Vi avverto: prima di arrivare all’argomento di cui voglio parlare, farò una delle mie lunghe e pedanti premesse.
Anzi due.
Ecco la prima.
Detesto la neolingua aziendalista, e quando sento espressioni come “Lavoro di squadra“, “Spirito di team” o, peggio ancora, “Facciamo squadra!“, mi colo la cera nelle orecchie e cerco di non ascoltare le altre orribili idiozie che presumibilmente seguiranno un tale aborrito incipit.
Tutte le volte che sono stata coinvolta in iniziative aziendali che avevano l’obiettivo di “corroborare” lo spirito di team, mi sedevo in ultima fila e cercavo di non farmi notare.
Una volta, durante una delle iniziative in questione, mi sono persino rotta un polso mentre provavo a sgattaiolare fuori dall’aula, momentaneamente oscurata durante la proiezione di uno dei soliti video su come si costruisce un team.
Sono inciampata al buio e sono volata lunga distesa sulla moquette. Dopo due ore, avevo il polso ingessato.
Posso quindi dire – con grandissimo orgoglio – di non sapere cos’è il lavoro di squadra, sia da un punto di vista teorico, non avendo mai ascoltato con attenzione i formatori aziendali che discettavano sull’argomento, sia da un punto di vista pratico, perché mi è difficilmente capitato di lavorare BENE come nei video che ci facevano vedere durante i corsi, in particolare in quello – storico! – sul carrello progettato dall’IDEO.
Ma nonostante la mia avversione per l’argomento “squadra” e per tutte le espressioni lessicali correlate, mi sono fatta un’idea di cosa significhi l’aborrito “Fare squadra“.
Penso che voglia dire qualcosa del genere: “Ascolta l’opinione dell’altro, qualunque sia il suo ruolo nella scala gerarchica aziendale“.
L’innovazione, insomma, e la buona qualità del lavoro che svolgi insieme agli altri, è possibile solo se ci si dimentica dei propri gradi aziendali, e si lavora insieme su un piano di parità e rispetto reciproco.
Non per niente Google viene sempre citata come esempio di un luogo di lavoro favorevole all’innovazione.
I dipendenti di Google sembrano abbastanza liberi di organizzare le loro giornate, e non marciano col passo dell’oca come nelle parate dell’esercito nordcoreano.
Questa era dunque la prima premessa: a nessuno vengono delle belle idee in contesti fortemente gerarchici, e le aziende della vecchia Unione Sovietica non producevano lavatrici da esportazioni.
La seconda premessa è molto più veloce e diretta.
Non mi piace mangiare la merda, nel senso che non amo le strutture gerarchiche dove devi OBBLIGATORIAMENTE fare quello che ti dice il tuo capo, senza il minimo diritto di replica.
Le aziende italiane sono quasi tutte vecchiotte – non siamo nella Silicon Valley – e hanno ancora una fortissima impronta gerarchica. Non stanno quindi resistendo molto bene alle spinte innovative che vengono dai mercati esterni.
Le aziende italiane (e le amministrazioni pubbliche) profumano di caserma, e infatti ne chiudono 100 al giorno.
La mia esperienza di selfpublisher è stata quindi molto gratificante perché ero DA SOLA e potevo fare tutto quello che volevo.
Sono stata una piccola imprenditrice che ha gestito da sola per un anno i suoi libretti, facendo anche minuscole campagne pubblicitarie, in cui sceglievo il target e la spesa giornaliera.
Ascoltavo le opinioni degli altri, questo sì, in particolare degli editor con cui avevo lavorato, ma alla fine ero io a scegliere cosa fare, senza dover trattare o mediare con nessuno.
Insomma, autopubblicarmi mi ha dato delle grandi soddisfazioni perché non c’era nessuna catena gerarchica da rispettare ed ero padrona di me stessa (anche questa è un’espressione un po’ banale, sorry).
Ero infatti decisissima a continuare a godere della mia libertà, senza dover mangiare altra merda, oltre alle generose e abbondati porzioni che a tutti noi vengono servite quotidianamente.
I primi segnali arrivati da Mondadori erano quindi stati sufficientemente buoni da convincermi che non avrei dovuto fare il passo dell’oca davanti alla sede di Segrate. Avevo abbandonato abbastanza tranquillamente la mia barchetta per salire sulla nave da crociera che era passata di di fianco.
Bene, posso dire PUBBLICAMENTE che – per lo meno fino ad oggi – Mondadori non mi ha fatto mangiare neanche un cucchiaino (da frutta) della merda gerarchica in questione.
Oggi infatti abbiamo chiuso il libro. E cioè la copertina, i testi di copertina e il libro (editato) sono stati approvati da tutti, a cominciare da me.
Tutto è stato deciso insieme, compresa la foto che apparirà sulla sulla copertina.
Ho corretto anche i testi per le alette del libro, scritti dalla responsabile della Narrativa italiana, Giulia Ichino, che manderà in stampa la versione finale, quella rivista da me, da lei e dall’editor, Alessandra Maffiolini.
Anche con Alessandra ho discusso di tutte le sue proposte di editing al mio testo, e per ognuna delle proposte in questione, Alessandra ha chiesto la mia approvazione.
Insomma, non mi sono sentita privata di nessuna delle mie vecchie libertà da selfpubisher, ma ho avuto invece l’impressione che sia stato possibile lavorare insieme, su un piano di parità, rispetto e buona educazione.
Credo che in fondo il lavoro di squadra sia questo qui: trattare gli altri con rispetto e ascoltarli.
Io, Giulia e Alessandra lo abbiamo fatto. Ci siamo trattate bene l’un l’altra e ci siamo ascoltate.
Credo quindi che il mio libro ne sia uscito migliorato. E’ scritto meglio, la copertina è più bella.
E poi sarà quel che sarà.
A giugno lo saprò.