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Dieci regole d’oro per essere virali

La viralità può essere definita come il grado di successo di quello che pubblichi sul web e sui social network, che ormai sono sostanzialmente tre: Facebook per parole e foto, Istangram per le foto e Youtube per i video.
Twitter è un discorso a parte, perché più che un social network è un’agenzia di stampa gratuita per influencer. Lo lascio da parte per dedicarmi all’unico argomento che conosco: le parole.

Io sono vecchiotta (scrivo ancora…) e faccio delle foto di merda. Di conseguenza pubblico solo dei testi su WordPress, che poi condivido su Facebook. Quello che scrivo non è virale (non vado mai oltre i 30 like), ma uso il web per dire quello che penso, e della viralità me ne sbatto anche abbastanza i coglioni.

Non seguo quindi quelle che secondo me sono le regole MINIME per diventare virali (sto parlando di testi, non di foto o video), regole che provo ad elencare. Sono condizioni necessarie ma non sufficienti, perché non è detto che applicandole tutte, siano garantite le migliaia di like. Aggiungasi che per avere migliaia di like, bisogna avere una “Pagina” su Facebook, e non un semplice “Profilo Personale”, dove puoi arrivare fino a 5.000 amici. Con 5.000 amici puoi arrivare al massimo a 500 like, e poi, se vuoi continuare a crescere, devi trasformare il tuo profilo in una “Pagina” (si può), col rischio però di perdere visibilità (Facebook vuol far pagare le “Pagine” che si fanno pubblicità).

Provo a fare un elenchino di golden rules per riuscire ad essere virali.

    • TARGET SPECIFICO. Bisogna sapere a chi si vuol parlare. Il target deve essere molto definito. Faccio qualche esempio: le mamme. Tirano ancora tantissimo. Bisogna raccontare qualcosa di allegro sui propri figli e le lunghe giornate faticose, ecc. passate con loro. In realtà, non mi vengono in mente molti altri target così profittevoli come quelli delle mamme… Marco Montemagno (che spiega come avere successo nel digital) è uno che non scherza, ma lui ha viralizzato soprattutto su Youtube. Anyway, per diventare virali, bisogna restare sul proprio target: se il target è quello delle mamme, non puoi cambiare argomento. I tuoi lettori si aspettano che tu gli racconti la tua giornata dura ma in fondo anche buffa, eccetera. Devi stare TUNED sul tuo pubblico.
    • RACCONTARE SEMPRE UN PO’ DI CAZZI TUOI. I social network hanno la loro ragione d’essere nel fatto che le persone parlano di sé. Chi va su Facebook, lo fa per sapere qualcosa delle vite degli altri. Se cerchi notizie, vai sul sito del Corriere, se cerchi invece qualche momento di piacevole divagazione, dove magari dai un’occhiata alle foto dei tuoi amici e parenti, allora vai su Facebook. Insomma, se vuoi essere ascoltato su Facebook, devi parlare anche di te. Che non è un male, perché il mio scrittore preferito, Emmanuel Carrère, scrive dei libri in cui parte sempre da sé per raccontare qualcos’altro. Lo stile dei social non è quello di un’agenzia di stampa, ma è intimo, personale, perché nessuno si offende (su Facebook) se non parli dei mali del mondo.
    • SCRITTURA BRILLANTE, NON PIAGNUCOLOSA. Proprio perché Facebook ha una funzione ricreativa, vengono apprezzati i personaggi che sanno divertire chi li legge, anche quando parlano di cose serie. Natalino Balasso è sempre divertente, per esempio. Nessuno seguirebbe una pagina dove l’autore si lamenta, si straccia le vesti e piagnucola sulle sue sfortune.
    • SI PUÒ’ PARLARE DELLA MALATTIA. Sui social si può raccontare la propria malattia (molti postano le foto della chemio, ma quelle sono profili personali). Bisogna però essere ottimisti: si apprezza chi combatte, chi spera di farcela. Anche quando si è malati, bisogna evitare la lagna, che non è virale neanche nella vita vera (si sta più volentieri accanto a malati di buon’umore, che non a malati depressi).
    • POCHI POST BREVI, CHE SI LEGGONO IN POCHI MINUTI. Se vuoi essere aggiornato sulla guerra in Siria, vai su Foreign Affairs. E allora leggi anche un articolo di 10.000 battute. Ma col cazzo che leggi 100.000 battute di qualcosa su Facebook, qualsiasi cosa sia (non credo che siano ammessi post pornografici, che sarebbero gli unici capaci di tenere incollato qualche lettore alla pagina). Evitate soprattutto di fare cinque post al giorno, su tutto quello che vi passa per la testa. Non c’è di più noioso di venire bombardati da post stupidini, sullo stato d’animo del momento. Pubblicate poco e contenuti di qualità.
    • EVITARE LA POLITICA, SE POSSIBILE. A me sta sul cazzo Renzi, da sempre, cosa nota, peraltro, ma so che quando metto il suo nome in un post, le persone ci penseranno due volte prima di mettere un like, anche se adesso sta montando un’onda anti-renziana che non ha più paura di nulla (e vuole mandarlo a casa).
    • ESSERE INNOVATIVI E ECCENTRICI, SENZA ESAGERARE. Nessuno vuole leggere roba del tipo: “preferisco le catene alle gomme da neve”, oppure “la coca cola è buona con una fetta di limone”. Chi cerca follower deve avere quel minimo di eccentricità che li possa incuriosire. Quando ti divaghi, non vuoi sentire parlare del tempo, insomma, ma di roba meno pallosa.
    • SE HAI UNA FOTO, E’ MEGLIO. Meglio accompagnare i post con qualche foto, ma sempre di momenti intimi. Insomma, devi dare l’impressione a chi ti legge che sta entrando per davvero a casa tua.
    • NON USARE I SOCIAL PER FARE PUBBLICITÀ TRADIZIONALE. Questo è un errore gravissimo! Non si possono usare i social per invitare gli utenti a una presentazione di un libro o per invitarlo a comprare qualcosa. L’utente capisce subito se gli vuoi vendere un libro, per esempio, e si infastidisce. L’advertising deve essere diretto: “COMPRAMI IL LIBRO!”, e deve essere dichiarato come tale (mi sto facendo pubblicità…). Sui social devi raccontare storie (scusate, è un po’ banale), e se le storie che racconti sono carine, magari vendi anche il libro. Ma se hai una personalità sbiadita, e non racconti delle storie carine, il libro non te lo compra un cazzo di nessuno.
    • SE SEI GIÀ’ CONOSCIUTO, ALLORA VALGONO TUTTE LE REGOLE PRIMA. I profili dei personaggi pubblici, devono seguire le stesse regole: stile colloquiale, raccontare la vita personale, eccetera. Non cambia niente!
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    Un algoritmo vi ucciderà

    Passo molte ore al giorno sul web a fare quello che fanno tutti. Leggo notizie, abbeverandomi da diverse fonti, e vado su Google per fare delle ricerche quando ho qualche curiosità da soddisfare. Uso il web anche per fare acquisti – utili o inutili, dipende – senza dover andare nei negozi, perché detesto lo shopping.

    Insomma, innocenti passatempo (le letture), o utili risparmi di tempo (gli acquisti online). Ordunque, Google sa molte cose di me, perché mi segue da molti anni e ha imparato a capire cosa mi piace. Quando faccio una ricerca, Google seleziona, tra i risultati, i link che potrebbero piacermi di più, sulla base delle mie passate esperienze.

    Senza dimenticare che Google vende pubblicità, e mi propone da giorni di comprare una pentola elettrica che sono andata a guardare su Amazon un paio di volte, anche se poi ho deciso di non comprarla perché non sapevo dove metterla. Persino Facebook mi fa vedere solo gli utenti che conosco tra quelli che hanno messo un Like a un post che sto leggendo.

    Non c’è nulla di nuovo in quello che sto dicendo, ma provate ad immaginare cosa succederebbe se tutti i dati raccolti su di noi fossero incrociati in un unico database, insieme ai dati raccolti da altre fonti. Come per esempio i record relativi alla nostra salute: esami del sangue, malattie in corso, eccetera. E pensate a cosa succederebbe se in questo enorme database fossero raccolti anche i voti di quando siete andati a scuola, le note di condotta scritte dai vostri insegnanti, e poi i risultati dei quiz di intelligenza fatti durante i colloqui di lavoro. A questi dati potrebbero venire aggiunti quelli relativi alle vostre esperienze lavorative, raccolti a cura dei vostri datori di lavoro.

    Si possono aggiungere altre decine di campi, compreso il nostro orientamento politico desunto da quello che scriviamo su social network. O una nostra eventuale attitudine a bere un po’ troppo, desunta questa volta dagli scontrini del supermercato. Oppure la nostra evidente promiscuità sessuale, rilevata dalla frequenza con la quale ci ammaliamo di malattie sessualmente trasmissibili.

    Ecco, se fosse possibile costruire un file come quello, contenente tutte le informazioni che ci riguardano e che oggi sono sparpagliate in giro per il mondo, sarebbe anche possibile decidere quando non siamo più UTILI, ovvero siamo diventati individui troppo costosi da mantenere, privi di ogni utilità sociale.

    Faccio un esempio. Proviamo a immaginare un Mario sessantenne, disoccupato da cinque anni, che beve troppo, fuma due pacchetti di sigarette al dì e passa le giornate chiuso in casa a guardare Netflix. Fino a quando, una mattina, Mario va dal medico perché ha una brutta tosse. Il medico gli fa fare una lastra, e scopre che ha un cancro ai polmoni. Solo in fase iniziale, per carità. Niente di terribile, anche perché adesso ci sono nuovi farmaci molto efficaci contro il tumore al polmone, che potrebbero salvare Mario da una morte certa.

    Il medico inserisce il referto della lastra – tumore in fase iniziale al polmone destro – sull’algoritmo che raccoglie da sempre i dati su Mario. E qual è la risposta dell’algoritmo? A Mario non verrà fornita nessuna cura, perché la vita di Mario non serve più a nulla.

    Ecco, questo è un esempio estremo di DITTATURA DIGITALE, dove un ente supremo, in possesso di tutti i dati che ci riguardano, avrebbe potere di vita e di morte. Questo ente supremo potrebbe essere un impersonale algoritmo, impostato per mandarci in un forno crematorio quando i valori rilevati da alcuni parametri superano la soglia critica ritenuta ammissibile.

    I valori da monitorare potrebbero essere non solo quelli sanitari, naturalmente, ma anche tutti quelli relativi alle nostre posizioni pubbliche e politiche. Se per esempio provassimo a fondare un sindacato dei lavoratori delle aziende di elettronica, perché dieci ore di lavoro al giorno sono troppe, l’algoritmo potrebbe decretare ugualmente la nostra morte. Siamo dei rompicoglioni: che se ne fa un’azienda di un sindacato?

    Bene, adesso arrivo al dunque. C’è già un paese nel mondo dove questa dittatura digitale è già stata attivata, anche se non portata alle estreme conseguenze dell’esempio del povero Mario. Questo paese è la Cina, dove Internet non è che una grande Intranet, dalla quale non si può uscire. In Cina non si può accedere a Google – sostituito da un motore di ricerca che si chiama Baidu e che è controllato dal governo centrale – così come non si può accedere a Facebook o WhatsApp. In Cina, per un post del cazzo come questo, potrei finire in prigione. In Cina i blogger del cazzo come me, vanno a marcire in prigione. E in Cina, i cinesi si limitano a fare TANTO shopping, e si guardano bene dal parlare di politica sul web. A meno che non siano dei martiri disposti a morire in prigione.

    Ecco perché credo che l’unica salvezza per la nostra residua libertà consista nella difesa dei dati che ci riguardano – la privacy – e nella difesa della libera concorrenza, anche se ce n’è sempre di meno, e nella lotta contro i monopoli, compreso quello di Amazon, Facebook, Google. Anche se su Google, Amazon, Facebook ci passo le giornate (lo so).

    E sono contenta di non vivere a Pechino, ma in Europa, dove posso scrivere stronzate in libertà. Ecco, la parola che mi piace ancora dire è proprio questa: libertà. Sembrano banalità, ma se non ci difendiamo, ne avremo sempre meno.

    Post to be continued. Altri pensieri in libertà in arrivo.

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    Mi sono fermata

    Sono assolutamente certa di aver sofferto di una dipendenza dal web, durata almeno un paio d’anni.

    Per quasi due anni ho passato tutte le sere davanti al PC con l’obiettivo di pubblicare i miei libri su Amazon, e poi di promuoverli.

    Ho scelto, nel 2012, di assumere una prima falsa identità – ero Nora O’Dublin – e poi ho buttato tutto via per ricominciare con un altro nome, quello che uso adesso.

    Per due anni ho lavorato furiosamente, senza quasi mai fermarmi. Alla fine, uno dei miei libri è stato pubblicato da Mondadori, ma quando è successo, ero veramente troppo stanca per godermi la cosa. Anche perché, durante il lancio del libro, ero troppo occupata a seguire il mio blog e a rispondere alle persone che mi scrivevano.

    Poi, non so bene come è successo, ma a un certo punto ho pensato che non avevo più niente da dire.

    Non so bene quando è successo, ma dopo due anni in cui davo consigli a destra e manca su come promuovere un libro sul web e dissertavo di tutto – dalla solitudine alle politiche di Renzi sul mercato del lavoro – ho avuto la nettissima impressione che le parole se n’erano andate.

    Le parole mi avevano lasciato e io non avevo più quell’abbondanza di opinioni con la quale mi ero lanciata sul web qualche anno prima.

    Per me era arrivato il momento di ascoltare. Di leggere. Quello che scrivevano gli altri.

    Anzi, mi sembrava che non mi sarebbe mai bastato il tempo per leggere tutto quello che volevo: dai libri ai post su Facebook. Dagli articoli di giornale ai Tweet delle persone che seguivo.

    Non so, credo che anche l’ansia di restare aggiornati sia una forma di dipendenza, perché potrebbe valere anche per il desiderio di aggiornamento il motto dell’Anonima Alcolisti: “Uno è niente, e mille sono pochi”.

    Solo un alcolista capisce che cosa vuole dire. Quando hai smesso di bere, se ricominci a farlo, un solo bicchiere sarà tanto, perché entrerai nella fase in cui mille bicchieri sono pochi: berrai fino a quando non stramazzi a terra, morto di alcol.

    L’alcolista non si ferma: non è capace di bere solo tre bicchieri di vino, e poi non bere più fino al prossimo pranzo e alla prossima cena. L’alcolista beve fono a quando sverrà, o vomiterà, o sarà così distrutto dall’alcool da non riuscire più a buttare giù un bicchiere.

    Nella dipendenza c’è proprio questa caratteristica: non potersi controllare, non riuscire a decidere quando fermarsi.

    Io mi sono fermata a scrivere le mie ovvietà sul blog, perché avevo capito che mi sentivo male se per più di qualche giorno non trovavo qualche nuovo argomento per i miei post. E ho cominciato a leggere quello che scrivevano gli altri. Ogni giorno ci sono centinaia di articoli che varrebbero la pena di essere letti, e poi ci sono anche amici sul web che scrivono cose interessanti sugli argomenti che mi interessano, e sui quali non vorrei perdere nulla. C’è in particolare un gruppo su Facebook che seguo e mi dispiace se mi perdo qualche post.

    Ma anche qui non sono stata in grado di darmi una misura. Ho letto troppo. Insomma, a volte una dipendenza viene semplicemente sostituita con un’altra.

    Il web dà dipendenza, sia il un ruolo “attivo” che in uno “passivo”. Le voci che parlano sono diventate infinite. E l’ascolto potenziale è un moltiplicatore dell’infinito: quanti infiniti ci vorrebbero per ascoltare un’infinita sommatoria di infiniti?

    Sono ubriaca di web. Non lo controllo, ma ne sono controllata. Senza più l’esaltata passione di due anni fa, quando trafficavo senza requie.

    E lo scorso Natale, invece di godermi le vacanze, mi sono chiusa in casa (ancora di più) a scrivere un libro. Così orribilmente triste da avermi lasciato con l’umore essiccato e disperato per almeno un altro mese. Il libro è rimasto nel cassetto. Non ho il coraggio di farlo leggere a nessuno. Non so cosa mi stia succedendo: non lo so per davvero. Sono in attesa di capirlo.

    P.S. Il post è un po’ troppo intimista, ma se penso alla porcata dell’ITALICUM mi viene voglia di partire per Roma a bordo di un Panzerfaust. L’orrore della politica interna italiana sta superando i limiti del buon gusto e del buon senso.

     

     

     

     

     

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    Facebook (ma anche Instagram e WhatsApp), io vivo per te!

    Prima di arrivare alla tesi – viviamo nel mondo REALE solo per proiettare il nostro riverbero in quello VIRTUALE – descriverò il mio ultimo sabato pomeriggio, in cui è avvenuta l’illuminazione sulla definitiva perdita di peso del REALE rispetto al VIRTUALE.

    Ordunque, perseguo da sempre l’obiettivo di liberarmi di Tommaso per almeno un paio di settimane all’anno, in luglio, quando finalmente mio figlio parte per la colonia estiva, dove viene confinato dalla madre sciagurata da quando aveva CINQUE anni.

    Aspetto quelle due settimane per tutto l’anno. Le anelo. Lui parte, e io non mi muovo da Milano.

    Passo un paio di week-end assolutamente vuoti, in cui non faccio nulla se non riposarmi e godermi la casa quasi in ordine.

    Chiudo subito la porta della stanza di mio figlio, dopo aver controllato che non ci siano rifiuti alimentari che potrebbero marcire, per riaprirla la sera in cui torna.

    Quest’anno avevo anche fatto la furbetta, nel senso che l’avevo iscritto addirittura a DUE colonie, con l’idea di portare a quattro le settimane in cui la sua stanza rimaneva chiusa e la casa restava in ordine.

    Ma, dopo la prima colonia, Tommaso ha puntato i piedi: “Non parto più! Io resto a Milano!“.

    Ho insistito un po’, gli ho persino promesso una bella cifretta (150 euro!) se fosse partito, ma lui, no, testardo come un mulo, ha ripetuto il concetto: “Io non parto!“.

    E così sabato scorso, in una Milano deserta, desolata, sfigata, ci siamo ritrovati da soli, io e lui, a giracchiare annoiati attorno a casa.

    Abbiamo chiacchierato con tutti i negozianti della via, compresa una pasticcera ottantenne, e poi ho capito che eravamo tutti e due depressi dal caldo e dalla sfiga.

    Ho invitato a cena una mia amica, Paola, che Tommaso ama moltissimo, ma lei non poteva venire.

    Abbiamo ripiegato sull’aperitivo in un bar di Via Vigevano, i cui proprietari sono cinesi, e che Paola chiama “Cinciullà” (lei, non io, e quindi è lei politically scorrect, non io).

    Ma quando ci siamo sedute, lei ha smesso di parlare – come fa tutte le volte che andiamo da Cinciullà – per osservare la folla allegra e strana che ci passava di fronte.

    “Cazzo!”, ho pensato, “io e Tommaso siamo usciti per parlare con qualcuno, e lei si mette a guardare in silenzio la gente che passa!”.

    Ma non c’è stato verso di farla parlare. Paola taceva. Taceva e guardava. Folgorata dalla Commedia umana, per citare malamente Balzac.

    Allora ho guardato anch’io.

    Nel giro di cinque minuti, sono passati un paio di branchi di femmine che stavano festeggiando l’addio al nubilato di una di loro (con una probabile e futura ricca bevuta in compagnia).

    Erano tutte sprosciuttate (coi prosciutti di fuori) e seguivano una capobranco – la futura sposa – che aveva in mano un bouquet.

    Il segno distintivo di uno dei due branchi era un cartellino al collo con sopra il nome della sposa, mentre l’altro branco era dotato del medesimo paio di occhialoni a forma di cuore, quelli giganti che vendono sui banchetti del Ticinese.

    Le ragazze erano allegre, allegrissime, e sembravano decise a divertirsi. O forse dovrei dire a fotografarsi

    Erano infatti tutte munite di smartphone e si fotografavano l’un l’altra, per condividere immediatamente la foto venuta bene.

    Ma, soprattutto, erano alla ricerca di qualche foto diversa dalle altre…

    Erano infatti seduti di fianco al nostro tavolo due finti cowboy – cappellaccio e giacca con le frange – sopra i sessanta e con i capelli tinti, resti archeologici e colorati di un’altra era.

    Molto, molto particolari.

    Perfetti per finire per finire su Facebook (o su Instagram o WhatsApp).

    Le ragazze con gli occhialoni a forma di cuore si sono buttate subito sui cowboy e hanno chiesto al più anziano dei due se poteva dare un bacio alla sposa. Mentre le altre gli facevano una foto.

    Il cowboy ha accettato – mentre i cellulari scattavano – e dopo meno di un secondo era finito su Facebook (Instagram e WhatsApp).

    Le ragazze l’hanno infatti ignorato SUBITO DOPO aver avergli carpito al foto. Hanno cominciato a smanettare sui cellu per postare le foto della sposa col cowboy (e farsi dare un “Mi piace” o qualcosa del genere).

    Poi sono corse via alla ricerca di altre FOTO DIVERTENTI da fare e postare subito su uno dei social network di proprietà di Zuckerberg.

    E’ stato in quel momento che ho avuto l’illuminazione: le ragazze stavano festeggiando nel mondo REALE l’addio al nubilato solo perché sarebbe stato riverberato in quello VIRTUALE.

    Sì, una volta c’erano le foto. Anche quelle erano virtuali, perché si fotografa sempre il passato.

    Ma una volta uscivi con le amiche solo per farti quattro risate, senza passare la sera a postare il selfie (parola orrenda) con la tua amica che rideva.

    Insomma, la prova ontologica della felicità è una nostra foto sorridente postata su un social.

    Forse stiamo esagerando…

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    Caduta dell’empatia

    Continuo con la serie dei post semi-depressi, con il rischio di finire in uno degli esperimenti sociali di Facebook.

    I signori di Facebook hanno appena condotto una ricerca sugli stati d’animo dei loro utenti, manipolando gli algoritmi secondo i quali appaiono i post degli “amici” nelle nostre bacheche.

    Venivano selezionati i post fa far apparire più “in alto”, catalogandoli in base alle parole che contenevano.  Post allegri e post depressi.

    E i signori di Facebook hanno scoperto che i post depressi hanno effettivamente l’effetto di peggiorare l’umore degli utenti che li leggono (e che a loro volta sono definiti allegri o tristi a seconda delle parole che utilizzano nelle risposte).

    Naturalmente è saltato fuori un casino, e mi chiedo se la pubblicità di un’azienda di POMPE FUNEBRI di Lecco  non mi abbia partecipato sulle pagine di Facebook perché avevo scritto da qualche parte “triste” o “morte”.

    Sarebbe decisamente se anche il nostro umore diventasse diagnosticabile con un algoritmo, e che sulla base del nostro umore ci venisse somministrata una pubblicità invece di un’altra. Se questo è il web, preferisco tornare ai segnali di fumo.

    Fatta la solita premessa,  arrivo velocemente al dunque, che sarà superficiale e veloce, visto che scrivo in fretta, dopo aver sbrigato le cosiddette faccende domestiche.

    Ho l’impressione (espressione banale, sorry) che ci sia una caduta di empatia, ovvero una minore attenzione – da parte di tutti – ai cazzi degli altri.

    Per cazzi degli altri, intendo le storie che hanno da raccontare: quelle belle ma anche i turbamenti interiori, i malesseri fisici e spirituali.

    Intendo le storie raccontate per intero, con un inizio e una fine, e non le conversazioni smozzicate, dove ci si interrompe a vicenda e ci si ascolta – vicendevolmente – molto poco.

    Mi capita sempre più raramente di passare qualche ora insieme a degli amici senza avere l’impressione che nessuno ascolti nessuno.

    Non so da cosa dipenda questo fenomeno, che annuso in giro, ma che potrebbe solo essere il riverbero di un mio stato psichico.

    Forse gli adulti sono pieni di cose fa fare, forse il mondo delle relazioni sostenute dalle tecnologie digitali è diventato troppo complesso, ma qualche volta mi mancano i pomeriggi vuoti in cui andavo in giro con un’amica senza dover tenere il cellulare pronto in una tasca per rispondere subito: alle telefonate, alle email, ai messaggi su WhatsApp, eccetera.

    Ormai non c’è pranzo, conversazione, cena o serata dove quelli con cui sei in compagnia non rispondano al telefono o alle email che ricevono.

    E devo dire che ho smesso di frequentare amiche che vivevano attaccate al cellulare e con le quali era impossibile parlare per più di qualche minuto senza essere interrotte da una nuova telefonata.

    Ecco, mi sembra che questo terribile e rumorosissimo casino sia nato dalla facilità di interconnessione, oltre che dalla innaturale moltiplicazione dei rapporti che è stata la conseguenza di questa nuova facilità.

    E mi sembra che il risultato sia anche una perdita di un’interconnessione più profonda e meno “esposta” di quella dei social network, che peraltro frequento con notevole assiduità. E che mi piacciono molto, se non fosse che vorrei poterli trasformare in social network umani, dove poi incontri veramente le persone che ti sono piaciute sul web.

    Ma forse sono solo stanca e adesso vado a dormire.

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    Facebook è diventato un social network da “signorine” (rispetto a Ask.fm)

    Il padrone di Facebook sta cercando di comprare tutto quello che sta nascendo nel mondo social, perché è terrorizzato dalla concorrenza.

    Zuckenberg sembra particolarmente interessato a una fascia d’età che non è quella che frequenta questo blog, ovvero gli adolescenti.

    Che amano emozioni più forti di quelle offerte da un social network come Facebook, che ormai è diventato politically correct.

    Le persone – su Facebook – usano quasi sempre i loro veri nomi, e spesso anche  le loro vere foto per le immagini da inserire nel profilo, e ci tengono a non infilarsi in scazzottate on line che potrebbero rovinare la loro buona reputazione.

    Ogni tanto capita che qualcuno scriva qualcosa di sgradevole in risposta a un commento, ma non sono mai stata veramente insultata su Facebook, anche se so che a qualcuno è capitato.

    La mia impressione è che Facebook si sia lentamente avviato sulla strada della pacatezza, proprio perché i profili sono collegati a persone reali, con un nome e un cognome.

    Insomma, la correttezza che tutti professiamo su Facebook è dovuta al fatto che non è un social ANONIMO, come invece nel caso dei social di ULTIMA GENERAZIONE, quelli destinati agli adolescenti.

    Il più famoso è il lituano Ask.fm, accusato di essere all’origine del suicidio di ragazzini dalla psiche indebolita dagli insulti che arrivano sulla loro bacheca da parte di utenti anonimi, che non hanno alcuna intenzione di rivelare la loro identità.

    Non voglio entrare nei meccanismi tecnici che regolano i nuovi social anonimi – ne è appena nato uno negli States che si chiama Secret – che sono però tutti accomunati dal fatto che i commenti non sono firmati con il nome che hai nella vita, ma con un nick che copre la tua identità.

    E quando non devi dire chi sei, ti parte la mano. Diventi zozzo, kattivo, aggressivo, fastidioso, stalkante, brutale.

    E se sei uno stronzo, ti diverti a perseguitare qualche bella ragazzina che non ha il coraggio di fare l’unica cosa sensata: cancellare il proprio profilo e sparire.

    Credo che le relazioni aggressive diano dipendenza, e credo che i ragazzi di oggi siano molto più aggressivi di quanto non lo fossimo noi alla loro età.

    Sembra che le relazioni tra adolescenti siano uscite dai binari etici – Dio, come scrivo da vecchia! – ai quali eravamo stati abituati.
    Oggi l’insulto va di moda, anzi è una cosa molto figa.

    Non ho voglia di fare del voyeurismo su Ask.fm, spingendomi al punto di iscrivermi a un social per ragazzini, ma ho visto un po’ dei video di Ask.fm (postati anche su Youtube), in cui delle teen-ager truccate e smaltate vomitano parolacce come le indemoniate di padre Amorth (vero esorcista che opera a Roma). Di questi video girano già le parodie, ma vi assicuro che non fanno ridere.

    Non fanno ridere me, ma fanno ridere mio figlio Tommaso che ieri sera li ha guardati insieme a me. Li trovava divertentissimi!

    Naturalmente gli ho fatto una capa tanta sul fatto che non devi iscriversi a Ask.fm (dove c’è già metà della sua classe delle scuole medie), ma ho capito che noi Facebookkari siamo fatti di una solida pasta antica, condita da buone maniere, proprio perché non siano anonimi.

    Anzi, siamo diventate le “signorine” del web. LOL!

    Capisco quindi la campagna di acquisti di Mister Zuckenberg.  Che ormai sta invecchiando anche lui e corre il rischio di trovarsi scoperto sul fronte pre-adolescente selvaggio e suicidario, che sarà l’utente del futuro (se sopravvive all’adolescenza e impara a fare qualcos’altro che non sia masturbare uno smartphone).

    P.S.
    Gli insulti che noi selfwriter – e non solo – riceviamo periodicamente su Amazon e sulle altre piattaforme di epublishing nascono proprio dall’anonimato degli utenti che possono postare quello che vogliono, protetti dai nick.
    Ma  Amazon non è Ask.fm. E’ una piattaforma di vendita, e quindi sarebbe il caso di proteggere gli utenti che vendono un prodotto – chi scrive vende se stesso – dalla concorrenza sleale di chi parla male del loro prodotto.
    Mr Bezos non fa i soldi con i ragazzini che urlano ma con le aziende e le persone che vendono qualcosa.
    Motivo di più per proteggerle dagli attacchi anonimi.

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    ADV per self publisher

    Non mi sono mai vergognata a dire che uso l’ADV online per promuovere i miei libri.

    Credo infatti che il più grande problema per un self sia quello di far sapere agli altri che esiste il suo libro.

    E l’ADV online – che costa poco – gli permette di dire agli altri: “Ehi, lo sai che puoi comprare il mio libro?”.

    Non lo trovo disonesto, insomma, come non è disonesta una pubblicità che si limiti ad annunciare l’esistenza di un prodotto.

    Sarebbe disonesto invece dichiarare il falso. Ma su questo esistono leggi dello stato che proteggono il consumatore.

    Ordunque, io uso Google Adwords e le altre forme di ADV che Facebook mette a disposizione dei suoi utenti.

    Le cifre che spendo possono variare dai due euro al giorno fino ad arrivare anche a dieci, nei momenti in cui voglio fare qualche “esperimento”.

    Non sai mai – quando spendi due euro al giorno in ADV – se a farti salire in classifica sia stato il surplus offerto dall’ADV o se invece avresti venduto esattamente lo stesso numero di copie.

    Però sono povera e un po’ pidocchia, e quindi spendo raramente più di due euro al dì.

    Ma negli ultimi giorni ho picchiato un po’ di più su Google Adwords, e sono effettivamente salita in classifica.

    Poi ho diminuito la spesa, e sono riscesa.

    Insomma, l’ADV ti aiuta a vendere, ma non è sicuramente l’unico ingrediente che fa andare bene un libro.

    Comunque, per chi volesse sapere un po’ di più, confesso di aver imparato a usare la piattaforma di Adwords passando delle ore al telefono con il call center di Dublino.

    Per fare ADV bisogna comunque avere un proprio sito da linkare nell’annuncio, e non è consentito linkare direttamente gli ebook su Amazon e (credo) neanche le Fan Pages di Amazon.

    Il primo passo per fare ADV online è quindi quello di aprire un sito, anzi un blog, che abbia una serie di plug in social che vi consenta di pubblicare i vostri post su Facebook, Twitter, eccetera.

    Io uso WordPress, perché i plug in social sono PERFETTAMENTE FUNZIONANTI, cosa che non avviene con altre piattaforme.

    WordPress offre inoltre l’hosting gratuito se vi accontentate di non personalizzare troppo il vostro blog.

    Io ho scelto al formula da 99 euro all’anno, perché volevo comprarmi il dominio e smanettare un po’ sul sito.

    Bene, una volta che vi siete aperti un blog, potete caricare i vostri libri (copertine, sinossi, eccetera) sulle pagine del blog, dove metterete anche i link alle piattaforme dove sono in vendita i libri in questione.

    Sarà il link alla pagina del libro – sul vostro sito – quello che potrete usare per fare ADV.

    Io naturalmente non lavoro per Adwords, anche se è un assoluto dato di fatto che abbiano loro il monopolio dell’ADV online.

    Ho provato a vedere qual era l’offerta pubblicitaria di altre agenzie italiane, ma non offrivano il pay-per-click, l’unico dato sul quale abbia senso ragionare.

    Cerco sempre infatti di non pagare più di 10 centesimi per click e mi rifiuto di fare acquisti da chi mi propone pacchetti di “viste” a forfait.

    E per spendere poco, preferisco l’ADV testuale ai banner pubblicitari (con la copertina del libro) che in genere costano 24 centesimi a click.

    E poi ho fatto una mini campagna di acquisizione di utenti sulla Fan page di Facebook di Omicidi in pausa pranzo e ogni tanto picchio cinque euro su un post dove metto il link a qualcuno dei miei libri.

    Potrei continuare ancora a discettare dell’argomento, ma se dovessi dire che l’ADV è l’ingrediente segreto del fatto che UNO dei miei libri vada bene, mentirei.

    L’ingrediente segreto è sempre e solo uno: farsi un gran culo.

    Ho un figlio ancora piccolo e non mi posso pagare la baby sitter per uscire.

    Sono chiusa in casa e posso solo leggere o usare il PC.

    Non ho più la televisione e mi fa schifo cucinare.

    Quindi posto le mie cazzatine sul blog.

    Prosit!

    P.S. So perfettamente che quando do i miei due euro al giorno ai grandi monopolisti del web sono un pollo.
    Ma sono un pollo digitalizzato e mi piace razzolare sul web.
    Il mio UNICO e ULTIMO VIZIO.

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    Web stress

    Lo stress da web è una delle patologie – recenti – più diffuse.

    I sintomi sono molto chiari.

    Si contano i “Mi piace” ai propri post su Facebook o sulle Fan pages, si gioisce quando un post riceve un alto numero di commenti o quando un Tweet va alla grande (retwittato, eccetera). Poi ci sono le foto su Instagram o su Flickr, i “Mi piace” o i commenti sul canale di Youtube, e così via.

    Se i “Mi piace” e tutto il resto sono tanti, ti migliora l’umore, se invece nessuno ti ha cacato, ti viene una depressione micidiale.

    Ci sono anche degli algoritmi che misurano quanto “peso” hai nella rete – il più famoso è l’indice di Klout – che misurano quanto lunga è l’onda virale suscitata dai nostri post sui social network.

    Ho conosciuto persone che si vantavano di avere un Klout molto alto, ma la maggior parte degli adolescenti che bazzicano sul web, il Klout ce l’hanno basso. E anche se non sanno che cos’è l’algoritmo che misura la loro influenza, passano le giornate a cercare sulla Rete qualcosa di molto divertente – video, in genere – da postare su Facebook (per farsi dare un “Mi piace” dagli amici), e poi controllano compulsivamente come stanno andando i loro post.

    Lo stesso discorso vale per Instangram e per i social network più facili da usare di Twitter, che invece ha sempre raccolto l’utenza più sofisticata del web e sembra stia per trasformarsi in qualcosa di più simile a un social network tradizionale (con foto e video in evidenza).

    Insomma, lo stress da web prevede la ricerca compulsiva di contenuti da pubblicare (che spesso sono solo copiati dalla Rete, solo raramente sono prodotti da chi li pubblica), e poi il controllo compulsivo per verificare l’effetto che hanno avuto.

    Come sia possibile guarire da una siffatta dipendenza – che provoca stress – non mi è dato di sapere.

    Ne soffro anch’io, anche se non passo il tempo a cercare su Youtube i video che fanno ridere.
    I contenuti che pubblico sono prodotti da me, ma non è che abbiano un indice di klout così alto.

    Anche perché sulla Rete, l’indice di Klout più alto ce l’hanno i video con i gattini che suonano il piano e i bambini che cadono dall’altalena.

    Insomma, o ci mettiamo a scoreggiare come Frank Matano – che mi fa ridere: è un comico naturale – oppure ci rassegniamo ad avere l’onda corta.

    Lui ha milioni di “Mi piace”….

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    La crudeltà dei social network

    Non ho la minima intenzione di fare come quelle vecchie zie alle quali racconti che forse hai un cancro al seno, e loro ti dicono: “Sapessi che male mi fanno i calli!”.

    No, le minacce a Laura Boldrini sono una cosa seria, e sulla rete possono nascere fenomeni di stalking collettivo sui quali si dovrebbero interrogare sociologi, antropologi e storici, oltre che i membri della Polizia Postale.

    Mai comunque augurerei a nessuno il Great FireWall cinese, che vede impegnato qualche milione di cinesi in operazioni di spionaggio via web degli altri milioni di cinesi che cercano invece di usare liberamente il web.

    Per tenere controllo tutto quello che succede sulla rete – veramente tanta, tanta roba – sono  infatti necessari veri e propri apparati di polizia informatica che possono permettersi solo ricchi regimi autoritari come appunto quello cinese.

    Ma se qualcuno minaccia via web una donna di strangolarla dopo magari averla violentata, beh, secondo me bisognerebbe trovare il modo di applicare subito la legge che prevedere una bella denuncia, e la chiusura IMMEDIATA dell’account sul social network dove la minaccia è stata postata.

    I neonazisti/razzisti/antisemiti non dovrebbero essere in grado di postare su siti pubblici  le loro schifose minacce alle donne di sinistra.

    Ma veniamo ai mie calli (sono io la zia).

    Ho appena pubblicato un libretto su Amazon e sono stata un pochino linciata anch’io, soprattutto per via di qualche refuso che mi era scappato.

    C’è stato in particolare un signore che me ne ha dette di tutte i colori, bollandomi come una cattiva esordiente che doveva ripresentarsi a settembre, con un nuovo libro da essere giudicato (sempre da lui).

    Bene. Confesso che mi hanno offerto (in anni passati) di tenere delle rubrichette di critica letteraria, sempre rifiutate per un innato pudore a parlare male degli altri.

    Mentre invece sui social network si parla male di tutto e di tutti.  La crudeltà e la violenza dei giudizi sembra il tratto principale del postatore medio. A volte anch’io mi ritrovo  a fare battute tremende su Twitter, coperta da un nome che forse non è il mio.

    Non tutti, però, sono così cattivi.

    Un gentile signore ha postato su Amazon un commento gentile al mio ebook che riporto integralmente qui sotto (dopo avergli chiesto il permesso).

    Si può dire quel che si pensa, senza ferire a morte.

    Grazie, Marcello Ghironda.  You’re very kind and fair.

    Sorprendente!

    Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla lettura di questo ebook.
    L’autrice riesce a scrivere un romanzo “italiano” dove, per una volta, i nomi italiani dei protagonisti non danno fastidio (come mi accade coi personaggi delle fiction nostrane), lo stesso fastidio che provo per i nomi inglesi dei protagonisti di altri autori italiani che preferiscono scrivere storie che accadono “altrove” (Faletti, per dirne uno a mio avviso molto sopravvalutato).
    Questo si deve all’ambientazione dello scritto, decisamente “nazionale”, dove è facile riconoscersi, e dove tutti i personaggi si muovono perfettamente a loro agio.
    In questo senso ho trovato le “digressioni” dalla tematica “gialla” molto più godibili dello svolgimento investigativo della storia, in quanto descrivono con arguzia molte situazioni ben conosciute ma raramente così ben usate.
    Avrei voluto dare 4 stelle, ma dopo aver letto le altre recensioni (secondo me troppo “punitive”) ne do 5 per bilanciare un pochino.
    Ovviamente 5 stelle relative al genere e non in termini assoluti…
    A me il libro è apparso anche ben scritto, e gli errori segnalati dagli altri recensori non mi hanno dato un fastidio tale da rendere sgradevole la lettura.

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