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Io, madre di figlio prepensionato undicenne

Scrivo le mie porcatine di sera, invece di guardare la Tv.

Prima faccio lavatrici, cucino, pulisco la cucina e cerco di stimolare mio figlio ad avere una conversazione con me, o quanto meno a prodursi in un veloce scambio di opinioni sui fatti del giorno (la scuola, nel suo caso).

Bene, ricevo in genere risposte ingrugnite da preadolescente, che non mi turbano,  se non fosse per l’abbinamento delle risposte in questione alla vita da pensionato che conduce il ragazzo.

Tommaso torna a casa da scuola alle sei, perché fa il tempo pieno, si mette DA SOLO il pigiama, e poi si sdraia sul letto, davanti al computer.
Guarda sul Pc le Tv digitali, dopo che ho distrutto la nostra televisione in un accesso di rabbia, a colpi di spazzola (per i capelli).

Tommaso non vuole fare nulla: aiutarmi a cucinare, parlare con me, spazzolare i gatti.
Niente, guarda in silenzio dei manga giapponesi, colmo di odio per la madre.

La cosa mi irrita, e comincia a irritare anche i vicini perché urlo come un animale per cercare di stanarlo dal suo letto peloso, che condivide con uno dei gatti, sempre sdraiato vicino a lui.

Non so cosa sia successo: era un bambino simpatico.

Viziato troppo? Pappa sempre pronta? Mai nessuna richiesta di prestazione? Neanche quelle minime che si fanno ai bambini?

Il problema è questo: la mamma che lavora si sente una merda, torna a casa la sera alle sette e fa TUTTO quello che può per accontentare il frugolotto. Che a undici anni diventa uno smidollato, privo di reazioni vitali.

Nessuno ha mai chiesto niente a Tommaso, neanche di mettere nel cesto della biancheria i suoi calzini puzzolenti.

Le tate che si sono occupate di lui – in realtà erano tati – hanno sempre fatto in modo che lui non si preoccupasse di nulla: servito e riverito.

Mai sgridato una volta, perché comunque non faceva NULLA di male. Nel senso letterale.  Non facendo NULLA, non poteva sbagliare.

E adesso c’è uno smidollato a letto, nella stanza di fianco, in pigiama, che guarda dei manga giapponesi.

Mentre io mi dispero in silenzio (davanti al Pc).

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Ciao, sono la mamma di…

Ho smesso di dire il mio nome e cognome quando mi presentavo, il giorno in cui Tommaso ha cominciato ad andare all’asilo.

Dicevo solamente: “Ciao, sono la mamma di Tommaso”.

Le altre mi rispondevano: “E io sono la mamma di Tizio”.

Una perdita identitaria che continua tuttora, arrivati alle medie.

Continuo a dire: “Ciao sono la mamma di Tommaso”, e magari aggiungo: “E tu sei la mamma di Tizio?”.

Ma capita sempre più spesso di sbagliarsi, dopo tre cicli scolastici, e l’altra magari mi risponde: “No, sono la mamma di Caio”.

Ogni tanto, qualcuna aggiunge il suo nome: “Mi chiamo Giovanna”, ma sappiamo tutte che il nome della madre sarà duro da ricordare.

Per fortuna ci sono gli Excelini con il nome del bambino, abbinato a quello della madre, con indirizzo email e numero di telefono, sul quale andare a ravanare quando ci sono le feste e le telefonate da fare per gli inviti.

Li ho stampati tutti e poi li incollo sull’agenda.

Ormai sono arrivata al terzo Excelino, perché mio figlio vede ancora i compagni dell’asilo e delle medie, e mi servono i numeri delle loro  mamme.

Anche quest’anno, alla prima riunione di classe, ci siamo subito buttati a fare l’Excel, compilando dei fogli che poi abbiamo messo in palio: “Chi vuole fare l’Excel?”.

Ha vinto una mamma che ha cercato di inserire anche dei nuovi campi: telefono fisso e indirizzo, ma quasi nessuno li ha compilati.

Tra un po’ nell’Excelino di classe metteremo anche il Codice Fiscale e il numero di tessera sanitaria: qui al nord siamo un po’ ossessivi.

La mamma in questione ci ha subito mandato per email la sua lista, ed è partita la solita buriana per raccogliere 10 euro per la bibliotechina di classe e organizzare la piazzata a Natale.

Poi, ormai siamo arrivati alle medie, le email si sono fermate.

Dopo 8 anni (3 di asilo e 5 di elementari) di mercatini di Natale e festa della scuola, confesso di non farcela quasi più.

Belli, bellissimi i ricordi di Tommaso che canta la canzoncina di Natale con una stellina sulla testa, ma ho voglia di tornare a presentarmi col mio nome e cognome.

Domanda da un milione di dollari: fatto 100 il numero di mamme che si presentano con “Sono la mamma di…”, quanti sono i papà che si presentano con: “Sono il papà di…”.

15?

Troppo ottimista?

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Mamma, non va la Rete!

Quasi impossibile fare l’elenco di tutto quello che una moderna casalinga-lavoratrice deve tenere sotto controllo.

Anche la connessione internet di casa, ma prima di parlarne, vorrei fare una premessa.

Son cambiati i tempi, ahimè, in cui ti compravi il frigorifero bombato il giorno prima delle nozze, e te lo portavi fino alla tomba, senza dover cambiare neanche la maniglia.

Con l’elettronica, invece, l’instabilità dell’elettrodomestico ti conduce a stipulare forme di garanzia perenni, perché sai che prima o poi qualcosa si romperà.

Le garanzie in questione hanno tutte dei nomi tipo “Serena”, “For ever”, eccetera, ma in realtà la copertura massima è di 4 o 5 anni.

Solo riuscire a stipularle è un lavoro a sé, e poi le devi conservare in cassaforte, perché se le perdi, ti ricompri il frigorifero.

Bene, posso dire di avere utilizzato ognuna delle varie assicurazioni stipulate, perché tutto quello che abbiamo in casa si è scassato.

Il termostato del frigo QUATTRO VOLTE.
Il forno UNA VOLTA.
La lavatrice DUE VOLTE.
E potrei continuare.
Tutte le volte si rompe uno dei componenti elettronici e bisogna cambiarlo.

Ma vogliamo parlare dei computer?

Quello da cui scrivo è stato “rifatto” due volte, la prima in garanzia, la seconda no.

Quello di mio figlio si è rotto e l’abbiamo ricomprato, e i cellulari diventano obsoleti due ore dopo che li hai portati a casa (o ordinati su internet).

E adesso parlerò finalmente di un tema caro a tutte le mamme: la connessione internet.

Confesso di avere fatto un paio di grossi errori nella vita: ho cambiato due volte operatore telefonico, per cercare di risparmiare qualche euro.

In Italia, viene premiato il cliente infedele, e cioè colui che cambia operatore una volta ogni due mesi per risparmiare sulle tariffe.

Se resti con lo stesso operatore, ti bastona.

Ecco, grazie al mio tentativo – innocente – di risparmiare qualche euro, ho passato dei mesi al telefono con i servizi clienti dei vari operatori per cercare di capire perché non andava la rete.

Tutte le telefonate avvenivano di sera, in genere, mentre stavo cucinando qualche schifezza veloce, e avevo i panni da distendere, tirati fuori dalla lavatrice appena aggiustata.

E mentre io ero al telefono con l’operatore, mio figlio urlava dall’altra stanza: “Mamma, non va la Rete!”.

Qualcuno sa come si fa per tornare all’Età della Pietra?

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La telemalattia

In Italia il telelavoro non è ancora abbastanza di moda perché le aziende siano disposte a concederlo ai lavoratori. O alle lavoratrici.
Ma non voglio disquisire sul fatto che il telelavoro sia cosa buona e giusta, oppure no.
La mia tesi è un’altra: in Italia la telemalattia non si nega a nessuno. Anzi a nessuna.

In questi mesi invernali, stagione delle influenze, negli uffici si sentono solo madri al telefono che teleguidano la malattia dei figli, dando istruzioni sanitarie a nonni, parenti, tate.

Ecco un esempio delle conversazioni che puoi orecchiare in qualsiasi ufficio.
Con nonni, tate, tati, la mamma ripete in genere una litania di:

“Quanto ha di febbre? Gli hai provato la febbre?”
“Ha trentanove! Ancora?”
“L’antibiotico gliel’hai dato? Era la dose da 350!”
“Cosa? Ha vomitato l’antibiotico?”
“Quando sono uscita stava ancora dormendo…”
“Come, non si è ancora svegliato?”
“Allora ha la febbre alta!”

Poi la mamma si fa passare il frugolotto e parte la litania pro-baby:

“Amore, sono io….”
“Sì, ti voglio bene e torno presto!”
“Amore, sì, sì, mi manchi…”
“Sei il mio topino! Sei la mia topina! (seguono altri grugniti di intesa animale volti alla rassicurazione del malatino/a).”
“Sì, torno presto, te lo giuro!”
“Sì, amore sì…”

A questo punto, la vera-mamma, di fronte alla milionesima richiesta di “Quando torni?”, pronunciata dal malatino col groppo in gola, riesce a chiudere dolcemente la telefonata, bisbigliando innumerevoli: “Ti voglio bene…”,  perché se no lui/lei passerebbe la mattina al telefono a chiederle: “Mi leggi una favola?”, “Dove sei?”, eccetera, acuendo il suo già orribile senso di colpa.

La mamma-stanca, invece, chiude velocemente la telefonata in due modi.
Il primo: gli sbatte il telefono in faccia, dopo un ultimo ma assertivo: “Topino, ti voglio bene!”.
Il secondo: raglia un altrettanto assertivo: “Passami la nonna! Passami la nonna! Passami la nonna!”, fino a quando il pupo non molla la cornetta.

Si pongono allora di fronte alla mamma-stanca in telemalattia due ulteriori alternative.
La prima: riprende con la nonna la conversazione di prima, ricominciando da: “Quanto ha di febbre? Gli hai provato la febbre?”.
La seconda: tira il telefono in faccia anche alla nonna: “Ti chiamo dopo, ciao!”, e si rimette a lavorare.
Probabilmente ha un po’ di febbre pure lei: il topino le ha attaccato l’influenza, ma non abbastanza da farla stare a casa senza sensi di colpa (verso l’ufficio). E non ne può più. Dell’antibiotico, del vomito, dei nonni.

Adesso, una domanda da 10.000 punti.
Qualcuno ha mai sentito un maschio – voglio dire un impiegato – in telemalattia?
Mai sentito un collega chiedere alla tata del pupo: “Quanto ha di febbre?”.
Mai percepito i dolci suoni gutturali di intesa tra figlio e genitore, che fanno anche cani, gatti, eccetera?

Dai, la risposta è no.
Ok, l’utero ce l’abbiamo noi. Anche le tette.
L’istinto materno, anche quello ce l’abbiamo noi.
Ma allora perché anche noi dobbiamo stare otto ore in ufficio?
Perché nel nostro bel paese non ti danno il part time neanche a morire?
Perché abbiamo ringraziato la Fornero quando ha dato uno, leggasi UNO, giorno di ferie al marito – impiegato – della partoriente?
Legge approvata nel 2012, tra gli applausi commossi delle folle di lavoratori e lavoratrici festanti?
Accidenti, in Italia facciamo meno di un figlio a testa, e in quel giorno tuo marito deve prendere le ferie, se vuole tenerti la mano in ospedale?
No, per Dio, no! Non va bene!

Mi ricordo ancora la faccia di un collega – bianco, pallido, uno straccio – che era arrivato in ufficio alle nove del mattino, dopo che la moglie, durante la notte, aveva partorito. Era distrutto, cazzo, distrutto, anche lui.
Ma non voleva mangiarsi le ferie, perché si dice così: “mangiarsi le ferie”, quando non le usi per andare in vacanza.
Ecco, noi siamo il Paese della telemalattia. Non del welfare, quello no. E manco dei diritti delle mamme e dei papà.

Ma non voglio sputare troppo nel piatto in cui mangio.
Le impiegate hanno la gravidanza pagata. Più difficile licenziarle. Più tutelate. Possono fare UN figlio. Qualche coraggiosa ne fa addirittura DUE.
Ma una precaria, no, come fa?
Chi ti rinnova un contrattino di sei mesi se hai la pancia?
Nobody, nobody, nobody.

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