Sono tutto fuorché una sociologa, ma anch’io mi chiedo tutti i giorni perché passo così tante ore sui social network.
Diventerò cieca, mi dico, come una volta si diceva ai ragazzini che si ammazzavano di seghe.
Domanda retorica e sillogistica: allora stare sui social network è come farsi una sega?
Un po’ sì, ammettiamolo.
Sei tu da solo col tuo pc, in genere la sera, che scribacchi qualcosa, spesso senza sapere chi ti leggerà, e sperando nel solito “Mi piace” sulla foto del bambino e del gattino.
Ma dove cazzo andresti, se no, con un figlio che il giorno dopo deve andare a scuola e tu hai la sveglia che suonerà alle sei e quarantacinque?
Anche ammettendo di essere disposti a dormire cinque ore per andare a ballare in discoteca, chi cacchio ti paga la baby sitter per il pupo?
Nessuno. Non puoi neanche chiedere alla mamma di settant’anni se ti tiene il ragazzino, perché magari l’ha già fatto quando è uscito dall’asilo.
Ergo, ti schiaffi sui social network, dove commenti di qua, posti di là, fai un “Mi piace” a un amico, perché questa è l’unica socialità surrogata che ci concede la modernità. Liquida o non liquida, ma comunque metropolitana, chiusi come siamo dentro a case piccole in condomini antipatici, con i figli già intossicati da internet, e che si sveglieranno anche loro il giorno dopo alle sei e quarantacinque.
Cosa ci date in cambio se stiamo meno su facebook la sera? Possiamo tornare dal lavoro alle quattro?
Entrare in ufficio alle dieci?
Così magari abbiamo il tempo di organizzare una bella cena?
No, non si può.
Ci rimane solo il “Mi piace” ai gatti degli altri (ne ho due anch’io, sui quali ho fatto addirittura un sito…).