono scomparsi dai vagoni della metropolitana che prendo tutte le mattine, e stanno scomparendo anche i libri (di carta). Sostituiti, quest’ultimi, qualche volta da un e-reader, ma più spesso da uno smartphone.

Provo a sbirciare delle volte sugli schermi degli smartphone dei mie vicini in metropolitana, e mi sembra che nessuno legga un giornale online (che sugli smartphone non sono gratis), ma guardi le foto su Facebook pubblicate la sera prima dai suoi amici o faccia qualche gioco online.

Non so che cosa leggerà mio figlio tra vent’anni, visto che adesso legge solo Topolino e il Diario di una Schiappa, ma sono abbastanza sicura che userà un social network per tenersi informato su quello che fanno i suoi amici, che pubblicheranno delle foto corredate da brevi didascalie.

E solo molto raramente guarderà qualche altra foto sui giornali online, possibilmente di vulcani che eruttano, tsunami che spazzano i porti, e altri spettacolari “argomenti”.

Noi forse siamo gli ultimi – in Italia – che sappiamo scrivere un articolo di giornale o addirittura un libro. E forse siamo gli ultimi che lo leggeranno.

Mentre invece, nei paesi anglosassoni dove i “centri di eccellenza” – espressione orrenda – continuano a esistere, è probabile che il lettore-scrittore sopravviva un po’ di più.

Ma non tantissimo, secondo me.

Nuovi mestieri: il marketing del self-published

In questi giorni sto continuando a insistere con Wirton Arvel, perché cominci a offrire i suoi servizi nel mondo del self-publishing. Ho fatto questa proposta anche a Rita Carla Francesca Monticelli, perchè anche lei smanetta parecchio.

Wirton, per esempio, continua a pubblicare (nei forum di Facebook) dei trattati su Twitter incredibilmente interessanti e sta addirittura mettendo a punto una specie di App artigianale per fare girare i suoi post sui vari Social.

Ordunque, quello del pubblicitario è un mestiere onesto, come ho più volte sostenuto, perché la pubblicità consiste nel fare sapere che esiste un determinato prodotto, e quali sono le sue caratteristiche.

Naturalmente non è onesto dire che una merenda per bambini, piena di conservanti, fa bene alla salute perché gli hanno aggiunto un po’ di vitamine, ma in generale, senza pubblicità, nessuno riuscirebbe a vendere nulla.

Non si spiegherebbe perché i grandi marchi italiani della moda continuano a fare pubblicità, anche se sono conosciuti in tutto il mondo. Se Armani smettere di comprare spazi pubblicitari, nel giro di pochi mesi diventerebbe una boutique di Milano, conosciuta da pochi e affezionati cultori dello stile semplice e pulito di Armani.

Non voglio con questo sostenere che il mondo nel quale viviamo è bello e giusto, e che è cosa buona e doverosa spendere milioni di euro per convincere la gente a comprare una cintura, ma non possiamo tornare indietro ai tempi del baratto.

Anche sui Social si può fare ADV, come cerca di fare Wirton, e cioè cerca di trovare un modo per parlare in giro dei prodotti che lo interessano: i libri.

Ma avvisare i lettori della pubblicazione di un nuovo ebook non è facile.

Primo, perché ormai sul mercato digitale c’è una grossa concorrenza.

Secondo, perché sul mercato digitale, ci sono margini bassi, e quindi budget molto bassi da investire in ADV,

La potenza dei Social nasce proprio da qui: se a qualcuno piace il tuo prodotto, lo condividerà gratuitamente, di sua spontanea iniziativa.

E quindi il tuo piccolo investimento iniziale potrà “rendere” molto di più se viene veicolato da un social network, che non nel caso in cui tu compri una pagina di giornale o un cartellone pubblicitario.

Insomma, credo che uno dei mestieri futuri potrà essere quello del promoter di autori autopubblicati.

Non ci saranno grandi budget a disposizione, e chi farà il promoter dovrà essere un veloce e svelto smanettone, capace di inventarsi un marketing creativo e social.

Perché scrivere un libro e metterlo online su Amazon è forse la cosa più facile da fare.

Quella più difficile è come far sapere che l’hai pubblicato…

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Tutto vero

Ho chiesto a Claudia Peduzzi il permesso di pubblicare la sua recensione, che è gentile ma onesta, perché quello che scrive è tutto vero.

  1. Ho avuto una seria passione per Camera Cafè e ho passato intere serate a guardare le vecchie puntate con mio figlio sul PC.
  2. Il mio libro non è un giallo in senso tradizionale, perché la trama serve solo a raccontare che cosa succede in un normale ufficio italiano, e deluderei chi cerca la suspence.
  3. Sono stata a lungo negli humour di Amazon, che però si stanno risollevando solo recentemente (all’inizio negli humour c’erano i fumetti di Diabolik).

Ecco l’onesta recensione.

Ho conosciuto Viola Veloce come blogger e solo in un secondo tempo – dopo che mi ha inaspettatamente intervistato come “prototipo di lettore digitale” – ho letto il romanzo da cui origina il nome del blog: Omicidi in pausa pranzo.

Sarà che la scenografia degli “omicidi” mi ha ricordato quella di Camera Cafè, ma – dal momento che Viola afferma che non svelerà il suo vero nome almeno fino alla pensione (leggete il libro e capirete anche perché) – mi piace immaginarla con il volto, la voce e la verve di Debora Villa, che seguo tutte le mattine su Radio Montecarlo. Non so bene perché, ma le sento molto affini.

La veloce descrizione che l’autrice ha lasciato di sé sul blog, i titoli dei suoi due libri precedenti (Mamme Bailamme e Mariti in salsa web), e in generale tutto quello che racconta nei suoi pezzi mi ha ricordato anche il titolo di un film (che per altro non ho visto): “Ma come fa a far tutto”, la cui protagonista è un altro dei miei miti: Sarah Jessica Parker, alias Carry in Sex and the City.

La premessa può sembrare fuori luogo, invece serve a spiegare perché, a mio parere, Omicidi in pausa pranzo si trovi nella categoria Amazon sbagliata, rischiando quindi di non raggiungere il giusto target. Sono una lettrice onnivora, per cui non faccio molto caso alle categorie, ma capisco che un lettore appassionato esclusivamente di Gialli e thriller che compra Omicidi in pausa pranzo – trovandolo al 5° posto dietro a Lee Child (mio autore thriller preferito) e Patricia Cornwell – potrebbe sentirsi raggirato. Diverso sarebbe se trovasse il libro anche ai primi posti nella categoria humor.

Per amor di cronaca devo ammettere che, scorso velocemente i primi venti titoli della categoria su Amazon.it, capisco che l’autrice potrebbe risentirsi a stare lì in mezzo. Tuttavia una veloce occhiata alla stessa categoria su Amazon.uk mi ha risollevata. Non sono io ad essere in errore, è il lettore medio italiano che non sa distinguere tra humour e barzellette di infimo livello.

A mio parere la trama gialla è solo un pretesto e vedrei bene il racconto anche nel gruppo Società e scienze sociali. Viola è bravissima a identificare le diverse tipologie umane, come del resto fa quasi quotidianamente nel suo blog.

La protagonista Francesca, la sua famiglia, i suoi colleghi e superiori, ognuno impersona un “tipo”, qualcuno che anche noi possiamo facilmente identificare tra le nostre conoscenze. La prima vittima, ad esempio, è la classica impiegata “inutile, ma innocua e di buon animo”. Il suo sostituto dimostra che avere un collega che non fa niente non è il peggio che possa capitare. Infatti potrebbe “fare”, ma solo danni ed essere magari anche paranoico, permaloso e aggressivo.

Raggiungere posizioni lavorative senza merito non è inoltre prerogativa solo della categoria impiegati, anzi il problema diventa molto più grave ed evidente più si sale nella scala gerarchica. Qualche mela marcia nelle truppe non cambia il risultato, ma se al comando ci sono degli incapaci la guerra è persa in partenza.

Non lavorando in una grande azienda (vista la descrizione mi sento di affermare: per fortuna!) mi sono divertita di più con le tipologie famigliari: la figlia trentenne lasciata sull’altare dopo un fidanzamento decennale, la mamma disposta a mandarla agli speed-date pur di vederla accasata, la povera ragazza che arriva a pagare ai genitori una crociera (fingendo una vincita ad un concorso) pur di avere qualche giorno di tregua … I personaggi sono ovviamente caricaturali, ma perfettamente plausibili.

Viola ne resterà delusa, ma non è stato difficile individuare il colpevole. Non per questo ho perso il piacere della lettura. Come ho detto gli omicidi sono solo un pretesto per denunciare tante piccole e grandi incongruenze della nostra società, le nostre più o meno innocue manie, insomma un modo per sdrammatizzare. L’unico modo per vivere felici, infatti, è cercare di non prendersi troppo sul serio!

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