Archivio mensile:luglio 2014

Vita da badanti

E’ successo per caso.

Una domenica mattina in cui dovevo accompagnare mio figlio Tommaso a fare una gara in una palestra di Milano 2, sono scesa insieme a lui alla fermata della metropolitana di Cascina Gobba.

Avevo un appuntamento con degli amici ed eravamo in anticipo.

Ho seguito una folla di donne straniere – credo fossero ucraine, ma forse anche moldave – che si dirigeva verso un mercato improvvisato, poco distante dalla stazione.

Sono arrivata in un piazzale dov’erano raccolte una ventina di bancarelle che vendevano salumi di fabbricazione chiaramente industriale – salamoni e wusteroni insaccati nella plastica – oltre a qualche altro prodotto alimentare di provenienza ucraina: marmellate, birre, biscotti.

Tutti i frequentatori del mercato erano stranieri e le donne sembravano badanti in libera uscita domenicale. Pronte a lanciarsi sul panino imbottito col salame che ha il sapore di casa, non importa se il sapore di casa sia buono a cattivo, quello che conta è che ti ricordi un momento piacevole della tua vita: quando ancora vivevi a casa tua, nel tuo paese.

So di scrivere banalità e so che citare Proust è una burinata. Ma dalle Madeleines che Proust mangiava da piccolo a casa della zia – e che riassaggia da adulto – partono non so più quanti volume di un romanzo che non ho mai finito, anche se ricordo perfettamente la storia delle Madeleines.

Ecco, per le badanti in gita domenicale a Cascina Gobba, i salami industriali ucraini profumati di aglio e di altre spezie che forse non piacerebbero a Carlo Cracco, erano le Madeleines di Proust.

Un pezzo felice di Ucraina trasportato a Milano dai camioncini che fanno la spola con l’Est e che trasportano badanti – in entrata e uscita dal nostro paese – oltre che pacchi di cibo, vestiti, eccetera che le badanti mandano a casa, ai loro figli.

Sono piccoli autobus, da una ventina di posti, dove una parte viene in genere riservata ai pacchi di vettovaglie che partono dall’Italia alla volta dell’Est.

Mi sono informata: un posto sul pulmino costa circa 120 euro. Ci vogliono più o meno 24 ore di viaggio per arrivare a destinazione.

Spedire un pacco costa 1 euro al chilo. Le badanti mandano ai figli almeno un pacco al mese, che contiene generi alimentari come pasta, olio, pomodori pelati, ma anche detersivi, vestiti, scarpe.

Le badanti spediscono anche denaro, che viene in genere consegnato dall’autista direttamente ai familiari. In questo caso, la percentuale che bisogna pagare al conducente del camioncino è il 3% della somma inviata.

Conosco un buon numero di donne che fanno le badanti: tutte vorrebbero tornare a vivere nel loro paese. Ma spesso i loro figli non hanno lavoro, oppure sono divorziati o magari vogliono comprarsi il computer.

E le donne – le madri – per i figli fanno tutto, compreso passare la settimana chiuse in casa con un anziano che non si alza dal letto e del quale dovranno dovranno occuparsi fino alla fine, nella speranza che muoia il più tardi possibile.

Nel frattempo, se hanno un contratto di lavoro regolare, pagano dei contributi che non gli daranno quasi mai il diritto alla pensione. Se invece sono prive di un contratto di lavoro, devono sperare di non ammalarsi loro, perché non hanno diritto all’assistenza sanitaria.

Auguro a queste donne di poter tornare nel loro paese quando saranno vecchie, e auguro loro di riuscire a mettere qualche soldo da parte per la loro vecchiaia.

Ma qualche sera fa, sono stata fermata alla Stazione Centrale da una donna anziana – con gli occhi azzurissimi – che mi ha chiesto l’elemosina.

Era vestita tutta carina con una camicia bianca e un golfino azzurro.

Le ho chiesto di dov’era. Ucraina, mi ha risposto. E poi mi ha detto che il suo “anziano” era morto, e lei “non dormiva per strada”, e cioè affittava ancora un posto letto in qualche casa condivisa da badanti ed ex-badanti.

Non le ho chiesto perché non tornava a vivere in Ucraina, perché non volevo sentire la risposta. Forse non aveva più figli che l’aspettavano, o forse sperava di mandargli ancora un pacco con la pasta e l’olio, consegnato dagli autisti di Cascina Gobba.

Però adesso arrivo alle meste conclusioni:

  1. siamo ancora un paese abbastanza ricco per importare mano d’opera a basso costo che si occupi dei nostri anziani,
  2. le donne sono disposte a fare sacrifici inumani per i loro figli,
  3. non so che ne sarà delle badanti da vecchie: auguro loro di tornare a casa con un po’ di risparmi per campare gli ultimi anni,
  4. la mia generazione non disporrà di denaro sufficiente per essere assistita privatamente da una badante e quindi tra un po’ l’italia potrebbe non essere più in grado di offrire sbocchi occupazionali a donne straniere,
  5. se va avanti così, potrei finire io a fare la badante a Pechino,
  6. non ho mai votato per la Lega – come si potrà ben capire – e Salvini mi fa venire l’orticaria,
  7. propongo di spedirlo in Ucraina nella scatola con la pummarola, nella speranza che ce lo rimandino indietro nella forma di salame insaccato e insaporito con l’aglio.
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La battaglia persa dei social network

Faccio parte della schiera di chi combatte sui social per ritagliarsi pezzi di ascolto e di attenzione.

Non so neanch’io cosa mi spinga a farlo.

In una vita precedente sono stata una giornalista, poi il capitolo si è chiuso molto bruscamente.

Fino a pochi anni fa per pubblicare un articolo bisognava conoscere i redattori, proporgli i pezzi, scriverli, mandarglieli, aspettare e sperare che li approvassero, e quindi attendere la pubblicazione del quotidiano o del settimanale per leggerli.

Bastava quindi uscire dal giro dei redattori “amici” – ero una giornalista free-lance, oggi si direbbe precaria – per smettere di pubblicare i propri articoli.

Il web oggi ti permette di scrivere quello che ti pare senza supplicare nessuno.

Un passo avanti notevolissimo rispetto agli anni in cui dovevi supplicare i redattori dei giornali.

Stesso discorso con gli ebook. Nessuno mi pubblicava i mie libri, e me li sono pubblicata da sola. Punto.

E nel frattempo erano arrivati i social network, e TUTTI hanno cominciato a dire quello che pensavano, senza aver bisogno d’altro che di una connessione e di un PC.

Il paradosso è che in un mondo in cui saremo tutti connessi, ognuno con molteplici account sui social network, e tutti finalmente liberi dalla vecchia timidezza di una volta, ci vorrà qualcuno che ci ascolta.

Se qualche miliardo di utenti commenterà tutto quello che viene scritto quotidianamente sulle piattaforme digitali, ci vorrà qualche altro miliardo di utenti disposto a leggere quello che scrivono gli altri.

Ecco, credo che quando saremo tutti connessi, vi sarà il rischio che il frastuono collettivo delle nostre voci copra il rumore di ogni singola voce.

Io ho avuto la fortuna di assistere alla rivoluzione digitale, e ho la fortuna di poter scrivere quello che mi pare senza dover più inginocchiarmi davanti a un caporedattore.

Ma ho l’impressione di essere anch’io parte attiva del rombare collettivo delle nostre voci libere, e ho paura di sembrare una cretina narcisista che continua a dare colpi al PROPRIO tamburo.

Non escludo, quindi, di smettere di dare disturbo, in un giorno non molto lontano.

Questo non significa smettere di scrivere – i libri continueranno a esistere e a essere scritti – ma forse sarebbe meglio se mi iscrivessi a un corso di Pilates invece di postare sul blog.

Mi farebbe bene alla salute e non mancherei a nessuno.

E mi ritirerei con onore dalla battaglia persa – sui social network – di far sentire la propria voce sopra quella degli altri.

Ma i social danno addiction: appena manca la connessione ti senti male.

Insomma, questo è un altro post della serie inutile-depresso.

Mi cestino da sola.

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Consigli ai politici italiani: imparate dal sindaco di New York!

Sì, c’è di nuovo una guerra tra Hamas e Israele, una in Ucraina, e ci sono varie guerrette sparse per il mondo.

Sui giornali troviamo sbocchi di sangue quotidiani, in una corsa alla cattiva notizia che spaventa.

In Italia, però, gira una tristezza diffusa che non mi sembra il semplice risultato di uno sbocco empatico per i razzi di Hamas o quelli dell’esercito quotidiano.

La mia impressione è che la tristezza di noi italiani dipenda dalla lenta caduta collettiva della classe media verso un futuro incerto e di poche speranze.

Sono in arrivo le vacanze e per molti è il momento di farsi i conti in tasca: quante settimane al mare quest’anno? E l’anno prossimo?

Non tutti sono così fortunati – come me – da possedere una roulotte usata di decima mano (in Croazia), comprata quando presentivo l’arrivo dei tempi grami.

Neanche Renzi – biancovestito insieme alla moglie – riesce a farci passare la tristezza di questi tempi in cui si sente il sibilo dell’acqua che entra dalla falla, mentre la barca si rovescia lentamente.

Ho addirittura il sospetto che, dal punto di vista comunicativo, lo stile di Renzi possa sembrare poco sobrio e soprattutto poco efficace.

Lui tutto pimpante che guida la Smart, le camice bianche abbinate ai pizzi della moglie, l’aria giocosa e felice di chi se la passa bene: tutti fattori che mal si adattano alla puzza di bruciato che accompagna questi giorni estivi italiani, in cui le famiglie non possono più andare in vacanza come negli anni passati.

Bill De Blasio, il sindaco di New York, che non è certamente un idiota, si presenta invece all’aeroporto di Fiumicino col bagaglio a mano, le scarpe da ginnastica, e i figli piercati vestiti da turisti americani.
Dante e Chiara si chiamano i due eccentrici – e quindi normalissimi – adolescenti.

sindaco new york-2Insomma, gli americani hanno già visto affondare la loro classe media e oggi votano volentieri per persone che gli assomigliano.

E i politici americani stanno cambiando il loro modo di proporsi ai media: si presentano come persone normali, che fanno una vita assolutamente identica a quella dei loro elettori.

Insomma, non manca molto al giorno in cui in nessuno sarà disposto a dare il voto a qualcuno che assomigli anche solo lontanamente a un “borghese“, per quanto vecchia possa sembrare questa parola.

Anche i nostri vecchi-giovani politici italiani dovranno quindi imparare a sembrare persone della classe media (che affonda)  se vorranno ancora farsi votare da chi non va più in vacanza.

Altrimenti correranno il rischio di perdere quel po’ di simpatia guadagnata con i famosi 80 euro.

P.S.
Mi rendo conto che il post possa sembrare frivolo, ma non posso fare a meno di notare le differenze fra le giacche fatte su misura dai sarti italiani alla casta nostrana, e le camice da 50 dollari di Mr De Blasio.

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Accumulo provviste alimentari per la crisi che verrà

Stiamo svendendo gli ultimi scampoli di industria nazionale – Indesit e Merloni – anche se i giornalisti ci assicurano che le aziende acquisite da gruppi stranieri vanno meglio DOPO che non PRIMA dell’acquisizione.

Faccio un elenchino per farvi capire cosa sta succedendo.

I Cioccolatini Pernigotti sono turchi.

Krizia è cinese.

Valentino di proprietà di un emiro del Katar.

La Zanussi è svedese.

Ducati e Lamborgini sono tedesche, eccetera.

Bisogna riconoscere che quando le nostre aziende vengono acquisite, i nuovi padroni non licenziano gli stilisti o gli ingegneri per sostituirli con ingegneri e stilisti turchi o tedeschi. No, si tengono i NOSTRI tecnici, i nostri disegnatori, i nostri progettisti, e magari li inseriscono in grandi team internazionali, nei quali gli italiani hanno molto da dire e molto da dare.

A riprova del fatto che non siamo un popolo di cretini. Ma siamo però malgovernati e malgestiti da politici e “capitalisti” locali, che non sono stati capaci di fare il grande salto nella globalizzazione.

Non c’è quasi più nulla da vendere in Italia, anche se vendere agli stranieri sembra l’unico modo per mantenere lo zoccolo di industrie manifatturiere che ci hanno fatto crescere economicamente negli anni del miracolo italiano.

C’è puzza di fine del mondo – in Italia – perché QUESTA classe politica ed economia ha perso la partita.

Io spero sempre che sia possibile liberarci di loro, ma non ne sono più così convinta.

Insomma, ho PAURA.

E so che la paura serve a farci fare quello che vogliono, ad accettare contratti di lavoro schifosi, a piegarci politicamente di fronte ai più prepotenti.

Ma – in fondo, in fondo – sono una donna, con istinti primitivi.

E cosa faccio, quando ho gli attacchi di paura cosmica?

Vado all’Esselunga e compro provviste da Terza Guerra Mondiale.

Tutte scontate, tutte in quantità ciclopiche, e me le faccio portare a casa, dove le accumulo – anzi le accatasto – in ogni dove.

Detersivi, olio, pasta, carta igienica, croccantini per i gatti, tonno, mele nei sacchetti da due chili, eccetera.

Mi tranquillizza richiudermi nel mio fortino protetto, dove i gatti non moriranno di fame e a me e Tommaso non verrà lo scorbuto, come su una nave di bucanieri dell’Ottocento.

Io però mi conosco – so che funziono così – ma le due amiche che mi erano venute a salutare venerdì pomeriggio, hanno strabuzzato gli occhi quando i forzuti signori dell’Esselunga hanno scaricato la spesa dall’ascensore.

Non ho la macchina, e le operazioni in cui compro 10 litri di detersivo scontato avvengono grazie alla consegna a domicilio, che si annuncia con una scampanellata liberatoria: “Finalmente sono arrivate le provviste di guerra!“.

Le due ragazze mi hanno guardato un po’ stupide, chiedendomi: “Ma quanta roba hai comprato?“.

Ecco, non ho detto alle due signore la verità, e cioè che avevo un attacco d’ansia politico-economica, conseguente alla vendita di Indesit e Merloni.

Al quale reagisco comprando carta igienica.

Ma rimirare i pacchi da dodici rotoli non mi ha calmato.

Gli Spumanti Gancia sono russi.

Qui, tra un po’, ci vendiamo anche le mutande.

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Facebook (ma anche Instagram e WhatsApp), io vivo per te!

Prima di arrivare alla tesi – viviamo nel mondo REALE solo per proiettare il nostro riverbero in quello VIRTUALE – descriverò il mio ultimo sabato pomeriggio, in cui è avvenuta l’illuminazione sulla definitiva perdita di peso del REALE rispetto al VIRTUALE.

Ordunque, perseguo da sempre l’obiettivo di liberarmi di Tommaso per almeno un paio di settimane all’anno, in luglio, quando finalmente mio figlio parte per la colonia estiva, dove viene confinato dalla madre sciagurata da quando aveva CINQUE anni.

Aspetto quelle due settimane per tutto l’anno. Le anelo. Lui parte, e io non mi muovo da Milano.

Passo un paio di week-end assolutamente vuoti, in cui non faccio nulla se non riposarmi e godermi la casa quasi in ordine.

Chiudo subito la porta della stanza di mio figlio, dopo aver controllato che non ci siano rifiuti alimentari che potrebbero marcire, per riaprirla la sera in cui torna.

Quest’anno avevo anche fatto la furbetta, nel senso che l’avevo iscritto addirittura a DUE colonie, con l’idea di portare a quattro le settimane in cui la sua stanza rimaneva chiusa e la casa restava in ordine.

Ma, dopo la prima colonia, Tommaso ha puntato i piedi: “Non parto più! Io resto a Milano!“.

Ho insistito un po’, gli ho persino promesso una bella cifretta (150 euro!) se fosse partito, ma lui, no, testardo come un mulo, ha ripetuto il concetto: “Io non parto!“.

E così sabato scorso, in una Milano deserta, desolata, sfigata, ci siamo ritrovati da soli, io e lui, a giracchiare annoiati attorno a casa.

Abbiamo chiacchierato con tutti i negozianti della via, compresa una pasticcera ottantenne, e poi ho capito che eravamo tutti e due depressi dal caldo e dalla sfiga.

Ho invitato a cena una mia amica, Paola, che Tommaso ama moltissimo, ma lei non poteva venire.

Abbiamo ripiegato sull’aperitivo in un bar di Via Vigevano, i cui proprietari sono cinesi, e che Paola chiama “Cinciullà” (lei, non io, e quindi è lei politically scorrect, non io).

Ma quando ci siamo sedute, lei ha smesso di parlare – come fa tutte le volte che andiamo da Cinciullà – per osservare la folla allegra e strana che ci passava di fronte.

“Cazzo!”, ho pensato, “io e Tommaso siamo usciti per parlare con qualcuno, e lei si mette a guardare in silenzio la gente che passa!”.

Ma non c’è stato verso di farla parlare. Paola taceva. Taceva e guardava. Folgorata dalla Commedia umana, per citare malamente Balzac.

Allora ho guardato anch’io.

Nel giro di cinque minuti, sono passati un paio di branchi di femmine che stavano festeggiando l’addio al nubilato di una di loro (con una probabile e futura ricca bevuta in compagnia).

Erano tutte sprosciuttate (coi prosciutti di fuori) e seguivano una capobranco – la futura sposa – che aveva in mano un bouquet.

Il segno distintivo di uno dei due branchi era un cartellino al collo con sopra il nome della sposa, mentre l’altro branco era dotato del medesimo paio di occhialoni a forma di cuore, quelli giganti che vendono sui banchetti del Ticinese.

Le ragazze erano allegre, allegrissime, e sembravano decise a divertirsi. O forse dovrei dire a fotografarsi

Erano infatti tutte munite di smartphone e si fotografavano l’un l’altra, per condividere immediatamente la foto venuta bene.

Ma, soprattutto, erano alla ricerca di qualche foto diversa dalle altre…

Erano infatti seduti di fianco al nostro tavolo due finti cowboy – cappellaccio e giacca con le frange – sopra i sessanta e con i capelli tinti, resti archeologici e colorati di un’altra era.

Molto, molto particolari.

Perfetti per finire per finire su Facebook (o su Instagram o WhatsApp).

Le ragazze con gli occhialoni a forma di cuore si sono buttate subito sui cowboy e hanno chiesto al più anziano dei due se poteva dare un bacio alla sposa. Mentre le altre gli facevano una foto.

Il cowboy ha accettato – mentre i cellulari scattavano – e dopo meno di un secondo era finito su Facebook (Instagram e WhatsApp).

Le ragazze l’hanno infatti ignorato SUBITO DOPO aver avergli carpito al foto. Hanno cominciato a smanettare sui cellu per postare le foto della sposa col cowboy (e farsi dare un “Mi piace” o qualcosa del genere).

Poi sono corse via alla ricerca di altre FOTO DIVERTENTI da fare e postare subito su uno dei social network di proprietà di Zuckerberg.

E’ stato in quel momento che ho avuto l’illuminazione: le ragazze stavano festeggiando nel mondo REALE l’addio al nubilato solo perché sarebbe stato riverberato in quello VIRTUALE.

Sì, una volta c’erano le foto. Anche quelle erano virtuali, perché si fotografa sempre il passato.

Ma una volta uscivi con le amiche solo per farti quattro risate, senza passare la sera a postare il selfie (parola orrenda) con la tua amica che rideva.

Insomma, la prova ontologica della felicità è una nostra foto sorridente postata su un social.

Forse stiamo esagerando…

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Electronic stress: dalla meccanica all’elettronica

Questa sera ho praticamente preso a pugni la caldaietta di casa – elettronica – perché, dopo l’ultimo controllo sullo “scarico fumi”, il tecnico ha deciso di settare automaticamente la temperatura dell’acqua calda a 67 gradi, disabilitando un pulsantino che prima mi consentiva di scegliere la temperatura preferita dell’acqua, che naturalmente è molto al di sotto dei 67 gradi (in estate).

Ho cercato di capire come cambiare il settaggio, ma non ce l’ho fatta.

Allora ho perlustrato la casa, cercando le istruzioni della caldaietta, ma non le ho trovate.

Risultato: se apro il rubinetto dell’acqua calda, mi ustiono.

Lunedì chiamerò il tecnico per capire come eseguire il reverse engineering della manovra del controllo automatico.

Ma la caldaietta elettronica è solo uno delle migliaia di esempi di come sono cambiate le nostre vite col passaggio dalla meccanica all’elettronica.

Ho fatto in tempo a vedere mio padre che scriveva a macchina su un Olivetti le sue relazioni commerciali, e ricordo ancora il nastro bicolore – rosso/blu – che lui mi mandava a comprare.

Ho tenuto la sua macchina da scrivere come ricordo: è ancora nella mia camera da letto, su uno scaffale.

Qualche giorno fa ho aperto la vecchia custodia di pelle, e l’ho tirata fuori.

Ho battuto un po’ sui tasti, dopo aver infilato un foglio sotto il rullo, e la macchina funzionava ancora!

Il nastro non lasciava quasi più segni sulla carta, ma se ne avessi infilato uno nuovo – o vecchio.. – la macchina avrebbe scritto ancora.

Non propugno con questo il ritorno al passato e alla ghiacciaia (con il ghiaccio vero), dove si teneva il burro in fresco, ma dico solamente che le nostre vite non hanno solamente beneficiato dell’avvento dell’elettronica, ma ne hanno anche sofferto.

Non so più quanti Pc mi sono morti tra le mani, mentre li stavo usando, e quanti cellulari si sono rotti o sono diventati semplicemente troppo vecchi per essere compatibili con il mondo REALE, fatto da persone che hanno cellulari con la  versione 4.3 di Android Jelly Bean.

Oggi tutti gli elettrodomestici richiedono competenze informatiche elevate per essere usati al 100% delle loro funzionalità, e non sono pochi i casi in cui mi sono ritrovata con il libretto delle istruzioni in mano per capire cosa dovevo fare per ottenere e stesse prestazioni dell’elettrodomestico precedente, che era più facile da usare, anche se meno performante.

Lo stesso discorso si potrebbe fare per le televisioni – io però la televisione non ce l’ho – che sono passate dall’essere digitali all’essere SMART, connesse cioè direttamente alla rete (e costano inspiegabilmente meno di un Samsung Galaxy 5).

Non farò il solito ragionamento sul traffico illecito dei nostri rifiuti digitali, che sono tantissimi e finiscono generalmente nei paesi poveri, plastics-from-e-waste-from-national-geographic-photographer-1024x682ma la velocità del cambiamento sta cominciando ad avere dei costi molto pesanti, anche in termini ambientali (mi si perdoni la banalità dell’espressione).

Voglio solo dire che ormai mi costa molta fatica fare l’aggiornamento di tutte le versioni dei sistemi operative delle baracche elettroniche cui siamo dotati, io e mio figlio Tommaso, e che si scassano in continuazione, perché sono anche fragilissime, oltre che complicatissime.

Si stava meglio quando si stava peggio?

Di sicuro no.

Ma mio padre doveva solo ricomprare il nastro della macchina da scrivere, quando si era consumato.

Era più tranquillo lui, aveva più tempo libero, e i frigoriferi duravano quanto un matrimonio: anche quarant’anni.

Il mio si è già rotto non so quante volte, e so che arriverà il giorno il cui tecnico mi dirà: “Signora, le conviene comprarne uno nuovo!“.

E io dovrò rispondergli che quello nuovo me lo comprerò A RATE, perché ormai siamo così scannati che non possiamo permetterci manco la sostituzione del frigorifero.

L’elettronica, infatti, non solo è stressante, ma anche molto costosa, perché i circuiti elettrici si rompono, e non durano un centinaio di anni come i vecchi tram di Milano.

Ma non credo che sia possibile inventare un cellulare che duri più di qualche anno, senza briccarsi quando fai gli aggiornamenti di una decina di nuove versioni del sistema operativo.

E poi il capitalismo si nutre dei suoi rifiuti: lo stesso prodotto deve essere confezionato in un modo diverso da quello precedente, così che ci venga la voglia di compralo, per non sembrare fuori moda, come direbbe una zia.

Bauman spiega come succede questo fenomeno. Spiega come i nostri desideri siano trasformati in voglie, e come sia necessario soddisfarle subito.

Consumo dunque sono” è il titolo di un suo VECCHIO libro (forse di cinque anni fa).

Purtroppo non c’è la versione ebook, perché è “vecchio”.

Io l’avevo addirittura letto nella versione presa in prestito da una biblioteca pubblica.

Roba da trogloditi, insomma.

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Compiti delle vacanze: tutta colpa delle mamme se i figli non li fanno

Assisto da anni allibita al tentativo – da parte degli insegnanti – di attribuire alle madri la responsabilità dell’andamento scolastico dei figli.

Ricordo con angoscia i primi consigli di classe delle elementari, in cui le maestre ci incitavano a seguire i nostri figli nei compiti a casa, del cui svolgimento eravamo le principali garanti. Noi madri, naturalmente, perché i padri perdono in genere la pazienza, prima di noi, di fronte al triangolo isoscele e il trapassato prossimo.

Agli studenti italiani, dalla prima elementare in poi, vengono infatti somministrate dosi da cavallo di compiti da svolgere a casa, e i weekend e le vacanze estive delle famiglie italiane vengono dedicati allo svolgimento dei compiti suddetti, perché le madri si vergognano a mandare i figli a scuola senza i compiti fatti.

E se per caso a qualche madre passasse la voglia di rincorrere il figlio per fargli ripassare tutti gli stati europei – a Natale o Ferragosto – ci pensano le insegnanti a richiamarle all’ordine.

Ho dovuto infatti firmare non so quante note sul fatto che Tommaso si era dimenticato di svolgere qualche esercizio, e poi ho firmato le note sulle note che non avevo firmato.

Se infatti il ragazzino si dimentica di farti firmare la nota in questione, ne arriva una il giorno dopo, che devi a sua volta firmare, in cui prendi atto del fatto che non hai firmato la nota precedente. Sembra un gioco di parole, ma non lo è.

La scuola italiana chiede di fatto ai genitori di trasformarsi in torturatori della domenica – in vece degli insegnanti – dei nostri figli. E se per caso ci sottraiamo al compito che ci viene affidato, ecco allora che scatta il meccanismo punitivo (sui genitori) delle note da firmare.

Naturalmente ho letto il libro di Pietropolli Charmet: “Non è colpa delle mamme“, in cui Pietropolli sconsiglia alle ansiose genitrici di “andare a scuola al posto del figlio” e di esporlo alle prime delusioni, che deve imparare ad affrontare da solo.

Io credo però che il perverso meccanismo delle note sia fatto per smuovere il narcisismo delle madri, che non ce la fanno ad avere un figlio asino, e cominciano ad aiutarlo per evitare al figlio, ma anche a se stesse, i brutti voti e le conseguenti ferite al proprio narcisismo.

Purtroppo, negli ultimi anni, quando ho chiesto alle insegnanti di mio figlio – che è anche dislessico – di non PUNIRLO se si dimenticava a casa la penna o non aveva finito i compiti, non ho mai ricevuto risposte empatiche.

Chiedevo alle insegnanti di stabilire un patto educativo tra di noi, in cui io affidavo a LORO mio figlio, e loro si prendevano la responsabilità (almeno parzialmente) dei suoi risultati scolastici, evitando di punirlo al primo quaderno dimenticato a casa.

La risposta era sempre NEGATIVA – ripartiva il meccanismo delle note – e alla fine ho disotterrato l’ascia di guerra.

Si vis pacem, para bellum“, spiegavano i latini, e cioè: “Se vuoi la pace, prepara la guerra“.

Il colpo è andato a segno – non racconterò i dettagli – ed è finalmente tornata la pace.

Sono sparite le note, ma è arrivata lo stesso una valanga SPROPOSITATA di compiti per le vacanze.

Sono così tanti che Tommaso potrebbe farli solo se lo aiuto io.

Ma io voglio togliermi di mezzo: non ne posso più di andare a scuola al suo posto.

Gli ho detto che farà i compiti che riesce a fare, da solo, e non morirà nessuno se non li finisce.

E ho anche trovato sul web un dirigente scolastico che si batte contro i compiti delle vacanze.

Si chiama Maurizio Parodi e ha scritto un libro che si chiama: “Basta compiti!“.

Vi segnalo la dichiarazione che Parodi consiglia di mandare alle scuole.

Che manderò anch’io (in forma leggermente modificata).

Eccola!

Con la presente informo che mio figlio non svolgerà i compiti assegnati per le vacanze:

  • perché come tutti i lavoratori (e quello scolastico è un lavoro oneroso e spesso alienante) ha “diritto al riposo e allo svago” – diritto inalienabile sancito dall’Articolo 24 della dichiarazione dei diritti dell’uomo;
  • perché le vacanze sono degli studenti e non (solo) dei docenti, ai quali nessuno si permetterebbe di infliggere un simile castigo;
  • perché così potrà finalmente dedicarsi, senza l’assillo di magistrali incombenze, a occupazioni creative e ricreative, dalla scuola trascurate o ignorate;
  • perché insieme potremo fare piccole e grandi cose, divertenti, appassionanti, quelle che l’impegno scolastico (protraendosi a dismisura oltre l’orario di lezione) non permette;
  • perché starà con gli amici al mare, in montagna, nella natura, all’aria aperta dopo essere stato recluso per ore, giorni, mesi (interminabili) in aule anguste, disadorne, quando non addirittura squallide, asfittiche (vere e proprie aree di compressione psichica);
  • perché leggerà per piacere e non per dovere;
  • perché giocherà moltissimo.

La responsabilità di tale decisione è solo mia e l’assumo in quanto legittimo esercente della potestà famigliare, perciò non potrà essere motivo di qualsivoglia azione o provvedimento, meno che mai disciplinare.

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Caduta dell’empatia

Continuo con la serie dei post semi-depressi, con il rischio di finire in uno degli esperimenti sociali di Facebook.

I signori di Facebook hanno appena condotto una ricerca sugli stati d’animo dei loro utenti, manipolando gli algoritmi secondo i quali appaiono i post degli “amici” nelle nostre bacheche.

Venivano selezionati i post fa far apparire più “in alto”, catalogandoli in base alle parole che contenevano.  Post allegri e post depressi.

E i signori di Facebook hanno scoperto che i post depressi hanno effettivamente l’effetto di peggiorare l’umore degli utenti che li leggono (e che a loro volta sono definiti allegri o tristi a seconda delle parole che utilizzano nelle risposte).

Naturalmente è saltato fuori un casino, e mi chiedo se la pubblicità di un’azienda di POMPE FUNEBRI di Lecco  non mi abbia partecipato sulle pagine di Facebook perché avevo scritto da qualche parte “triste” o “morte”.

Sarebbe decisamente se anche il nostro umore diventasse diagnosticabile con un algoritmo, e che sulla base del nostro umore ci venisse somministrata una pubblicità invece di un’altra. Se questo è il web, preferisco tornare ai segnali di fumo.

Fatta la solita premessa,  arrivo velocemente al dunque, che sarà superficiale e veloce, visto che scrivo in fretta, dopo aver sbrigato le cosiddette faccende domestiche.

Ho l’impressione (espressione banale, sorry) che ci sia una caduta di empatia, ovvero una minore attenzione – da parte di tutti – ai cazzi degli altri.

Per cazzi degli altri, intendo le storie che hanno da raccontare: quelle belle ma anche i turbamenti interiori, i malesseri fisici e spirituali.

Intendo le storie raccontate per intero, con un inizio e una fine, e non le conversazioni smozzicate, dove ci si interrompe a vicenda e ci si ascolta – vicendevolmente – molto poco.

Mi capita sempre più raramente di passare qualche ora insieme a degli amici senza avere l’impressione che nessuno ascolti nessuno.

Non so da cosa dipenda questo fenomeno, che annuso in giro, ma che potrebbe solo essere il riverbero di un mio stato psichico.

Forse gli adulti sono pieni di cose fa fare, forse il mondo delle relazioni sostenute dalle tecnologie digitali è diventato troppo complesso, ma qualche volta mi mancano i pomeriggi vuoti in cui andavo in giro con un’amica senza dover tenere il cellulare pronto in una tasca per rispondere subito: alle telefonate, alle email, ai messaggi su WhatsApp, eccetera.

Ormai non c’è pranzo, conversazione, cena o serata dove quelli con cui sei in compagnia non rispondano al telefono o alle email che ricevono.

E devo dire che ho smesso di frequentare amiche che vivevano attaccate al cellulare e con le quali era impossibile parlare per più di qualche minuto senza essere interrotte da una nuova telefonata.

Ecco, mi sembra che questo terribile e rumorosissimo casino sia nato dalla facilità di interconnessione, oltre che dalla innaturale moltiplicazione dei rapporti che è stata la conseguenza di questa nuova facilità.

E mi sembra che il risultato sia anche una perdita di un’interconnessione più profonda e meno “esposta” di quella dei social network, che peraltro frequento con notevole assiduità. E che mi piacciono molto, se non fosse che vorrei poterli trasformare in social network umani, dove poi incontri veramente le persone che ti sono piaciute sul web.

Ma forse sono solo stanca e adesso vado a dormire.

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