Mio figlio di anni 12 è già un nerd-nerdissimo – chiuso in casa davanti al PC – e io mi sto rassegnando.
Anche non posso né voglio trasferirmi a USSOLO – come nel “Vento fa il suo giro”, un film di qualche anno fa – insieme a un branco di pecore, e mettermi a fare formaggi in un paese di un centinaio di abitanti.
Non so quanti abbiano visto quel film – a Milano lo diedero al Mexico per mesi – in cui un professore francese portava la famiglia a vivere nella Valle Maira e si metteva ad allevare le pecore.
La storia naturalmente finiva male, e il professore tornava in Francia insieme a figli e capre.
Io però sono sicura di non volere vivere nell’Ottocento, senza il bisogno di trasferirmi a Ussolo per vedere come butta.
Sono contenta di avere la lavatrice e il frullatore, e sono felice di avere uno smartphone e anche un PC.
E quindi devo essere contenta di avere un figlio attaccato al PC, perché l’unico modo per staccarlo sarebbe appunto quello di portarlo ad allevare pecore.
Cercherò di fare un elenco dei motivi per i quali bisogna essere contenti di avere un figlio nerd.
E per farlo, citerò anche un post che Zio Lupus ha appena fatto su questo blog.
Non conosco Zio Lupus, ma è stato sicuramente parte della famiglia dei nerd, che conosce molto bene.
Comincio da quello che ha scritto (e che riassumo in due concetti):
- i giovani al giorno d’oggi vivono in un mondo caotico e deconcentrante , non possono più socializzare come sarebbe nella loro natura,
- il gioco contribuisce a dargli una tribù, una stabilità: le persone nel mondo reale spesso cambiano mentre quello virtuale è molto più stabile, proprio come quello paesano di mille fa.
Penso che abbia ragione, anche perché ormai Tommaso è passato ai videogiochi dove si gioca insieme a una squadra di amici, tutti collegati insieme su Skype.
Tommaso e i suoi amici parlano continuamente tra di loro mentre giocano, e le sue serate milanesi – chiuso in casa con una madre stanca dalle undici ore passate per andare e tornare dall’ufficio – sono diventate all’improvviso divertentissime.
Lo sento gridare cose del tipo: “Scappa da lì!“, “Ti sta uccidendo!“, mentre dall’altra parte gli rispondono i suoi compagni di classe, anche loro furiosamente nerd, che stanno combattendo nello spazio galattico di Dark Orbit o nelle campagne romane di Minecraft.
So perfettamente che quella è una socialità surrogata rispetto a quella di cinquant’anni fa, quando i bambini giocavano per davvero e tutti insieme (fuori di casa).
Ma ormai siamo chiusi dentro le nostre case e le nostre vite metropolitane non si svolgono più all’interno dei quartieri: gli amici di Tommaso abitano lontano e farebbero fatica a vedersi per davvero.
E poi, mentre giocano, i ragazzi imparano anche a usare il computer, senza far fatica.
Di sera sento Tommaso e i suoi amici parlare di server, Java, righe di codice da copiare, come se anche tutto quello facesse parte del gioco.
Certo, i ragazzi devono fare anche uno sport, dovrebbero leggere dei libri o dei fumetti, per imparare a mantenere fissa la concentrazione sullo stesso oggetto per più di un secondo, ma noi non sappiamo come sarà il lavoro tra vent’anni.
Probabilmente anche gli operai specializzati dovranno essere bravissimi ad usare il PC e forse dovranno saper compiere molte azioni nello stesso momento, sia nel mondo fisico e in quello virtuale.
Tommaso si sta allenando ai lavori del futuro, ne sono certa.
Sono rassegnata, e comincio a essere anche (un po’) contenta.