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Un algoritmo vi ucciderà

Passo molte ore al giorno sul web a fare quello che fanno tutti. Leggo notizie, abbeverandomi da diverse fonti, e vado su Google per fare delle ricerche quando ho qualche curiosità da soddisfare. Uso il web anche per fare acquisti – utili o inutili, dipende – senza dover andare nei negozi, perché detesto lo shopping.

Insomma, innocenti passatempo (le letture), o utili risparmi di tempo (gli acquisti online). Ordunque, Google sa molte cose di me, perché mi segue da molti anni e ha imparato a capire cosa mi piace. Quando faccio una ricerca, Google seleziona, tra i risultati, i link che potrebbero piacermi di più, sulla base delle mie passate esperienze.

Senza dimenticare che Google vende pubblicità, e mi propone da giorni di comprare una pentola elettrica che sono andata a guardare su Amazon un paio di volte, anche se poi ho deciso di non comprarla perché non sapevo dove metterla. Persino Facebook mi fa vedere solo gli utenti che conosco tra quelli che hanno messo un Like a un post che sto leggendo.

Non c’è nulla di nuovo in quello che sto dicendo, ma provate ad immaginare cosa succederebbe se tutti i dati raccolti su di noi fossero incrociati in un unico database, insieme ai dati raccolti da altre fonti. Come per esempio i record relativi alla nostra salute: esami del sangue, malattie in corso, eccetera. E pensate a cosa succederebbe se in questo enorme database fossero raccolti anche i voti di quando siete andati a scuola, le note di condotta scritte dai vostri insegnanti, e poi i risultati dei quiz di intelligenza fatti durante i colloqui di lavoro. A questi dati potrebbero venire aggiunti quelli relativi alle vostre esperienze lavorative, raccolti a cura dei vostri datori di lavoro.

Si possono aggiungere altre decine di campi, compreso il nostro orientamento politico desunto da quello che scriviamo su social network. O una nostra eventuale attitudine a bere un po’ troppo, desunta questa volta dagli scontrini del supermercato. Oppure la nostra evidente promiscuità sessuale, rilevata dalla frequenza con la quale ci ammaliamo di malattie sessualmente trasmissibili.

Ecco, se fosse possibile costruire un file come quello, contenente tutte le informazioni che ci riguardano e che oggi sono sparpagliate in giro per il mondo, sarebbe anche possibile decidere quando non siamo più UTILI, ovvero siamo diventati individui troppo costosi da mantenere, privi di ogni utilità sociale.

Faccio un esempio. Proviamo a immaginare un Mario sessantenne, disoccupato da cinque anni, che beve troppo, fuma due pacchetti di sigarette al dì e passa le giornate chiuso in casa a guardare Netflix. Fino a quando, una mattina, Mario va dal medico perché ha una brutta tosse. Il medico gli fa fare una lastra, e scopre che ha un cancro ai polmoni. Solo in fase iniziale, per carità. Niente di terribile, anche perché adesso ci sono nuovi farmaci molto efficaci contro il tumore al polmone, che potrebbero salvare Mario da una morte certa.

Il medico inserisce il referto della lastra – tumore in fase iniziale al polmone destro – sull’algoritmo che raccoglie da sempre i dati su Mario. E qual è la risposta dell’algoritmo? A Mario non verrà fornita nessuna cura, perché la vita di Mario non serve più a nulla.

Ecco, questo è un esempio estremo di DITTATURA DIGITALE, dove un ente supremo, in possesso di tutti i dati che ci riguardano, avrebbe potere di vita e di morte. Questo ente supremo potrebbe essere un impersonale algoritmo, impostato per mandarci in un forno crematorio quando i valori rilevati da alcuni parametri superano la soglia critica ritenuta ammissibile.

I valori da monitorare potrebbero essere non solo quelli sanitari, naturalmente, ma anche tutti quelli relativi alle nostre posizioni pubbliche e politiche. Se per esempio provassimo a fondare un sindacato dei lavoratori delle aziende di elettronica, perché dieci ore di lavoro al giorno sono troppe, l’algoritmo potrebbe decretare ugualmente la nostra morte. Siamo dei rompicoglioni: che se ne fa un’azienda di un sindacato?

Bene, adesso arrivo al dunque. C’è già un paese nel mondo dove questa dittatura digitale è già stata attivata, anche se non portata alle estreme conseguenze dell’esempio del povero Mario. Questo paese è la Cina, dove Internet non è che una grande Intranet, dalla quale non si può uscire. In Cina non si può accedere a Google – sostituito da un motore di ricerca che si chiama Baidu e che è controllato dal governo centrale – così come non si può accedere a Facebook o WhatsApp. In Cina, per un post del cazzo come questo, potrei finire in prigione. In Cina i blogger del cazzo come me, vanno a marcire in prigione. E in Cina, i cinesi si limitano a fare TANTO shopping, e si guardano bene dal parlare di politica sul web. A meno che non siano dei martiri disposti a morire in prigione.

Ecco perché credo che l’unica salvezza per la nostra residua libertà consista nella difesa dei dati che ci riguardano – la privacy – e nella difesa della libera concorrenza, anche se ce n’è sempre di meno, e nella lotta contro i monopoli, compreso quello di Amazon, Facebook, Google. Anche se su Google, Amazon, Facebook ci passo le giornate (lo so).

E sono contenta di non vivere a Pechino, ma in Europa, dove posso scrivere stronzate in libertà. Ecco, la parola che mi piace ancora dire è proprio questa: libertà. Sembrano banalità, ma se non ci difendiamo, ne avremo sempre meno.

Post to be continued. Altri pensieri in libertà in arrivo.

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