Non amo le collezioni né i collezionisti, perché mi sembra insensato comprare o desiderare sempre la stessa cosa.
Le collezioni sono insensatissime somme di oggetti che si assomigliano: orologi a cucù, uova Fabergé, bambole dell’Ottocento.
Ma c’è una cosa di cui sono stata in questi anni l’involontaria collezionista: le lettere di rifiuto degli editori a pubblicare i miei libretti.
Sono una persona di buon gusto e non farò l’elenco di quelli che mi hanno bocciato, ma posso dire che dell’elenco fanno parte TUTTI gli editori italiani (tranne uno, piccino picciò, col quale però il matrimonio non è andato in porto).
Qualcuno potrebbe dire a questo punto: “E chi se ne frega!”.
Per carità, sto parlando dei soliti casi miei, ma però il libro che (alla fine) mi sono autopubblicata su Amazon sta andando proprio benino.
Si chiama Omicidi in pausa pranzo ed è da mesi in classifica.
Costa molto poco – 99 centesimi – e capisco che un editore posa ritenere il mio successino una forma di concorrenza sleale.
I prezzi degli editori sono molto più alti dei miei, lo so.
Io li posso tenere bassi perché faccio un lavoro VERO da impiegata: sono una scrittrice della domenica, o del lunedì sera, e sui miei libri non guadagno quasi nulla.
E non devo neanche pagare gli stipendi ai dipendenti, come fanno invece le case editrici.
Però, Santiddio, la mia concorrenza non è poi così sleale visto che NESSUNO MI HA MAI VOLUTO PUBBLICARE neanche un mezzo libro!
Sarebbe infatti veramente bizzarro pretendere che gli autori che non sono piaciuti alle case editrici non piacciamo neanche ai LETTORI!
Vorrei quindi bisbigliare agli editori: “Te l’avevo detto che avresti venduto il mio libro“.
Perché, se riesco a vendere l’ebook su Amazon senza quasi nessuna forma di marketing, significa che ai lettori piace e se lo consigliano l’un l’altro, utilizzando anche le moderne forme di passaparola sulla rete.
Quindi, la prima rampogna che vorrei fare agli editori è la seguente: il libro non era poi questa PORCHERIA…
La seconda delle mie doglianze – come direbbe un avvocato – riguarda la scrittura.
A me piace scrivere semplice.
Detesto le lunghe e pretenziose catene di aggettivi con i quali vengono descritti i paesaggi alpini o marini, dove il cielo si colora di un rosso cremisi e vermiglio e le punte dei pini diventano di un verde esangue e smorto al crollare del sole sotto la linea sottile e lontana dell’orizzonte.
Gli aggettivi mi fanno CACARE e li uso solo quando sono strettamente necessari. Ma a quanto pare gli aggettivi fanno schifo anche ai lettori, che preferiscono narrazioni più veloci e meno tronfiamente autocompiaciute.
L’ultima lagnanza riguarda la leggerezza. E le risate.
Nutro da sempre il desiderio di far ridere le persone che conosco.
Desiderio che ho tristemente passato a mio figlio Tommaso, che, grazie alle sue battute in classe, non si è mai spinto oltre l’8 in condotta.
Anche io sono sempre stata da 8 in condotta, e per il gusto di fare una battuta mi sono rovinata (da sola) molte occasioni (in molti campi).
Però – cazzo! – i miei libri fanno ridere!
Sapete quanto è difficile far ridere?
Cazzo, è difficilissimo!
Eppure mi è capitato di essere stata bocciata con queste parole: “Quante risate mi sono fatto quando ho letto il tuo libro, però, mi dispiace, non è pubblicabile!”.
Non ho mai fatto del male a nessuno, né ho mai pensato di scrivere capolavori intramontabili e perenni, ma solo commedie vaporose e lievi, come direbbe uno scrittore laureato. E i 99 centesimi li valgono tutti…
E mo ce lo compriamo pure noi, perché siamo curiosi……baci da un’altra “impiegata vera” che non scrive manco la domenica perché non c’ha la forza ma vorrebbe sempre farlo…….
Ce la puoi fare. Dipende dagli anni dei pargoli. Fino a quando Tommaso non ha compiuto tre anni, leggevo solo il catalogo premi dell’Esselunga.
Io l’ho già letto e l’ho trovato divertente.
Sale e pepe q.b.
Nicola
Da buona scrittrice in erba (ma solo di favole!) condivido ogni parola. Anche a me la battuta scappa spesso, so far ridere. E ho scritto più di un racconto comico, solo per la famiglia. Quindi ti sento “vicina”. Complimenti per il libro, ma anche per questa lettera!